In assoluto i momenti in cui la moda vive il suo allineamento planetario in cui tutte le forze convergono nel produrre spettacolo, soldi ma anche senso sono le settimane della moda femminile che si svolgono a Milano, New York, Londra e Parigi a settembre e a febbraio.

Esclusiva ed escludente

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Una fashion week non è un salone del mobile. Non è possibile vagare per la città entrando in posti altrimenti inaccessibili e, se stremati, fermarsi sui navigli a prendere un caffè. Non è possibile lasciarsi condurre dalla casualità, dal flusso degli amici e darsi appuntamenti con il solo fine di bere a scrocco.

Una fashion week è una lunghissima lista di sfilate rigidamente organizzate a cui è possibile accedere solo dopo lunghi scambi di mail con i pr, sparpagliate per le città in maniera da rendere ogni secondo importante se si vuole riuscire a partecipare, distribuite tra le 9 della mattina e le 9 di sera senza pause pranzo e costruite con l’idea di lavorare sull’esclusione e mai, assolutamente mai, sull’inclusione. Qualcosa a metà tra Pechino Express e il Festival del cinema di Venezia.

Tutto questo succede perché ciò che è apparentemente escludente sembra più glamour ma anche perché una sfilata è una cosa molto vicina a una rappresentazione teatrale che non può essere fruita se non nella calma assoluta e nel buio di una location circoscritta e controllata. La moda è un gigantesco costruttore di senso e le sfilate sono il massimo momento della sua espressione, per questo vale la pena riflettere su cosa è successo durante l’ultima fashion week milanese per capire se quella che viene percepita come una colossale industria dell’effimero è in realtà anche in grado di scandagliare la realtà e restituirci, sul piano estetico, delle chiavi interpretative.

Questioni di identità

I tre momenti più interessanti sono stati le sfilate di Gucci, Bottega Veneta e Dolce & Gabbana. Gucci, che come Bottega Veneta è parte del colosso del lusso francese Kering, sotto la guida del direttore creativo Alessandro Michele è diventato uno dei marchi più profittevoli del mondo attraverso un linguaggio visivo che ha un’immediatezza capace di parlare a tutti i segmenti anagrafici e con questa sfilata ha riaffermato il suo primato di cassa di risonanza per istanze sociali che passano attraverso la questione dell’identità.

In mesi di casting, da tutto il mondo sono arrivate 68 coppie di gemelli omozigoti che hanno sfilato prima separatamente e poi insieme, creando un’esplosione emotiva (andate sul sito di Gucci e guardatevela) che parlava di riunione e pacificazione sia in termini personali che universali, entrando in maniera emotiva nelle teste stanche di tutti i presenti e riavvolgendone i nastri dell’ascolto fino a farli tornare attenti, felici e con gli occhi lucidi.

Per Alessandro Michele la componente emotiva della comunicazione è sempre stata importante ma questa volta il flusso narrativo era molto più vicino a un finale di stagione di Euphoria, personale e lievemente disturbante, che a una messa in scena di abiti. Michele ha detto di avere vissuto con due madri, cioè con una madre biologica e con la sorella gemella, relazionandosi con loro nello stesso modo e scoprendo molto tardi quale fosse la realtà. Un elemento che aggiunge profondità al racconto e che porta la sincerità e l’autobiografismo al centro dell’attenzione, in un momento in cui la pesantezza del sociale sposta l’attenzione verso l’esterno e il tema delle famiglie e dei legami familiari è diventato estremamente politico.

Artigianato in primo piano

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Al limitare opposto dello spettro comunicativo sta Bottega Veneta, il cui neo direttore creativo Matthieu Blazy ha costretto ogni tipo di messaggio dentro gli abiti e non ha voluto lavorare su grandi narrazioni ma ha scelto di spingersi in maniera microscopica all’interno dello sviluppo del prodotto, scendendo dall’universale al molto, molto particolare. In Italia siamo famosi per l’artigianato che però da solo rappresenta unicamente una conoscenza tecnica profonda e il problema della dissoluzione dei saperi pratici deriva anche dal fatto che, per farli sopravvivere, devono acquisire un linguaggio contemporaneo.

Da Bottega Veneta tutto ciò che si chiama saper fare italiano, dalla pelle, alla maglieria, agli accessori, ai capispalla fino ai ricami, ha riconquistato una centralità progettuale che sinceramente non si vedeva da tempo. Lontano da una visione nostalgica dell’artigianato, Blazy ha composto una sfilata fatta di pezzi singoli connessi dalla volontà di raccontare il lusso attraverso il lavoro di chi lo crea, evitando accuratamente di trovare fili logici inesistenti e dimostrando come un marchio può essere costruito attraverso un’idea di iper realismo quotidiano e localizzato ma comprensibile da Los Angeles a Shanghai.

Raccontare il corpo femminile

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Il terzo momento tematico interessante è stata la sfilata di Dolce & Gabbana che hanno deciso di coinvolgere la mega celebrity Kim Kardashian per ripercorrere i loro archivi, dal 1986 al 2006 per la precisione, e costruire una collezione fatta solo di riedizioni di capi esistenti. O esistiti. Il risultato, invece di essere autocelebrativo, ha dimostrato come si possa guardare al passato di un brand e scegliere un aspetto specifico, raccontandolo con un’attenzione curatoriale per rimettere a fuoco il campo valoriale del brand. In questo caso tutta la collezione ha ripercorso il racconto del corpo femminile, forse la cosa che ha più caratterizzato Dolce & Gabbana, nella sua parte spoglia, minimalista, senza colori o eccessi decorativi.

Tagliati fuori gli eccessi massimalisti, quello che è rimasto è l’essenza dell’erotismo italiano, del corpo come parte fondamentale della costruzione dell’identità e della sua visibilità come forte affermazione della prevalenza del femminile sul maschile.

Qualcosa che sta sotto la superficie di tutte le Anna Magnani e Monica Bellucci e che viene spesso interpretato come capacità seduttiva ma che invece, soprattutto nel meridione, è la serenità di riferirsi al proprio corpo come uno strumento di auto affermazione e magari anche di potere.

Una scomoda casa antica

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Con il passato si sono anche scontrati un gruppo di designer che per la prima volta hanno preso in mano marchi italiani, solidamente gestiti dalle famiglie fondatrici, per disincagliarli da ormeggi troppo pesanti e portarli nella contemporaneità.

Così è successo a Marco de Vincenzo da Etro, a Filippo Grazioli da Missoni, a Maximilian Davis da Ferragamo e, anche se il marchio è svizzero e da tempo non più di una famiglia, a Rhuigi Villasenor da Bally.

L’heritage, cioè la storicità, costituisce una potenziale ricchezza commerciale perché la notorietà del brand aiuta a penetrare (o rientrare) nei mercati più velocemente ma crea anche un profondo dissidio sul come mettere a terra contenuti valoriali e estetici che esistono da decenni e che non sono mai stati toccati o non sono più in linea col contemporaneo.

L’abitudine a frantumare l’heritage e a ricostruirlo è in realtà estremamente sana ma questa fashion week ha dimostrato quanto poco sia radicata in Italia e quanto passare da una gestione familiare personalizzata a una manageriale, fredda e razionale, sia complesso e richieda tempo.

Le famiglie Missoni e Etro sono di fatto uscite dalla proprietà e quindi dalla gestione dei marchi, mentre i Ferragamo, pur continuando a mantenere il controllo, hanno affidato a Marco Gobbetti, nuovo Ceo, le decisioni strategiche mentre Bally si trova più o meno nelle stesse condizioni anche se è di proprietà di un fondo cinese.

In ogni sfilata c’è stato il tentativo di superare i limiti della storia e in ogni sfilata i limiti si sono fatti sentire sotto forma di poca chiarezza, sfasamento, necessità di ulteriore riflessione. Il problema di avere una bellissima ma scomoda casa antica è se spaccare i pavimenti per far passare i tubi del riscaldamento o mantenerli integri e soffrire il freddo.

Il ricambio necessario

Infine ci sono le nuove generazioni che hanno i nomi di Marco Rambaldi, Act N.1, Andrea Adamo, ATXV, Christian Boaro, Des Phemmes, Vitelli, Cormio e Alessandro Vigilante che costituiscono un nutrito gruppo e fanno ben sperare in un ricambio generazionale quanto mai necessario.

Sulla scena da pochissime stagioni, gli emergenti della moda italiana stanno innanzitutto dimostrando che è possibile fare impresa da giovanissimi in Italia e avere velocemente una rilevanza internazionale ma stanno anche soffrendo, chi più chi meno, di mancanza di concrete opportunità di sviluppo che nel mondo di oggi equivale a dire di investimenti o finanziamenti.

Per sopravvivere nel mercato globale, onnivoro e caotico, sono necessarie energie mentali, creative ed economiche che rendano il messaggio solido nel brevissimo periodo che tradotto vuol dire fare collezioni ben realizzate, creative ma commerciali, avere una distribuzione intelligente e una forza comunicativa sufficientemente potente da arrivare in ogni angolo del mondo.

Non semplicissimo per dei trentenni (chi più chi meno) che non hanno a disposizione aziende strutturate ma che dovrebbero invece avere il supporto di un sistema che in Italia fa fatica a unirsi.

I temi di quest’ultima settimana della moda sono fortemente interconnessi con i problemi del nostro sistema industriale, con la capacità di superare i passaggi generazionali e con la volontà di creare un sistema unito, che sono tipici di tutta la filiera del made in Italy e che sono piuttosto lontani dall’essere risolti.

Probabilmente uno degli obiettivi che dovrebbe darsi il prossimo governo è di mettersi in una posizione di ascolto rispetto ad un sistema così ricco e dinamico, così aperto al cambiamento e così sinceramente trasparente rispetto ai propri problemi. È probabile che dentro i problemi ci siano anche le possibili soluzioni se si è in grado di vederle.

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