Sarebbe naturalmente inelegante per un uomo della mia risma mostrarsi efficace o addirittura performante in qualsiasi incombenza di natura pratica; per mantenere fede all’idea che si ha di me tendo a nascondere le mie doti di uomo tuttofare, pratico, che sa “sporcarsi le mani”, un uomo, lo dico senza boria, capace di riparare rubinetti, pitturare intere pareti e costruire librerie – non è poco! – figuriamoci arrivare in automobile nella city di Milano, parcheggiare con efficacia e raggiungere con sicurezza il padiglione 4 del MiCo.

Ci si va perché alle ore 18:00 qui si tiene il vernissage abbastanza esclusivo del MiArt, la fiera milanese dell’arte contemporanea e del Novecento – mica pizza e fichi. Il mio anfitrione, l’uomo cui devo il Qr code che ho nel telefono e che mi dà accesso all’esclusiva preview, sopporta con divertito distacco i due chilometri aggiuntivi a piedi necessari per raggiungere la venue data la mia scarsissima performance di orienteering, in ossequio a quanto sopra specificato.

Mettersi in coda

Sarà che il mio istinto mi ha portato naturalmente a parcheggiare proprio sotto lo shopping centre – la vera arte contemporanea è lì, ma che ve lo dico a fare, non siete nati ieri – insomma, sarà quel che sarà, ma ci mettiamo venti minuti buoni per arrivare a una coda che ci segnala con tutta evidenza che il nostro invito dopotutto non è così esclusivo, che c’è sempre qualcuno più esclusivo di te, anche quando senti che stavolta sarai tu e non altri a vedere, sapere, dire prima di tutti. No; non è così.

Fortunatamente la coda pur lunga si esaurisce velocemente. Saluto alcuni amici – uno di essi aveva un invito più esclusivo del nostro, ha già visto quel che doveva vedere (o meglio chi doveva vedere) e va allegramente a bersi un Negroni sbagliato; un altro amico, ancora più chic, pur avendo, senza nemmeno saperlo, l’invito di livello superiore, è in coda con i comuni mortali del livello due di esclusività.

Ad ogni modo in pochi minuti siamo all’ingresso. Naturalmente proprio quando arriviamo noi le porte si richiudono; ingressi scaglionati, ça va sans dire, tocca aspettare. Sono già quasi le 18:30, mi sento sempre meno esclusivo. E mi sono anche vestito abbastanza bene; ho messo la mia camicia di lino blu da donna di Muji (le camicie da donna di Muji sono molto meglio di quelle da uomo, sappiatelo).

Siamo della televisione!

A un certo punto, improvvisi come due cuccioloni maleducati e giocherelloni che si scaraventano nel recinto dei cani, arriva una coppia. Lui ha un doppiopetto con i polsini della bianca, inamidatissima camicia annodati da due gemelli della dimensione di un fermacarte da scrivania. Accanto a lui una signora – avrà cinquant’anni – alta, in buona forma anche se piuttosto prosciugata, con un vestito assolutamente inadeguato all’occasione (occasione che, è già chiaro, è del tutto trascurabile: solo un livello due o forse due B se non addirittura 3 di esclusività pomeridiana); ella indossa un aggeggio multistrato indecifrabile di biondo striato, come i lunghi capelli che frangettano i suoi occhi preoccupati e molto compresi del suo ruolo che scopriremo a breve.

L’uomo dice: «Noi dobbiamo, passare senza fare la coda; abbiamo quest’invito!». I due signori dalle gigantesche pance che a stento trattengono i bottoni ventrali delle loro candide camicie – le guardie, cioè – gli dicono che questa è una coda che prescinde dalla qualità dell’invito, invito che, come subito notiamo io e il mio anfitrione, è assolutamente identico al nostro. La coda è una coda pandemica! Siamo zombie e in quanto tali accomunati dagli stessi desideri ed equivalenti diritti.

Ma l’uomo coi gemelli non si arrende e dice la parola magica: «Ma noi siamo della televisione!». Io, superato lo sbigottimento, rido a crepapelle insieme ai colleghi di coda e subito faccio presente che IO sono dell’Internet, sono dei giornali, sono un regista, uno scrittore, ho fatto un sacco di cose, pure la televisione, ho il cv nel cloud del telefono, controllino pure, ho fatto anche la radio, ora che ci penso, vengano a guardare, vengano, e ciononostante sto in coda come tutti!

La signora bionda non capisce che scherzo e accusa il colpo, il signore con i gemelli giganteschi no e continua insistere al punto che lo fanno passare. Tuttavia – va detto con onestà – la coda è composta da persone di un livello intellettuale per cui la cosa genera solo complice ilarità, tanto più che un secondo dopo siamo ammessi all’ascesa delle scale tonde a spirale che portano al piano superiore.

Inconsapevolmente ciechi

La salita, guidata com’è dalla forma delle scale, ci incolonna come i protagonisti di Cecità di Saramago che sto rileggendo proprio in questi giorni per colmare la nostalgia per i giorni più duri della pandemia. Penso che esattamente come loro siamo degli zombie, ma a differenza dei ciechi di Saramago non siamo affamati di altri corpi o di scatolette di simmenthal; siamo zombie culturali – ciechi, naturalmente, o meglio, inconsapevolmente ciechi – «ciechi che seppur vedendo, non vedono». Siamo zombie sociofilici, assetati sì di carne, ma solo di buona qualità! Illusi. Ciechi e illusi.

Ad ogni modo, completata l’ascesa e relativa profonda riflessione sopra riportata, eccoci nel padiglione quattro del MiCo, nel bel mezzo della fiera dell’arte, il mercatino dell’usato di ricchi, wannabes e parvenù. Naturalmente – sarà un caso? non credo proprio! – la prima galleria che si incontra è Cardi, una galleria che a mia memoria è di proprietà anche di Barbara Berlusconi.

Penso (giusto per un secondo, che qui abbiamo altro da fare), al fatto che Berlusconi si sia rifiutato di sottoporsi a perizia psichiatrica per il processo Ruby Ter; i magistrati hanno il ragionevole dubbio che il suo malanno sia selettivo, ovvero gli impedisca solo di comparire al processo, e non, per fare esempi semplici, farsi fotografare oggi qui e domani lì, parlare oggi qui e domani lì; un malanno, cioè, psicosomatico; di rara occorrenza e perciò degno di compassione. Per questo i magistrati, piuttosto che in una lucida strategia d’evasione, ne individuano la causa in un doloroso deficit psichico, qualcosa di profondo che gli impedisce di essere in forma proprio in quei giorni lì; un malanno curabile e dunque da curare, per dio! Si faccia aiutare, vogliamo solo il suo bene! Berlusconi – a quanto ho capito ne ha il diritto – ha detto no.

No! Mai e poi mai! Come si permettono? Mettere in dubbio la sua sanità psichica, con tutto quello che ha fatto, dalla creazione dell’universo – intervallata da spot di grappe e pannolini, subito dopo che la luce fu – fino all’unico vero partito liberale italiano! Ma vabbè, divago, la galleria Cardi ha proposte che non riesco a decifrare, dunque io e il mio anfitrione procediamo come ragazzini al sabato pomeriggio nel corso principale di una cittadina di provincia, senza tuttavia avere la motivazione testosteronica che ogni ragazzino di provincia ha come motore primo di ogni vasca consumata nel corso principale di ogni cittadina di provincia. Penso ad Arbasino e penso a Tondelli (macché post-moderno, oggi siamo pre-moderni e tanto ci basti!) e subito sono colto da infernale depressione; ma non c’è tempo.

Quanto costa Beppe Sala?

Ecco che un assembramento segnala un picco di interesse, che porta la folla minima a scalare fluidamente verso una parete bianca. Che ci sarà mai? Un Fontana con un led? Un Burri bidimensionalmente liscissimo e coloratissimo? No. È il mio sindaco! È Beppe Sala che dall’alto del suo metro ottanta e passa arringa un gruppuscolo di indecifrabili milanesi, con la tipica affabilità dettata dalla certezza di aver avuto e per sempre avere, in saecula saeculorum, una vita di successo.

Non sento una parola di quello che dice e sussurro al mio amico: «Ma secondo te quanto costa Beppe Sala? Più o meno di un Burri?». Una signora mi guarda storto, momento di passeggera felicità, nel 2021 ci sono ancora borghesi che si fanno epatizzare.

Proseguiamo godendoci la grande qualità dell’impianto dell’aria condizionata, che ci mette a nostro agio, sollevati dall’afa da sudest asiatico di questi giorni; del resto, come nei supermercati e negli hotel, l’aria condizionata è uno strumento di vendita ormai necessario; è scientificamente provato che sotto i 16 gradi e il 30 per cento di umidità relativa, l’arte contemporanea non solo si conserva meglio, come il pesce blu, ma si vende pure.

Ma noi non siamo qui per comprare, anche se, incredibile ma vero, sopra qualche targhetta c’è già il bollino rosso che significa “venduto” e io mi chiedo se non è arrivato qua già venduto quel Boetti – com’è possibile che un collezionista aspetti la fiera per comprarsi un Boetti? Non è possibile, infatti. Però fa scena e quindi vai di bollino rosso.

Peraltro non ho mai compreso il culto del possesso, il desiderio patologico dell’esclusività, dell’originale. Sono un fan accanito dei falsari di ogni risma: da quelli che stampano banconote ai gran copiatori d’arte fino addirittura ai creatori di opere famose mai esistite – c’è un brillantissimo film sul tema, si chiama The burnt orange heresy, girato da un regista italiano, Giuseppe Capotondi. Ve lo consiglio: parla di un critico (il Claes Bang di The square) che in combutta con un collezionista, splendidamente interpretato da Mick Jagger, produce un’opera di un maestro che ha smesso di dipingere.

Naturalmente, complice la morte improvvisa e alquanto sospetta del suddetto maestro, che non potrà dunque smascherare gli abili falsari, il quadro scatena i sentimenti più profondi di ammirazione e di wow planetari, altro che fiere e bollini rossi.

Ecco. Seppur volessimo ammettere che l’originale ha il portato storico, l’aura, il Tempo e lo Spazio e l’Anima originali eccetera eccetera, e se anche fossi un collezionista feticista schiavo dell’idea del possesso esclusivo, ecco, se anche fossi quel tale e comprassi – ignaro – un Mondrian falso ma indistinguibile dall’originale, cosa mi starei perdendo dell’esperienza? Niente. Se non lo so, è la stessa cosa. Ma di questo si parla da un secolo, perdonate la nota e procediamo.

No glam, just business

Il flusso ininterrotto, caotico e incongruente delle opere esposte – naturalmente senza alcun senso perché non è una mostra o una esposizione ma una fiera, mi pare la timeline di un social o qualsiasi altra esperienza di browsing: tutto felice speri di scoprire qualcosa di nuovo, ma non appena nel flusso incontri il già noto, ti passa l’ansietta dello sfoglio e ti attacchi a ciò che sai – per fare un esempio, un notissimo Fontana. Così, di colpo, ciò che circonda il notissimo Fontana scompare. Puff! Passi avanti, impossibile resistere – soprattutto per un assoluto non intenditore quale io sono.

Il mio accompagnatore – al contrario di me, raffinato conoscitore – conferma la mia sensazione, tant’è che il suo obiettivo primario è raggiungere una galleria dalla quale ha recentemente comprato (non a una fiera) una serie di fotografie di Barbara Probst, galleria del cui catalogo conosce già tutto a memoria.

Mentre al contrario l’omogeneità dei soberrimi, minuscoli, cubicoli dedicati alle varie testate editoriali che si occupano d’arte, soprattutto contemporanea, fanno tenerezza; il tentativo è chiaro: più che agli abbonamenti qua si punta a racimolare un po’ di pubblicità, ma dai visi rassegnati dei giovanissimi stagisti non pagati che li presidiano, si deduce scarso successo. In cuor mio gli auguro ogni bene e sono naturalmente tentato di abbonarmi a tutte le riviste, ma proprio tutte; soprassiedo, non me lo posso permettere, anche se penso sarebbe una performance degna di nota.

Forse dovrei trovare un finanziatore, qua in giro qualcuno dovrà pur esserci. Sì ma chi? Noto ora l’assoluta mancanza di glam o almeno di tenute eccentriche – ma sbaglio ad aspettarmele, è una fiera, proprio non me ne voglio convincere! Ma almeno, che ne so, un ballerino tatuato con le zeppe, una corona e tredici bassotti al guinzaglio o un vecchio decrepito in carrozzella con lo sguardo di ghiaccio duplicato da quello del suo maggiordomo che in smoking lo spinge fermandosi a un suo impercettibile cenno. E nemmeno un teenager asiatico con sneakers bianche e patrimonio trilardario! Niente di tutto questo. Scruto, indago ma le mie ambizioni sbagliate mi condannano irrimediabilmente alla cecità. Tutto è bianco. Solo milanesi medi, come me del resto. Sono profondamente deluso.

Il sole è calato

Voltiamo l’angolo e in una box c’è una signora che cuce. Buon tentativo, congrats. In quello dopo c’è una galleria che non ha messo i cartellini con autore/titolo, escamotage un po’ trito per far sentir sapienti quelli che sanno e intimiditi quelli che non sanno – figurati chi ha il coraggio d’avvicinarsi e chiedere “scusi chi è quello”? Del resto, lo fa Gagoshian, che t’aspetti che non ci sia il pirla che lo imita? C’è.

All’improvviso vedo un cane piccolissimo vestito di rosa con un guinzaglio sottile e talmente lungo che non si capisce chi ci sia all’altro capo. Sospetto per un attimo la performance – spero sia così, ma no. Laggiù intravedo la padroncina. Vedo tuttavia il canetto avvicinarsi ad alcune opere-tappeti, messi cioè in mostra su basi di legno molto basse, a tiro di, sì, è così, pisciata di cane.

Ora la tensione sale moltissimo, vedo il cane annusare, è pronto, alza la zampetta ma proprio all’ultimo l’essere vivente all’altro capo del filo, per puro caso, lo strattona. Lui se la tiene di malavoglia e io perdo la mia scommessa con me stesso. Era un cane vestito di rosa, comunque.

Lo perdo di vista, travolto da orde di camerieri elegantissimi che muovono una quantità infinità di bottiglie di champagne, che, orrore! Sono vuote, evidentemente destinate ai partecipanti del pre-pre-pre vernissage. Capisco infine che in questa piramide inversa di vernissage ce ne sia stato un primissimo, esclusivissimo al quale non era presente nessuno, solo le opere mute a parlar tra loro dell’inflazione, prima della delicata performance. 

Usciamo attraversando la fiera dell’hardware al piano di sotto, il sole è calato, una pioggia esplosiva riscatta l’attesa dell’autunno, che ancora non c’è.

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