Nel percorrere strade e luoghi della settimana del design milanese può capitare a volte di sentirsi spiazzati e interdetti, di fronte alle invenzioni impreviste che un esercito di designer e industrie dispiega ogni anno tra Milano e il Salone del mobile a Rho/Pero. O meglio, poteva capitare in altre edizioni, perché nel settembre 2021 – dopo diciotto mesi di tira-e-molla per un appuntamento fondamentale per la cultura e l’economia – le proposte progettuali si dimostrano abbastanza omologate e tranquillizzanti: forse poco innovative e sperimentali, ma sicuramente rassicuranti per produttori e designer.

Mentre invece una bellissima sorpresa viene dal pubblico del settore: che, in un paradosso meritevole di attenti studi economico/antropologici, ha premiato la resistenza dei produttori, dei lavoratori e dei progettisti. Ha cioè privilegiato negli acquisti l’arredamento, rispetto alle merci solitamente considerate più glamour e in testa alle classifiche di vendita (moda, accessori, viaggi, automobili sempre più inutili e odiate), preferendo a esse più solidi divani, poltrone, sedie, tavoli e tavolini, chaise-longue, appendiabiti, librerie, porte, maniglie, parquet, ceramiche, lampade da tavolo, a soffitto o da terra, e quant’altro aiuti a fare anche di un piccolo appartamento una vera casa.

Il risultato è doppiamente interessante: da una parte un balzo di fatturato delle industrie italiane del mobile e dell’illuminazione su valori molto alti, fino al 50 per cento in più, che le ripagano di non aver rinunciato a investire nella ricerca, nello sviluppo, nella sostenibilità, nella comunicazione, nonostante le misure draconiane all’incontro sociale imposte dai governi; dall’altra una rivalutazione della cultura dell’abitare come valore primario per un utilizzatore sempre più attento a riconoscere l’inutile dal superfluo, il superfluo dall’importante, l’importante dall’essenziale, l’essenziale dall’indispensabile.

Il dato economico è oggettivo, lo confermano i produttori incontrati per raccogliere qui i loro commenti, e in Lombardia si inserisce nel quadro di una reale ripresa economica della regione: storicamente all’avanguardia nell’individuare proprio nella collaborazione tra designer e industrie un fattore di impulso alla domanda e al mercato. Secondo i dati di Unioncamere Lombardia, nel secondo trimestre di quest’anno la produzione industriale della regione è cresciuta del 3,7 per cento rispetto al primo trimestre, addirittura del +32,5 per cento sullo stesso periodo del 2020, e con un imprevisto guadagno del 9,3 per cento in confronto alla media del 2019.

Foto Claudio Furlan/LaPresse 05 Settembre 2021 Rho , Italia News Supersalone Salone del Mobile 2021 presso Rho Fieramilano Photo Claudio Furlan/LaPresse September 05, 2021 Rho , Italy News Supersalone Salone del Mobile 2021 at Rho Fieramilano

Mobili e illuminazione

La forte ripresa commerciale dell’arredamento è la spia di una cultura industriale che ha sempre più il suo centro nel design, inteso non solo come prodotto finale ma come processo organico alla vita di un’industria. Ne parlo con Tommaso Vincenzetti, direttore Marketing di B&B Italia, una delle aziende storiche che ha visto maggiori cambiamenti negli ultimi anni.

Nata nel 1966 col fondatore Piero Ambrogio Busnelli, sviluppata con la guida del figlio Giorgio, è entrata recentemente nella Design Holding dei fondi Investindustrial e Carlyle: dopo molti anni di strettissima collaborazione con Antonio Citterio, ha nominato in gennaio art director Piero Lissoni. Rappresenta quindi bene la dinamicità del settore e la sua capacità di contrattacco nella crisi pandemica: che non ha impedito di ristrutturare l’azienda, sotto tutti gli aspetti – dalla produzione di fabbrica alla forte spinta alla comunicazione digitale.

Nel nuovo D Studio di Design Holding in Via Durini, già per molti anni showroom dell’azienda e ora esposizione di tutti i marchi del gruppo (che comprende anche per le cucine arcLinea, per la luce Flos e la danese Louis Poulsen, oltre alla storica Azucena di Luigi Caccia Dominioni) la presenza di B&B Italia e Maxalto – un marchio con un catalogo interamente disegnato da Citterio – è centrale e indica, con la scelta di presentare sia l’arredamento da interni che il cosiddetto “outdoor”, una tendenza importante: il successo dei mobili per esterni, sia per l’abitazione che per il contract, che sicuramente risente anche del cambiamento climatico. La conclusione per Vincenzetti non può essere che positiva, sia per i buoni risultati economici sia perché riporta anche in una diversa tipologia l’identità legata alla durabilità, fisica ed estetica, del prodotto B&B Italia.

Di certi cambiamenti nel costume abitativo si avvantaggia anche Poltrona Frau, che dall’interno domestico e per gli spazi pubblici – dove i suoi prodotti rappresentano delle icone storiche – è andata pure allargando la produzione all’arredo per esterni, presentati con grande rilevanza negli spazi e nel giardino di palazzo Gallarati Scotti. La conversazione con il ceo Nicola Coropulis, cresciuto professionalmente nell’azienda, la convinzione con cui parla con la stessa passione di persone e materiali, designer e operai, fanno pensare che anche da una forte tradizione possa nascere un nuovo genere di manager, molto impegnati nel fare industria in modo etico/estetico.

Anche per Coropulis il disegno dei prodotti è certamente ancora importantissimo, perché può determinare il successo o il fallimento di un prodotto, ma è comunque parte del processo di sviluppo industriale, a sua volta sempre più complesso con il passaggio reale del sistema delle merci a una fase effettiva di transizione ambientale: qui visibile anche nelle scelte di progetto e finiture degli arredi disegnati dallo studio Ludovica + Roberto Palomba e da Roberto Lazzaroni, già virtuoso di forme plastiche per Ceccotti Collezioni, entrata nel gruppo Frau nel 2018.

Se il mondo del mobile, messe da parte le grandi innovazioni funzionali e di tipologie, si evolve soprattutto in nuove forme di sostenibilità e di attenzione all’impiego di tecniche e materiali ecologici, non stupisce come l’illuminazione ormai da molti anni, grazie a una forte evoluzione tecnologica, riservi le novità più interessanti: sia nella forma degli apparecchi che del comfort visivo, fino alla compatibilità ambientale delle fonti luminose e della loro produzione. La stessa rivoluzione Led e più recentemente O-led è accompagnata da nuovi hardware e software per il controllo luminoso degli ambienti, per creare sistemi e apparecchi che generano stati di benessere e comfort ambientale: un diverso tipo di luce che non è più soltanto “decorativa” ma può anche rinunciare a impressionare l’osservatore con forme nuove, per dargli un prodotto che si avvicina all’immaterialità, la vera bellezza della luce.

È quel che emerge anche dalle parole di Roberta Silva, nuova ceo di Flos dal maggio 2019 quando Piero Gandini – figlio di Sergio (fondatore dell’azienda) e grande forza creativa degli ultimi trent’anni – è uscito dall’azienda di famiglia e dalla Design Holding di cui Flos fa parte: ma prima di lasciarla per sempre ha chiesto proprio a Silva di assumere il ruolo di ceo. Impegno considerevole anche per una manager di esperienza come lei, riprendere l’eredità di un industriale tanto particolare, con l’inizio dell’epidemia a pochi mesi di distanza, che ha obbligato a chiudere le fabbriche Flos e l’impossibilità di condurre il lavoro d’impresa in presenza, per lungo tempo.

Anche in questa situazione non facile, la spinta di Roberta Silva ha continuato e incentivato il processo di riallineamento totale di Flos sui temi della sostenibilità e dell’economia circolare, per arrivare a essere azienda “zero carbon”: con obiettivi radicali, come quello per il 2023 di utilizzare per il 100 per cento del packaging solo materie prime riciclabili.

Produzione materiale

Così anche nella produzione materiale degli apparecchi avviene una trasformazione che li aggiorna all’economia circolare ma mantiene intatta l’“aura” di alcuni veri capolavori del design italiano: è il caso della lampada Parentesi di Achille Castiglioni e Pio Manzù, dove – racconta Roberta Silva – tutti i materiali, incluso il packaging in plastica, sono stati rivisti in funzione della compatibilità ambientale. Perfino il contrappeso che tiene in linea il cavo di sostegno della lampada viene riprogettato per essere disassemblato facilmente (impossibile nell’originale del 1970), caratteristica essenziale per il riciclo delle componenti e dei materiali.

Ripensando alla durata concettuale e fisica di prodotti come la Parentesi sembra verosimile – come mi dice Antonio Citterio – che la differenza tra la generazione dei Castiglioni, Zanuso, Sapper, la sua (o di Piero Lissoni, Alberto Meda, Michele De Lucchi, aggiungo io) e quelle successive è stata proprio di aver potuto (e saputo) lavorare ancora su invenzioni di tipologie, ripensamenti delle funzioni, proposta di prodotti integralmente nuovi.

Un’interessante eccezione/rivelazione in questo senso è Michael Anastassiades, originalmente più scultore che designer, anch’egli scoperto da Piero Gandini e divenuto uno dei suoi progettisti di maggior successo. Sua è la grande installazione luminosa col sistema Coordinates all’ingresso del D Studio: mentre nei giorni della Design week e ancora fino al 6 gennaio presenta nello spazio Ica una mostra personale di objets trouvés e sculture luminose, che sviluppano il legame tra tecnica della luce e un materiale naturale come il bambù, nuovo nella ricerca di questo artista/designer, e confermano la forte tendenza di questi anni a un utile incontro tra arte e disegno industriale.

Fenomenologia del Supersalone

Se c’è dunque un peccato originale di questa edizione della Design week – che pure ha riacceso un certo ottimismo tra gli operatori – sembrerebbe altrove, come ha scritto Aurelio Magistà su La Repubblica a proposito del SuperSalone: «... le forzature nei confronti delle aziende per partecipare comunque a un evento che appariva abbastanza privo di utilità e di logica, la presenza ingombrante della politica con le amministrative alle porte, un progetto espositivo che suscita perplessità anche se le aziende sapranno interpretarlo nel migliore dei modi...». E non fanno che confermare certe perplessità i dati sui visitatori: ne vengono dichiarati 60mila, che possono sembrare molti ma sono meno di 1/6 di quelli del 2019 (386.236).

Né sono mancate le disfunzioni, anche per la rigidità del concetto espositivo, una lunga sequenza di pannelli verticali e pedane, che niente hanno a che fare con il vero Salone del Mobile. Si tratta di una formula forse interessante ma acerba, comunque del tutto distante dalle occasioni commerciali che offre il vero Salone e per cui migliaia di aziende concentrano un enorme sforzo progettuale, produttivo e di investimenti.

Così, con 468 aziende partecipanti contro le 2.350 del 2019, sembrano abbastanza fuori luogo anche le iperboli di quei commentatori che hanno parlato di SuperSalone come di «nuovo concept di comunicazione collettiva», «gigantesco esercizio di sintesi» e di un misterioso «brand positioning di tutto il sistema design»: sistema che invece nei fatti e nei fatturati ha dimostrato di non aver necessariamente bisogno di brand positioning o di SuperSaloni per reggere all’urto della crisi più grave.

Se mai sembrerebbe più necessario il supporto pubblico per la ricerca e sviluppo delle aziende: che, in una fase decisiva per la ripresa come quella attuale, è chiave di volta per l’avanzamento della qualità complessiva del lavoro. Così occorrerebbe anche maggiore coscienza e sorveglianza da parte del settore su quella promessa di circa 36 miliardi di euro che dovrebbero arrivare alla Lombardia dal Recovery fund del Pnrr.

Oltre il paradosso che una ripresa dell’industria italiana è già in corso, anche senza i fondi promessi, la maggior parte di questa cifra gigantesca (considerando che l’intero settore arredamento nel 2018 aveva un valore di 23 miliardi di euro) sembra destinata a categorie confuse: le eterne – nel senso che impiegano decenni a essere completate – “infrastrutture” e le retoriche e non meglio definite “innovazione” e “digitalizzazione”. Non è questa una divagazione rispetto al problema del design e della sua industria, se si considera che nel testo del Pnrr, dove si parla all’infinito di digitalizzazione – più o meno di tutto – con una semplice ricerca testuale proprio la parola design non compare mai: anzi, solo un paio di volte, riferita a un non meglio precisato eco-design.

Ragione di più per chiedersi quali e quante risorse del Pnrr andranno effettivamente a supportare il sistema del design italiano e l’industria dell’arredamento che ne è il principale attore imprenditoriale.

Milano is Design, Design is Milan?

Con questo lapalissiano slogan – non in forma interrogativa – l’organizzazione del Salone del Mobile ha condotto una campagna di affissioni molto colorata e visibile, purtroppo a pochi perché avvenuta nei mesi di luglio e agosto, quando a Milano non c’è praticamente nessuno: con una brevissima coda sui primi giorni di settembre, visto che Salone e Design week si sono aperti  ufficialmente il 5 (ma con diverse anteprime il 4).

Eppure certamente nel facile slogan c’è della verità. Non solo perché altre città europee, tipicamente Londra, contendono con ogni mezzo a Milano l’ambito ruolo di capitale del design: ma soprattutto perché solo grazie alla carica di creatività, ricerca, sviluppo e produzione che si concentrano qui e in Lombardia l’Italia riesce ancora a mantenere alto il livello della competizione internazionale, con cui industrie o aziende straniere devono necessariamente confrontarsi, per essere considerate al pari di Artemide, B&B Italia, Cassina, Flos, Kartell, Molteni, Poltrona Frau, Zanotta e altre imprese che hanno fatto grande il design italiano nel mondo.

È invece proprio la politica milanese e lombarda, che ama appuntarsi le medaglie del Salone in funzione elettorale, a dare spesso il cattivo esempio: come quando l’amministrazione comunale non riesce neppure a concepire un’idea di concorso tra progettisti per il disegno o il ridisegno delle infrastrutture urbane e delle loro attrezzature.

Basti l’esempio delle uscite della nuova linea della MM4. Ancora non operativa malgrado dovesse essere pronta – almeno nel tratto Linate-Viale Forlanini – per l’Expo 2015 (solo sei anni fa) si presenta finora in superficie con uscite simili a delle edicole di giornale: in continuità con le altrettanto tristi uscite della linea 5. E pure nella vasta rete di piste ciclabili, vanto estremo dell’amministrazione comunale milanese, si assiste a un tripudio di graniti, cemento, asfalto, vernici, cubetti di porfido tagliati e posati a mano, senza un disegno coerente e unitario: evidentemente l’idea che un investimento di 50 milioni di euro dichiarato dal Comune – più i 3,5 milioni di euro promessi nel 2020 da Regione Lombardia – non è degno di essere destinato, almeno in parte, al design delle stesse piste ciclabili, e di quanto per semplicità si può definire il loro “arredo urbano”. Su 35/40 km (dichiarati) di ciclabili, per ora neanche una tettoia sotto cui i volenterosi ciclisti possano ripararsi in caso di pioggia fitta: che a Milano, per almeno sei mesi l’anno, si ostina ancora a cadere.

More ethics, more aesthetics

Viene dunque ancora in mente il fortunato titolo – rivisitato come “Più etica, più estetica” – di una famosa Biennale d’architettura diretta da Massimiliano Fuksas e Doriana Mandrelli, per tornare al tema fondamentale di una necessaria diffusione della cultura del design a tutti i livelli: non solo a parole o nei discorsi di occasione per inaugurazioni con le più alte cariche, ma in una prassi quotidiana dello stato e delle amministrazioni pubbliche, visto che le imprese private fanno già moltissimo per quanto le riguarda. E si tratta di imprese che stanno sperimentando forme nuove di assetto societario, considerato anche il grande attivismo di grandi fondi di investimento che hanno decisamente dato uno scossone al sistema – un tempo prevalentemente familiare – delle imprese del design.  

Così la Alessi – resa celebre da Alberto Alessi e da designer come Sottsass, Sapper, Rossi e Mendini – di cui ricorrono quest’anno i cento anni dalla fondazione e che pure ha visto entrare come socio al 40 per cento il fondo britannico Oakley Capital nel 2020, dallo stesso anno è la prima azienda di spicco del design italiano ad adottare la qualifica di società benefit: modello giuridico “importato” dagli Usa e che impegna l’impresa a perseguire, oltre allo scopo di lucro, una o più finalità di beneficio comune, in modo responsabile, sostenibile e trasparente.

Su un fronte analogo si posiziona con i suoi programmi culturali Listone Giordano, azienda di pavimenti in legno del gruppo Margaritelli, ancora solidamente nelle mani della famiglia di Andrea Margaritelli, l’ingegnere visionario che ha dato una decisa sterzata alla produzione, chiamando a progettare parquet designers come De Lucchi, Marc Sadler, Matteo Thun o la vulcanica Patricia Urquiola.

Anche la novità di una parte importante dell’arredamento, che non era mai stata prima affidata ad architetti, si inserisce in una strategia e un processo di produzione tutto incentrato sulle logiche della sostenibilità: in particolare per quanto riguarda la coltivazione e il taglio degli alberi necessari alla produzione, provenienti da una foresta in Francia e da My Forest, il bosco tra Città della Pieve e Piegaro (Umbria) con 150 ettari certificati, come modello di gestione forestale sostenibile e anche laboratorio di sperimentazione scientifica attraverso il progetto europeo Trace.

Coerentemente, più che nuovi prodotti, Margaritelli ha presentato nei giorni scorsi a Milano “Green Table”, un forum internazionale su architettura e design sostenibili che dopo una serie di incontri internazionali approderà a Perugia dal 21 al 23 ottobre in modalità phygital: cioè con la presenza sia fisica che digitale di progettisti ed esperti, anche lontani dal luogo ospite. 

La più interessante lezione che arriva da tutti questi segnali di ripresa e adeguamento tecnologico è che l’arredamento, e il design in generale, sopravvivono e progrediscono solo con un sistema di valori solidi e condivisi tra industria, progettisti, operatori della distribuzione e utenti. Anche se una domanda rimane e ritorna, in cerca di una risposta tanto plausibile quanto difficile, forse impossibile da dare. Come può un paese come l’Italia, anche dopo una crisi sanitaria ed economica profondissima (che pure non è affrontata e risolta nelle sue strutture di base, ma lasciata a una politica sciatta e autoreferenziale) mantenere in vita un sistema del design che rimane punto di riferimento per la comunità del mercato, dei progettisti, dei produttori internazionali? .

Per chi, come chi scrive, fa parte di questo sistema ma mantiene su di esso uno sguardo critico e utopista, la risposta è, più che un miracolo, un mistero: il mistero di un’industria colta come quella italiana del design, disposta a investire e rischiare molto, moltissimo sulla qualità del lavoro e dei suoi prodotti se questi, oltre al necessario ritorno economico, producono a loro volta una migliore condizione e cultura dell’abitare.

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