Dio, per Francesco Nuti, creò l’universo con un colpo mancino al biliardo. Non si è mai saputo se con una stecca di legno o di alluminio. Isaac Asimov se ne servì per raccontare la fisica teorica in diversi racconti. Ci giocavano Paul Newman al cinema, Mozart, Puccini e Verdi nella realtà, perché qui tutto è armonia e disarmonia, composizione e scomposizione. Ma è l’attesa dell’errore che logora. E molti campioni combattono demoni e fantasmi
Dio, per Francesco Nuti, creò l’universo con un colpo mancino al biliardo. Non si è mai saputo se con una stecca di legno o di alluminio, quello che si è saputo dopo è che persino Isaac Asimov per raccontare la fisica teorica si servì di un biliardo in diversi racconti, diventando imprescindibile anche per lo scrittore Liu Cixin, quello de Il problema dei tre corpi, romanzone divenuto pure serie.
Insomma, il biliardo sta all’universo come i razzi al cielo, e guardando la disposizione delle palle nello snooker, una specialità del biliardo che nacque durante la stagione delle piogge in India per mano e stecca degli ufficiali inglesi, si trovano molte risposte o almeno ci si può giocare narrativamente.
Da qualche giorno a Sheffield è cominciato il campionato mondiale di snooker, e a guardare le partite si capisce perché il biliardo è anche così cinematografico oltre che metafora per gli scrittori di fantascienza e non solo se pensiamo a Walter Tevis, il cui nome dice poco al grande pubblico, ma i cui titoli risvegliano subito emozioni, come una palla a più sponde.
A Richmond imparò a giocare con Toby Kavanaugh, un compagno di scuola che gli insegnò i colpi che poi lui mise nelle mani e nelle pagine di Eddy lo svelto, l’eroe de Lo spaccone, e del suo avversario: Minnesota Fats, il miglior giocatore d’America.
Tutti hanno visto il film di Robert Rossen e anche chi non ricorda la storia sa che Eddy era Paul Newman: giovane, bravo, ubriaco e disperato che sublima la vita giocando. Poi Tevis aveva scritto Il colore dei soldi, un altro romanzo, dove Eddy e poi Paul Newman tornavano, e Martin Scorsese prese Tom Cruise e ci fece un grande film, come fa di solito. Anche se Francesco Nuti in Io, Chiara e lo Scuro si fa gioco dello spaccone Eddy: «Ma chi è Paul Newman? A me mi fa 'na sega Paul Newman!».
In effetti Nuti giocava davvero bene sfidando Marcello Lotti (lo Scuro) grande giocatore di biliardo (Italiana 5 birilli, Goriziana) e ideatore dell’ottavina reale: un tiro che coinvolge otto sponde, difficile come un salto mortale, che Lotti eseguì per primo, cinema naturale. Come tutto quel che è stato scritto da Walter Tevis, più visto nelle sue trasposizioni che letto, che oltre ai romanzi divenuti film sul biliardo scrisse: L'uomo che cadde sulla Terra e La Regina degli scacchi, per dire che colpi che aveva, con la stecca e senza.
La stecca di Hemingway
Ma sono tanti gli scrittori che hanno avuto una lunga frequentazione con il biliardo da William Shakespeare fino ad Ernest Hemingway che ha persino regalato la sua stecca per una scommessa perduta: a Stresa nel 1948 a un tavolo da biliardo lo scrittore americano conobbe Arnaldo Zamperetti che accompagnava la sorella Ornella – all’insaputa dei genitori – al concorso di Miss Italia.
Hem vide Ornella e disse: «Vince lei». Arnaldo disse: «No, vince la triestina». La triestina era Fulvia Franco, le ragioni erano politiche: si trattava di ribadire l’italianità di un territorio anche attraverso una espressione estetica (Trieste ritornò italiana solo nel 1954, quindi sei anni dopo). I due scommisero, «Chi perde paga il conto del bar, e io mi gioco questa mia stecca da biliardo, che mi porto sempre dietro» disse Hem.
Vinse la triestina, Ornella arrivò seconda tra le polemiche, il presidente della giuria era Totò, tra l’altro, e la stecca passò di mano, poi fu battuta anni dopo all’asta per 35 mila euro, con tanto di lettera d’accompagnamento e cessione: «Al mio giovane amico Arnaldo, in onore della sua bellissima sorella Ornella». Tra l’altro la stecca era di alluminio e come dice Francesco Nuti: «la stecca di legno ha il suo cuore, mentre quella di alluminio vuole che il cuore ce lo metti te».
Sono tanti i demoni che girano intorno a un tavolo da biliardo, tanto che Asimov ci mise dinosauri e robot rendendolo darwiniano, invece a Sheffield, città degli Arctic Monkeys, c’è un’aria da Edward Hopper: tra il sommesso e l’immobile, tanto che sarebbe bello far risuonare I Bet You Look Good on the Dancefloor magari trasformandola in I Bet You Look Good On The Billiards.
Ma per capire lo snooker serve più di una canzone, chi è a digiuno può leggere Mordecai Richler, lo scrittore de La versione di Barney, che ne Il mio biliardo ricostruisce la sua vita nella scalata dei tavoli da snooker, un po’ come Francesco Nuti nei suoi film, e Walter Tevis nei suoi libri, solo che cambiavano i tavoli e il tipo di gioco, ma l’umanità intorno anche se con lingue differenti era la stessa, come i riti, le scommesse, e la voglia di stupire con un tiro.
Solo che Richler come il suo Barney Panofsky ragiona in contrapposizione e scrive: «Il biliardo sta allo snooker come la dama agli scacchi. Sì, il nostro è un gioco particolarmente fine, dove per vincere non basta saperla cacciare in buca, ci vuole pure una tattica suprema». E come per La versione di Barney, ha ragione e torto insieme.
Lo snooker e la Cina
Lo snooker ha quindici palle rosse, sei di vari colori e una bianca per battere. I giocatori devono imbucare le rosse, ma per ogni rossa ne devono imbucare una colorata – che fin quando ci sono le rosse tornano a essere rimesse sul tavolo –, è questa la difficoltà: calcolare dove finirà la palla bianca battente, per arrivare poi a ripulire l’intero biliardo.
È un gioco interessante che – infatti – ha conquistato i cinesi, almeno davanti alla tivù, guardano tutti a Sheffield senza nemmeno sapere degli Arctic Monkeys. Sei di loro si son qualificati al secondo turno, quattro sono ventenni.
C’è da dire che la disposizione delle palle colorate nello snooker fa pensare – con un po’ d’immaginazione – all’Orsa maggiore e al Grande Carro, che Nuti evoca in Io, Chiara e lo Scuro.
E se si pensano alle ottavine della goriziana di Lotti e Nuti, allora Richler risulta un pivellino con la stecca che scrive dei bei libri ma come al solito usa delle iperboli che colpiscono i Giuliano Ferrara (Il Foglio ne fece un profeta agli inizi degli anni 2000, trovando nel suo romanzo le risposte a tutto), ma se si escludono le ottavine, e si guardano le partite di Ronnie O'Sullivan, si può dare un po’ di ragione a Richler.
Il suo errore è pensare che lo snooker sia l’unico gioco aristocratico da biliardo, perché pensa agli americani, invece il gioco con i birilli ha colpi anche più difficili. La guerra psicologica c’è, sull’attesa dell’errore altrui si può costruire una strategia che va dal respiro ai movimenti, anche se Richler come al solito ne fa un apologo estremo, meglio Nuti, che ci gioca, e che a biliardo lo avrebbe stracciato.
«Fatti conto che questo è il biliardo, panno verde, palle, pallino e birilli. Pahh! Luce sopra. Tutto buio 'ntorno. Il silenzio più totale. Quando tu te hai la stecca 'n mano e mi metto sul biliardo e colpisco la palla si sente fare: 'toc, la palla colpita; stumb, la prima sponda; stumb, la seconda; stumb, la terza; tac, l'altra palla colpita; frrrr, i birilli in terra'. Cioè 'unnè un rumore: toc, stumb, stumb, stumb, tac, frrrr... è un suono, musica!».
Le rivalità
Oltre la musica ci sono la drammaticità, gli sguardi e i movimenti intorno al tavolo, la ritualità, i tic, i giochi psicologici – solo su quello che accade nella testa di un giocatore ci si può giocare un’altra partita –, per questo poi il biliardo funziona in letteratura e a cinema. Intorno c’è il silenzio, e la possibilità di pensare prima di agire: calcolo e ricerca dell’emozione, e a differenza degli scacchi c’è il moto delle palle e di conseguenza l’armonia e la disarmonia, la composizione e la scomposizione: per questo Mozart, Puccini e Verdi ci giocavano.
E per questo ci sono rivalità assolute come nel tennis, tipo quella degli inglesi: Judd Trump e Ronnie O'Sullivan o quella tra Stephen Hendry e Jimmy White che ha dominato lo snooker negli anni Novanta. C’è un livello di logorio nascosto che va oltre l’immaginazione di Richler e le ossessioni di Nuti: O’Sullivan, Mark Selby e Neil Robertson come dire Messi, Ronaldo e Mbappé nel calcio, hanno avuto depressioni e dipendenze, consumati dal biliardo, passando nello spazio di un torneo dall’indistruttibilità alla debolezza, dal pensiero forte a quello debolissimo ed ospedaliero; e sarebbe questo il film da fare, bisognerebbe chiedere a Paul Schrader di scrivere i loro demoni, e a Scorsese di filmare le nevrosi.
Perché prima del tiro, della stecca, dello sguardo, delle traiettorie, dei pensieri: c’è la sedia, e il cinema è tutto nell’alzarsi e andare. Sulla sedia è un mondo, alzandosi per andare a battere c’è un altro mondo, in mezzo la trama. Il resto è silenzio prima della musica, come dice Nuti, come spiega Asimov, come mostrano Lotti e O’Sullivan.
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