«Da adolescente», scrive Emmanuel Carrère nel Regno, «sono stato un lettore appassionato di Dick e, a differenza della maggior parte delle passioni adolescenziali, questa non si è mai affievolita. Ho riletto a intervalli regolari Ubik, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Un oscuro scrutare, Noi marziani, La svastica sul sole. Consideravo – e considero tuttora – il loro autore una specie di Dostoevskij della nostra epoca». Vorrei avere anche altre qualità in comune con Carrère (non smetto di sognare), ma almeno una cosa che condividiamo c’è: siamo stati entrambi grandi lettori di Philip K. Dick. Tra i sedici e i ventidue anni credo di aver letto tutto ciò che Dick ha scritto. E con tutto intendo anche i saggi, i racconti, i romanzi non di genere, gli inediti tirati fuori dopo la sua morte. Un bel malloppo, dal momento che Dick è stato notoriamente prolifico. Potete immaginare come mi sia sentito quando ho saputo che Mondadori avrebbe pubblicato una nuova traduzione di Ubik.

Io sono vivo, voi siete morti

Ubik è ambientato nel 1992: il futuro per Dick quando lo pubblicò nel 1969. Un futuro che non visse mai, tra l’altro, dal momento che morì nel 1982, poco prima che Blade Runner uscisse nelle sale (vide solo un premontaggio del film di Riddley Scott tratto dal suo libro Ma gli androidi sognano pecore elettriche?) e facesse esplodere il fenomeno “PKD” a livelli fino a quel momento inimmaginabili. Oggetto di un culto fervente ma limitato ai lettori di fantascienza, da quell’anno Dick ispirò decine e decine di film, serie, videogiochi, e centinaia di studi accademici che l’hanno fatto traslocare dai malfamati quartieri della letteratura di genere agli altolocati attici della narrativa letteraria con vista sulla Library of America e i Meridiani. Almeno questa è la narrazione vagamente rivendicativa che si fanno gli appassionati di fantascienza: in realtà quello che è successo negli ultimi quarant’anni è stato un generale crollo di tutte le gerarchie di gusto e di genere, un mescolamento di colto e popolare che ha fatto in modo che si possa riconoscere il valore letterario, la carica trasformativa e la potenza visionaria delle opere di Dick e mettere serenamente il suo autore tra i grandi della letteratura americana del Ventesimo secolo.

È questo a rendere possibile l’encomiabile operazione di Mondadori che acquisisce nel suo catalogo l’intera opera dickiana e inizia ora a pubblicarla proprio con Ubik. E meglio non poteva farlo: nuove traduzioni di Marinella Magrì che restituiscono un Dick moderno, inventivo, tutt’altro che sciatto; curatela di Emanuele Trevi che si occuperà anche di far entrare una selezione di romanzi e racconti nei Meridiani; copertine, bellissime, dal gusto alto e contemporaneo, di Rodrigo Corral, uno dei cover designer più innovativi al mondo; infine cinque introduzioni proprio di Carrère, che a Dick dedicò uno dei suoi libri più belli: non una biografia dello scrittore californiano, ma una biografia-romanzo attraverso le opere, leggendo cioè le svolte della vita attraverso i libri fantascientifici, fantasiosi e folli, che scrisse. Non a caso il libro di Carrère su Dick si intitola Io sono vivo, voi siete morti, frase fondamentale di Ubik (e di tutta la cosmologia dickiana).

La regressione del mondo 

Joe Chip lavora nell’agenzia di Glen Runciter, un gruppo di “inerziali”, talenti in grado di contrastare e annullare i talenti opposti di telepati e altri individui dotati di poteri psichici. Una sorta di antivirus umani: avete paura che il vicino sia un telepate che vi spii i pensieri? Assumete i servizi dell’agenzia di Glen Runciter e starete tranquilli. Peccato che Runciter e un gruppo di impiegati, tra cui Joe Chip, subisca un attentato e il capo muoia. O quasi. Nel romanzo di Dick infatti esiste uno stato chiamato semivita in cui i morti sono sospesi criogenicamente: ogni tanto ci si può collegare con loro e parlarci, chiedere consigli, ricordare i bei tempi andati.

Joe vorrebbe mettere il suo capo in uno di questi sarcofagi in grado di tenerlo in questo stato intermedio ma qualcosa intorno a lui comincia a non quadrare. I suoi colleghi muoiono uno dopo l’altro, ma soprattutto la realtà inizia letteralmente a disgregarsi. Il cibo nelle scatolette è putrefatto, il latte marcio, le automobili nuove vengono sostituite da vetture più vecchie, le televisioni diventano radio e così via… Il mondo inizia lentamente a regredire, le cose intorno a Joe Chip si assestano in un’inquietante versione dell’America del 1939, con i nazisti che spadroneggiano in Europa e Charles Lindbergh che aizza gli Usa ad abbracciare il nazionalsocialismo. Finché su un muro non appare una scritta: IO SONO QUELLO VIVO, VOI SIETE TUTTI MORTI. Sono Joe Chip e i suoi colleghi a essere morti, non Runciter: quello che loro percepiscono come realtà è una sorta di allucinazione indotta dalla semivita. Oltretutto in quella dimensione si muove una presenza oscura e distruttrice, una cieca volontà di morte che vuole distruggerli: a fermare quest’opera di disgregazione e disfacimento c’è una misteriosa sostanza chiamata Ubik, uno spray in grado di rimettere in sesto, almeno per un po’, quell’apparenza di realtà.

Pedine del sistema

Joe Chip è l’ultimo dei personaggi che immagineremmo di trovare come protagonista di un romanzo di fantascienza, se per noi la fantascienza fosse solo avventura roboante alla Flash Gordon: Joe Chip è un inetto degno di Saul Bellow, un impiegato senza un soldo, maldestro con le donne, perfino un po’ pedante (la realtà intorno a lui va letteralmente a pezzi, ma trova il tempo di correggere gli errori grammaticali degli altri), senza un talento vero, di fatto poco più di una pedina in un gioco cosmico più grande di lui. E quindi molto simile a tutti i protagonisti di Dick, e cioè molto simile a Dick stesso, o almeno a come lui si sentiva: un perdente costretto a scrivere a ritmi forsennati romanzi di fantascienza per mantenersi, sistematicamente messo sotto dalle ex-mogli.

Ma Joe Chip è anche molto simile a tutti noi, e lo è con una preveggenza che nel 1969 rasentava la profezia: dei signor nessuno, delle pedine sperse e spaventate in una realtà posticcia, che cade a pezzi, manipolati e controllati. Dick, un Dick semplificato e spettacolarizzato, ha ispirato Matrix, il film delle sorelle Wachowski del 1999, e Matrix, a sua volta misinterpretato, ha scritto le linee guida del complottismo di oggi, quello di QAnon e dei “redpillati”, cioè quelli che vedono la “realtà reale” non manipolata dai media e dal potere (si riconoscono perché di solito usano l’espressione media mainstream) dopo aver preso la “pillola rossa” come appunto nella celebre scena di Matrix.

Desiderio di morte

La sensazione più forte che ho provato rileggendo Ubik è stata quella di libertà. Non me la ricordavo così forte, così potente: sembra sempre che la storia possa andare in qualsiasi direzione, che nella pagina successiva potrà succedere letteralmente di tutto, irrompere l’inaspettato fuori da ogni legge o grammatica narrativa.

Ogni regola del “romanzo ben fatto”, anche del romanzo di fantascienza, è violata: c’è unicamente la libertà scatenata di uno scrittore fedele alla propria visione. Solo l’immaginazione di un pazzo, un visionario, un santo forse poteva dare vita a un racconto così “aperto” e rutilante. Non lo ricordavo così forse perché a 16 o vent’anni non si ha davvero coscienza di cosa sia la libertà, si è troppo occupati a viverla o, più probabilmente, si è incontrato ancora poco il suo opposto, che sia il vincolo, la regola, la legge di gravitazione universale che fa andare le cose il più delle volte in un’unica direzione, la direzione del «si fa così perché si fa così, lo si è sempre fatto».

E allora da ragazzi non vediamo, almeno io non l’avevo vista così chiaramente come lo vedo oggi, quanto i romanzi di Dick se ne freghino di questa legge e facciano come vogliono loro. Con gli anni impariamo a riconoscerla, questa legge, e a farla nostra, accettarla, mentre diventiamo sempre più conformisti, sempre più vincolati, sempre più docili ad accettare che le cose vadano in una certa direzione e non in un’altra.

Forse morire è portare a compimento questa progressiva opera di autoconvincimento, arrivare al punto in cui non riusciamo a pensare che le cose possano andare in maniera diversa: a quel punto nessuna alternativa è pensabile, nessuna libertà, siamo rassegnati. Ecco la morte.

L’Ubik

Non so se mi sono spiegato: ma quello che ho appena descritto è di fatto la trama di Ubik. Quello che ho chiamato vincolo, rassegnazione, legge di gravitazione è il tempo, l’entropia che tutto divora e consuma, il vento oscuro che soffia in una steppa di nulla, il puro desiderio di morte che alberga da qualche parte nel buio dentro di noi. È il demiurgo malvagio.

E poi c’è l’Ubik, il misterioso spray che per qualche tempo riesce a interrompere il decadimento, a invertire l’entropia, a fermare il buio gelido: è la libertà, l’amore, l’umorismo, quello che ci unisce agli altri, l’opposto della solitudine, i romanzi di Philip K. Dick.

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