Pubblichiamo un estratto della conversazione con lo scrittore Paolo Cognetti, pubblicata nel libro Metromontagna, un progetto per riabitare l’Italia, pubblicato da Donzelli Editore, a cura di Filippo Barbera e Antonio De Rossi.

Vivi buona parte dell’anno in Val d’Ayas e l’altra a Milano, cosa significa per te vivere tra questi due luoghi, tra la città e la montagna? Come impatta sul tuo lavoro, sulle tue relazioni e sulla percezione che hai di te stesso?

L’Italia ha un rapporto di prossimità con le Alpi, si vedono da Torino e Milano, la montagna è molto vicina alla città e la possiamo raggiungere in un paio d’ore di macchina. È da un po’ di tempo che ho smesso di vedere una contrapposizione netta tra città e montagna, ma vedo due ambienti permeabili in cui io e molte altre persone come me si spostano e cercano di trovare un equilibrio nella loro vita, la città è legata ai loro bisogni di lavoro e di servizi, mentre la montagna è legata ai loro desideri. A un certo punto della mia vita ho sentito come dolorosa la scelta tra il vivere in montagna o in città, mi trovavo a un bivio. Negli ultimi anni ho cominciato a dirmi che forse posso trovare un equilibrio tra queste due vite. Perché mi piacciono sia la città sia la montagna, quindi cerco di trovare il modo di vivere in entrambi i luoghi.

Parlando di poli che non vedi contrapposti nella tua vita, le categorie di pieno e di vuoto, che si utilizzano per definire la città e la montagna, credi siano ancora presenti? Le vivi come tratto della tua esperienza metromontana?

Faccio fatica a vedere questa contrapposizione. Ho vissuto la solitudine in montagna ma l’ho vissuta anche in città. Io non posso che associare il vuoto alla solitudine. Perciò no, io non sento queste due categorie, che possiamo declinare in un milione di modi, ma se per pienezza intendiamo ad esempio l’autenticità, la bellezza dei rapporti, io questi li ho trovati in montagna, quindi per me sarebbe quasi il contrario, il pieno è in montagna e il vuoto è in città.

Non c’è il rischio di sentirsi sempre straniero in questa duplice condizione di pendolarismo metromontano?

Il bello della città è che tu non sei mai straniero perché sono stranieri praticamente tutti, uno vale l’altro. Invece in montagna non è così. Quando ho acquistato questa baita, la gente si chiedeva chi fossi, avevo trent’anni e rimanevo lì non solo in agosto ma anche in stagioni improbabili per il turismo montano. Quindi ho vissuto una prima fase di ambientamento, di osservazione. Poi ho avuto una fase di integrazione bellissima che è stata quella in cui, avendo bisogno di emanciparmi da Milano, ho cominciato a lavorare in un ristorante a Estoul. In quei due anni di lavoro ho realizzato il sogno dell’integrazione, ho sperimentato in prima persona come il lavoro ti faccia integrare in una comunità. Poi ho scritto Le otto montagne e da quel momento non sono più stato il cuoco del ristorante ma lo scrittore che andava in televisione, perdendo per sempre quanto avevo guadagnato con il lavoro.

Il tuo romanzo Le otto montagne ha avuto una capacità performativa rispetto alla produzione di immaginari sulla montagna, soprattutto da parte di persone che non ci vivono la maggior parte dell’anno. Che tipo di narrazione ritieni di aver suscitato con il tuo personaggio e con i tuoi scritti nei lettori e nelle persone che ti seguono?

È per me un argomento delicato perché questo libro mi ha dato tanto ma mi ha creato anche molti problemi. Il problema principale è che è amato fondamentalmente da persone che vedono la montagna da lontano, come la vedo io quando sono in città, e quindi che la idealizzano, la sognano. Dai montanari invece ricevo critiche feroci, perché sentono il loro mondo sfruttato e idealizzato. Io credo di essere uno scrittore abbastanza realista per cui non racconto la montagna stereotipata, ma racconto quello che vedo. Sicuramente ci metto un carico di idealismo e di utopia che io continuo a sentire per la montagna. Per questo con me i montanari sono sospettosi, sono critici, e il mio rapporto con loro è molto difficile. Questa cosa si manifesta continuamente e in particolare quando ho cercato di fare un po’ di più in montagna oltre che a scrivere, come ad esempio il Festival «Il richiamo della foresta» o il rifugio che sto aprendo, ma credo che comunque ne valga la pena.

Il fatto che sia necessario un riconoscimento paritario tra montanari e cittadini è un tema fondamentale dell’effettivo realizzarsi di un possibile progetto metromontano. Quello che ci interessa molto della tua esperienza è se secondo te è possibile una condizione di abitare in maniera intermittente tra un contesto geografico, sociale ed economico e l’altro. Molto di un possibile progetto metromontano si appoggia anche su questo.

Vedo anche nell’andirivieni delle persone come me uno schema un po’ diverso in questi ultimi tempi. In Val d’Ayas ci sono due scuole primarie in cui in questo ultimo anno ci sono stati una ventina di iscritti in più, e su due paesi che insieme fanno 2.000 abitanti sono molti. Questi iscritti sono i figli di persone che hanno pensato di trasferirsi ad Ayas o a Brusson durante quest’anno complicato dal Covid. È una novità assoluta, non solo per il ripopolamento ma per il senso di grande vicinanza della montagna alla città. Sto vedendo questa metropoli del nord Italia che si allarga grazie alla facilità di spostarsi e grazie alla rete, grazie alla facilità di lavorare altrove, e le Alpi, perlomeno le valli più servite, che diventano una sorta di hinterland. Questo può essere triste e desolante per alcuni versi perché i montanari si stanno estinguendo, però è il nostro tempo e magari sarà il nostro futuro e può anche essere bello così.

Parlando appunto di crescente interconnessione che la mobilità e gli stili di vita consentono e stanno producendo tra città e montagna, che cosa ci può perdere o guadagnare la montagna da questo continuum, e cosa la città?

La montagna perde la sua storia, le sue baite, le sue mucche, la vita d’alpeggio e quel rapporto così stretto tra uomo e territorio. È una civiltà in via di estinzione come già raccontava il libro di Nuto Revelli cinquant’anni fa. Ma forse questa è l’unica alternativa allo spopolamento, la montagna che fa parte della città come una sua propaggine. È necessario però fare in modo che lassù si viva bene, che sia un modo della città di arrivare in montagna che genera delle belle cose.

Pensi che i nuovi montanari possano essere una risposta a questo tipo di esigenza?

A cosa ci riferiamo con nuovi montanari? A volte mi sembra che il nuovo montanaro sia la figura del ragazzo che lascia la città per andare ad allevare le capre in qualche sperduta frazione alpina, mentre secondo me la categoria è molto più ampia. Sicuramente sono una risorsa, perché comunicano strettamente con i vecchi montanari, che poi sono nuovi cittadini. Diventano la stessa gente per l’esperienza che ho io.

Secondo te oggi esiste qualche forma di narrazione metromontana, al livello sia di rappresentazione mediatica che culturale o artistica? Una rappresentazione che tenga insieme il bisogno di montagna e il bisogno di città?

In questi ultimi anni ho fatto molta fatica con la rappresentazione della mia storia. È facile entrare in un cliché romantico, venire raffigurati come santi, idolatrati. Si prova una certa invidia per quello che se n’è andato da Milano per vivere nella baita, ma la realtà non è così semplice. Io sono a Milano adesso. Cerco un equilibrio nella mia vita come tutti quanti. Riportare questa narrazione a un livello di realtà mi sembra la cosa più importante in questo momento. Le cose che sto scrivendo ora raccontano la montagna del lavoro e della vita quotidiana, non la montagna sognata, idealizzata, simbolo di qualcos’altro. Ma chi ha lavorato sul mio personaggio ha dovuto marciare sopra la retorica della fuga dalla città. Non è così, a volte sono scappato dalla montagna per tornare a Milano e vedere gli amici perché lassù non ce la facevo più.

In un’intervista svolta durante il primo lockdown ci avevi detto che la città definisce la creatività tramite l’incontro e lo scambio tra le persone mentre la montagna, come archetipo, è il luogo dove la creatività nasce dalla riflessione e della solitudine. Facevi riferimento a delle categorie su cui adesso stiamo dialogando. Vuoi ritornare su questa riflessione e magari dirci qualcosa su qual è secondo la «giusta distanza» tra la città e la montagna, e che tipo di spazio è quello tra queste due polarità?

Quel discorso nasceva anche un po’ da un’irritazione che avevo nei confronti del concetto di ritiro, di eremo. Sono contro lo stereotipo della persona che lavora nell’ambito della cultura che in città vive la sua socialità, va in montagna per stare solo e trovare l’ispirazione che rielabora scendendo di nuovo in città. Questo schema non aderisce per niente alla mia vita. Il mio lavoro culturale, e anche politico, sta tanto in montagna quanto in città, non c’è nessuna differenza. Per me sono entrambi luoghi dell’abitare, ho imparato che abitare in un luogo significa fare politica in quel luogo, non puoi semplicemente stare lì come abitante passivo, ma cerchi di creare relazioni e di produrre qualcosa di bello.

Quindi possiamo dire che il vecchio adagio del «vivi appartato» non è qualcosa che ti si addice.

Ho detto a tutti dove abito, che sto aprendo un rifugio, che faccio un festival, per cui non sono più appartato ma va bene così, lo sono stato abbastanza a lungo. Penso sempre a Thoreau, mi interrogo sempre sul suo ritorno, dopo due anni di isolamento e di esaltazione della solitudine. Io lo capisco, cioè anche io dopo un po’ ho sentito che l’esperimento con la solitudine era finito. Gli eremiti sono disumani, io credo che la nostra natura ci porti a vivere con gli altri, per cui la solitudine è soltanto un esperimento che noi facciamo, destinato ad un certo punto a finire.

La montagna come alterità ha favorito la creazione di un immaginario che muove idealmente tante persone, un’immagine che molto spesso non va di pari passo con la realtà. Come vedi tu dalla tua esperienza personale e artistica il rapporto metromontano alla luce di quello che è successo a causa del Covid negli ultimi dodici mesi? La montagna dell’epoca moderna e soprattutto del Novecento è la montagna dell’alterità. Ed è una montagna dell’eccezionalità che dimentica quella delle medie e basse quote, del vivere quotidiano. Però sarebbe fondamentale la ricostruzione di una montagna, anche della bassa e media quota, che ha molto a che fare con il tema metromontano. La montagna non è mai stata isolata, tutte le famiglie hanno lavorato e lavorano tra l’alta quota, la media quota, i pedemonti e via dicendo, è un sistema molto più complesso di quello che viene narrato.

Questo concetto è molto interessante. A volte in auto sembra di attraversare un deserto tra una città e un’altra. A me è successo una volta sola di raggiungere Verrès da Brusson a piedi, un percorso fatto di sentieri e stradine, in cui si attraversano tutti gli ecosistemi tra alta montagna e fondovalle. Ma in questa mezza montagna i paesi sono indeterminati, i sentieri non sono segnalati e invasi dal bosco, è tutto molto più confuso che in alto dove siamo abituati, dove tutto è ordinato come piace a noi di città.

Per tornare alla domanda sul Covid, a me sembra che quest’ultimo anno abbia reso evidente come il posto di lavoro sia diventato per molti di noi un’astrazione. Io sono convinto che lavorare da casa sia brutto perché bisognerebbe uscire e incontrare altre persone invece quasi tutti mi rispondono che non è così. Sembra che questa cosa che ci è successa abbia rilevato come il luogo di lavoro non sia più un elemento centrale nella nostra società e questo sta aprendo delle possibilità inimmaginabili prima, anche ovviamente sull’abitare.

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