La contrarietà alla battaglia contro le statue e le polemiche per la piazza di Neuchâtel intitolata a Louis Agassiz. L’email di uno storico che risponde a uno studente di liceo che lo contesta e lo considera un fuffy daddy
Il protagonista di Romanzo senza umani (Feltrinelli), l’ultimo romanzo di Paolo Di Paolo, è uno storico che ha indagato la Piccola era glaciale, un’epoca in cui – nel cuore del sedicesimo secolo – le temperature in Europa crollano. Nell’estratto che proponiamo, risponde via email a uno studente di liceo che gli ha posto qualche obiezione.
Caro Dario,
la prima cosa che pensiamo non sempre è la più intelligente, e nemmeno la più interessante; e che sì, come dici tu, sono già quasi un fuddy daddy (“persona all’antica”, ndr), e non credo di poterci fare granché. Voglio dire: arriva una mattina in cui ci svegliamo fuddy daddy del cazzo, e se qualcuno ce lo fa notare ci sembra impossibile, perché fino al giorno prima eravamo noi a puntare il dito sui fuddy daddy del cazzo, anche se non avevo mai sentito prima questa espressione. Vale lo stesso per te con il nome di Agassiz, no? L’hai googlato dopo averlo sentito citare da me quella mattina. Siamo pari.
Comunque: mi piace la fermezza con cui d’istinto posso dire, sulla base dei miei rodatissimi parametri culturali novecenteschi, o come vuoi chiamarli, “no, carissimo Dario, io dico no alle proteste contro le statue”, e mi piace – questa fermezza – perché argina una strana, quasi perversa tentazione.
Tra reazione e progresso
La tentazione di farmi prendere a sberle da uno come te, con il tuo viso ossuto, la tua espressione seria e il contorno degli occhi ripassato con la matita, di lasciarti opporre alle mie presunte certezze le tue supponenti domande, e di dimostrarmi non tanto che sbaglio, ma che in fondo, sulla base delle tue, delle vostre, supponenti domande, o proteste, io sono già cambiato, ho già cambiato il mio modo di vedere le cose e di pensare il mondo, perché il braccio di ferro tra Reazione e Progresso alla lunga lo vince sempre e comunque il Progresso. Non è una cosa bella né brutta, è una cosa vera.
Ho più del doppio dei tuoi anni, e se c’è una parte di me che si ostina a dichiararsi, se non contraria, di sicuro perplessa rispetto a certe istanze, l’altra le ha in sostanza già accolte: come se mi avessero lavorato dentro. In fondo, non è spiacevole accettare di poter somigliare ai figli, quando ci spingono a essere meno chiusi, meno gretti, meno stronzi. O semplicemente a cambiare punto di vista.
Hai torto, Dario, avete torto ma avete ragione, avete ragione voi su tutto, e semplicemente perché avrete ragione – sul modo di vedere le statue dei razzisti, sulla storia del mondo raccontata solo al maschile, sul sesso, sul lavoro, sul senso della vita – e avrete ragione finché non arriverà qualcuno che guarderà voi come dei fuddy daddy e ve lo farà pesare.
Io me ne vado per il mondo finché posso con il prurito che mi genera la data di scadenza stampata sul culo: in certe giornate – no, non dico buone, dico stranamente energiche, inutilmente energiche – mi prende la smania di difendere ciò in cui ho creduto, e forse ancora credo, come se fossi un vescovo nella diocesi del Valore-dello-Studio-e-della-Bellezza-e-della-Profondità.
In altre giornate, altrettanto inutili ma meno energiche e più rassegnate, forse perfino più serene, sento che al fondo, in uno strato di me oscuro e ultimo, non me ne frega più niente, non ho intenzione di difendere niente, e che se mi chiedi qual è il valore di questo o di quello, ecco, non riconosco alcun valore: riconosco solo me stesso devoto a una causa, a una specie di senso intermedio che non è il Senso, ma il surrogato benefico e provvidenziale che mi ha permesso – che mi permette – di tirare avanti.
L’intelligenza non è integrale
Mi sento, dirò così, come credo si senta quel rincoglionito razzista di Jean Louis Rodolphe Agassiz, biologo zoologo paleontologo ittiologo alpinista e glaciologo svizzero, noto per avere teorizzato le ere glaciali e oggi contestato per non avere compreso Darwin e avere sparato opinioni ributtanti sulle “razze inferiori” – d’altra parte, l’intelligenza non è mai integrale, è sempre circoscritta, funziona comunque a sprazzi. Dico che mi sento come Agassiz di fronte alle polemiche sul suo nome dato a una piazza di Neuchâtel: indifferente!
Diamo pure per acquisita la ragione dei posteri sul suo conto: ebbene, a lui, a Agassiz, che cosa gliene importa? Non penso nemmeno che se la rida: questo già presupporrebbe una reazione di scherno, una sprezzatura ironica.
Lui, quel che resta o non resta di lui, è talmente oltre da non essere più nella condizione di dover controbattere alla lettura di chi non lo ha mai nemmeno incrociato per strada. Gente venuta al mondo due secoli secchi dopo di lui: bah, figurati! Come se mi interessassi di cosa penserà di me – sempre che ne abbia occasione, e ho seri, serissimi dubbi – chi nascerà nel 2180. Mi metto a ridere, io sì, e da solo.
Non so se riesci a seguirmi. Non sono questioni per diciottenni, o forse sì, sono proprio questioni per diciottenni. Sappi che se da una parte riesco a prendere le distanze da me stesso, dall’altra no, non riesco a prenderle da ciò che gli altri pensano di me.
È il segno che, a differenza di Agassiz, sono vivo? Può darsi. Eppure, in certi passaggi dell’Inferno di Dante, mi impressionava la petulante aggressività di qualche anima dannata: intercettando il passeggero in carne e ossa, erano lì a implorarlo di fornire aggiornamenti sulle vicende terrene. Che si dice di me lassù?
Scusami, tutto questo non c’entra niente con le domande che mi hai fatto (rinnovo la promessa di rispondere), ma sai cosa? In questo momento mi trovo a Romanshorn, in Svizzera, a tre ore di macchina da Neuchâtel, là dove il nostro Agassiz centottanta anni fa esponeva le sue pionieristiche e geniali ipotesi sulle glaciazioni…
Dal passato
Sono qui per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, davvero troppo lungo. A ogni modo, pur senza essere Agassiz, e soprattutto senza la sovrana indifferenza che può permettersi lui, da morto, verso il regno dei posteri, vivo una stagione in cui mi sento come la sua statua imbrattata, come la targa stradale manomessa che porta il suo nome.
I miei contestatori non arrivano dal futuro ma dal passato: sono in sostanza miei contemporanei, gente che ho frequentato, con cui ho stretto legami, a cui ho dato quello che ho potuto – così poco, Mauro, così poco!, mi è stato di recente fatto notare, e non so se sia vero, ma il problema è proprio questo: accettare tutte le interpretazioni, convivere con l’immagine di noi che gli altri stabiliscono, rendersi disponibili alla colata di vernice rossa che piove sulla testa del monumento che avremmo voluto oggetto di esclusiva adorazione.
Vedi qual è il punto? Il passato non esiste, e se esiste si moltiplica, si polverizza in una miriade di versioni, nessuna esattamente collimante. Ogni vangelo è sempre secondo qualcuno, la lettura sinottica rivela più le incongruenze che le analogie.
Non fraintendermi, non pensare che ti stia impartendo, da storico, una lezione di revisionismo selvaggio. Per carità. Sto parlando della vita cosiddetta privata, di tutto ciò che non diventa Storia, di ciò che ci riguarda riguardando gli altri, non tanti, uno, cinque, dieci altri – da cui è comunque impossibile, prima ancora che ingiusto, pretendere che ci vedano come vorremmo essere visti. Che ci ricordino come vorremmo essere ricordati.
Ovvero, semplicemente, nel miglior modo possibile.
Perché vedi, Dario, ti sembrerà che io cada in contraddizione – è possibile, e in fondo non sarebbe nemmeno così grave –, ma se da un lato sono certo che Agassiz sia in uno stato di disinteresse totale nei confronti della posterità, dall’altro credo sia morto (era quasi il Natale del 1873, a Cambridge) con la speranza di essere ricordato bene.
Meglio, o forse peggio: con la certezza di avere lasciato un buon ricordo. Come biologo, come zoologo, come paleontologo, come ittiologo, come alpinista, come glaciologo. Come marito, come amante. Come padre. Come fottuto essere umano.
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