Si è spento a ottantuno anni il primo vaccinato al mondo contro il Covid, William Shakespeare, le immagini dell’inoculazione, avvenuta lo scorso 8 dicembre, furono accolte come il primo vero passo verso il superamento della pandemia. E la sua immagine, molto probabilmente, andrà assieme ad altre a costruire quell’immaginario visivo che da qui a qualche decennio ci ricorderà quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni.

A fargli ottenere per primo la benedetta iniezione non fu tanto il suo quadro clinico, particolarmente compromesso, ma molto probabilmente l’omonimia con il grande scrittore. Una mossa di comunicazione. Mettiamoci nei panni del governo inglese: chi vaccinare, su suolo britannico e primo al mondo, se non Sir William Shakespeare?

L’omonimo nostro contemporaneo è morto per tutti i malanni che aveva ben prima del Covid, a partire da un ictus, oltre a quella serie di cronicità, più o meno acute, che è in estrema sintesi la vecchiaia.

Il nostro telaio e i vari impianti vengono consumati dal tempo, è il nostro destino, tanto naturale per quanto oscuramente inaccettabile. Non c’è generazione che non sconti l’interrogativo più massiccio di tutti. Perché la morte? E perché la vita.

Sir Shakespeare, in questo senso, è un racconto a cuore aperto, su di sé accoglie l’uomo e la sua sorte, non di meno tutto quello che in termini di scienza e progresso è stato fatto per ripudiare ciò che dovrebbe, come detto, essere naturale.

Il progresso scientifico, straordinario, sotto forma di vaccino lo ha immunizzato da un virus, ma non lo ha sottratto alla sua natura.

Nasciamo, moriamo.

Uno slancio folle

Salute e salvezza hanno in comune la stessa radice etimologica: sàlus. La prima, la salute, è alfabeto consentito a noi esseri umani: possiamo rimediare ai malanni che ci capitano lungo il viaggio, allungando in questo modo anche la durata del viaggio stesso. La seconda invece, la salvezza, è un presentimento, un ricordo profondissimo che ci ritroviamo in dote senza avere nozione alcuna di esso. Non abbiamo un dettaglio che sia uno, eppure, molto più di morire, ci sembra naturale l’esatto contrario. Resistere. Oltre tempo e mondo. Uno slancio apparentemente folle, incredibile, dettato solo da amore e bellezza.

Shakespeare, l’operaio della Rolls Royce, non lo scrittore, si è giovato dei progressi del suo tempo, ha potuto attingere alla medicina per allungarsi la vita. Ma niente ha potuto, esattamente come il suo omonimo scrittore, contro la morte.

L’ottantunenne lascia figlie e nipoti, l’unico lascito in vita concesso a noi esseri umani. Questo per chi non vede mistero all’orizzonte. Per gli altri è d’obbligo passare all’altro Shakespeare, padre di lettere come pochi altri. Il sonetto XV è cucito per l’occasione. Quando penso che al mondo quel che cresce/sta nella perfezione un solo istante,/che in questa immensa scena chi entra o esce/è per le Stelle solo un’ombra errante;/e l’uomo vedo che come una pianta,/sempre dal cielo aiutato e avversato,/gioventù perde, e tutto quel che vanta,/e cade nell’oblio più disperato,/l’incostanza di vita vedo chiara:/ti ricordo nel massimo splendore,/mentre declino e tempo or fanno a gara/per trasformar la tua luce in squallore:/e a fare guerra al Tempo, per te muovo/se lui ti taglia io ti innesto di nuovo.

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