«Ultimi 250 metri. Andiamo a vincere. Rinviene la Germania, ma la prua è italiana. Ed è la prima a vincere, davanti alla Germania Est».

Lo stile inconfondibile del Giampiero Galeazzi telecronista nacque alle olimpiadi di Seul del 1988; la voce concitata, quasi strozzata, il tifo e il coinvolgimento emotivo non più mascherati, ma fanaticamente esibiti, l’immedesimazione totale con gli atleti campioni olimpici del canottaggio, i fratelli Abbagnale e il “mitico” Peppino Di Capua. Morto ieri a Roma all’età di 75 anni dopo una lunga malattia, Galeazzi merita un posto d’onore nella lunga storia della telecronaca sportiva, genere del tutto peculiare del piccolo schermo, di cui ha rappresentato, anticipandole, alcune sue evoluzioni, nel difficile equilibrio tra competenza, informazione e partecipazione passionale che la caratterizza.

In quel 1988, la copertura televisiva dello sport viveva una prima grande rivoluzione; le olimpiadi coreane vennero trasmesse non soltanto dalla Rai, ma anche da Telemontecarlo e TeleCapodistria, costringendo a modificare palinsesti, aggiornare linguaggi, sperimentare nuovi stili e modelli di racconto.

Galeazzi ci mise del suo, trasformando la telecronaca delle gare in pura catarsi, narrazione che sfocia inevitabilmente là dove solo deve approdare, nell’intrattenimento preteso dello sport-spettacolo. Galeazzi chiama i campioni per nome: Carmine e Giuseppe, come a Sidney 2000 farà con ancora maggior enfasi con Antonio (Rossi) e Beniamino (Bonomi), e anche con Josefa (Idem), contravvenendo al protocollo sobrio e istituzionale del servizio pubblico, eccedendo per i puristi, eppure sempre sfangandola con il mestiere del cronista di razza.

Un’anomalia

Del resto, la parabola di Galeazzi è del tutto anomala per il giornalista Rai di quegli anni: atleta di canottaggio lo era stato sul serio, partecipando alle selezioni per le olimpiadi di Città del Messico del 1968 e cominciando proprio in questa disciplina la sua ascesa come radiocronista ai giochi di Monaco di Baviera di quattro anni più tardi.

Laureato in Statistica e assunto per pochi mesi all’ufficio marketing della Fiat (negli anni difficili in cui i dirigenti del Lingotto finivano ammazzati in Sudamerica per mano dei Tupamaros), passò in televisione con la rubrica Mercoledì sport, e lavorando alla Domenica sportiva di Paolo Frajese.

Il tennis e il canottaggio hanno rappresentato le sue passioni e i suoi terreni professionali più battuti per l’intera carriera. Se il primo lo ha visto disputarsi il primato con il maestro Rino Tommasi, espressione indiscussa della competenza, della precisione e della telecronaca-compendio cui Galeazzi contrapponeva il guizzo e la battuta a effetto, il canottaggio è stato per tanti anni suo regno incontrastato, spazio nel quale forgiare quello stile “partigiano” riconoscibile che oggi spopola, non senza derive, nelle telecronache di imprese di atleti e squadre nazionali.

Eppure, “Bisteccone” (il soprannome glielo diede il collega Gilberto Evangelisti) è stato anche tanto altro: di lui si ricordano le incursioni a bordo campo o negli spogliatoi, nell’intervallo o a fine partita, durante gli incontri della Serie A degli anni Ottanta, quella dei grandi campioni come Maradona o Platini che si lasciavano intervistare e sedurre dalla sua bonarietà e da una sorta di incoscienza vissuta come intraprendenza giornalistica.

Non a caso, è proprio in questo ruolo che lo troviamo immortalato ne L’allenatore nel pallone, film culto della commedia italiana degli anni Ottanta, quando intervista Lino Banfi-Oronzo Canà prima di Milan-Longobarda (la squadra fittizia protagonista della pellicola); e non a caso, la scena è preceduta da un frammento di telecronaca di Nando Martellini, il simbolo dello sport televisivo istituzionale, in una distinzione di ruoli, funzioni e stili mai così evidente.

Emblematico, in questo senso, il suo lungo servizio in diretta dallo spogliatoio del Napoli campione d’Italia, travolto dagli abbracci e dai gavettoni, quando Maradona gli tolse di mano il microfono e si mise ad intervistare i suoi compagni. Sopraffatto, ma non intimidito, seppe stare al gioco regalando agli sportivi e agli appassionati un momento raro di televisione.

Lo scudetto della Lazio

©Cosima Scavolini/Lapresse 24-10-2004 Roma Spettacolo Trasmissione Domenica In Nella foto Mara Venier con il piede ingessato tra Paolo Limiti Giampiero Galeazzi e Massimo Giletti

Tifoso laziale (curiosamente e sadicamente la sua carriera giornalistica affondava nelle cronache delle partite della Roma), nel 2000 abbandonò una noiosa finale degli Internazionali d’Italia di tennis per correre in strada a festeggiare lo scudetto biancoceleste, improvvisando interviste e raccogliendo in presa diretta le reazioni.

Rischiò il licenziamento, ha raccontato, ma ristabilì la sua visione ruspante e schietta del giornalismo, che deve saper cogliere l’attimo adattandosi alle situazioni, concezione che lo condusse persino a raccontare per la Rai lo storico incontro distensivo tra Gorbacev e Reagan a Reykjavik nel 1986, per il semplice motivo che si trovava in Islanda per seguire una gara di Coppa dei Campioni della Juventus.

Passò in studio nel 1992 conducendo 90° minuto per poi approdare a Domenica In, attratto e travolto dalla macchina dell’intrattenimento e del generalismo anticipando una traiettoria che molti altri telecronisti contemporanei (da Fabio Caressa a Pierluigi Pardo) intraprenderanno.

L’incontro con Mara Venier e la condivisione per anni della domenica pomeriggio ha rappresentato un passaggio fondamentale del “Bisteccone” televisivo; un sodalizio che ha modificato la natura della sua carriera e di cui rimane il toccante ricordo della sua ultima apparizione in tv di due anni fa, proprio nel salotto domenicale che lo aveva visto protagonista, già profondamente provato dalla malattia.

Un personaggio talvolta burbero e ingombrante che ha sollecitato imitazioni e parodie, una su tutte quella strepitosa e indimenticabile di Nicola Savino a Ciao belli di Radio Deejay (e poi a Zelig). E immaginiamo che oggi molti lo vorranno salutare proprio come si chiudevano quelle gag, con quel “Ciao, mitico” stropicciato in romanesco e divenuto tormentone.

 

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