Pubblichiamo un estratto del volume “Il mosaico della libertà: perché la democrazia vale” (Bocconi Editore – Egea), l’ultima riflessione del filosofo scomparso a 77 anni.

Pensare questa crisi ci chiede di pensare il pianeta. Il solo pianeta che ci è accessibile. Sino a prova contraria, l’unico pianeta che sia il nostro pianeta (in che senso preciso sia «nostro» lo vedremo più avanti). Non c’è un pianeta B, come dicono le ragazze e i ragazzi dei Fridays for Future. E pensare il pianeta vuol dire oggi pensare ai cicli della globalizzazione e della deglobalizzazione e ai loro effetti.

Effetti di saccheggio, di consumo bulimico delle risorse naturali, di cambiamento climatico, di progressiva riduzione della biodiversità, di scioglimento dei ghiacciai, di acidificazione degli oceani, di desertificazione, di deforestazione, di grandi aree di persistente inquinamento nelle metacittà o megalopoli e del variegato corteo dei mali sociali che un capitalismo impaziente e predatorio infligge alla natura e ai suoi ecosistemi, così come alle istituzioni democratiche e alla qualità di vita delle persone.

La pandemia da Covid-19 è uno degli esiti (un esito prevedibile e solo in parte previsto) dello stato del pianeta guasto e, al tempo stesso, funziona come un rivelatore dei mali e delle contraddizioni sociali. Come sappiamo, la pandemia, infatti, è un’epidemia globale. Perché il virus non prende sul serio i confini. Ecco una prima contraddizione che dovrà essere al centro dell’analisi: il carattere globale della pandemia e le risposte debolmente globali e prevalentemente locali alla stessa.

Pianeta e globalizzazione

Consentitemi una breve osservazione filosofica. La prima contraddizione se ne porta con sé un’altra, a un livello più generale e astratto, che è propria del pensiero critico e che sarà ricorrente nelle mie riflessioni: la contraddizione fra il pianeta come è e il pianeta come noi oggi possiamo realisticamente pensare potrebbe essere. Come dire: l’altra faccia della globalizzazione è la mondializzazione possibile di una civiltà di tutte e di tutti, che si incentri su diritti e giustizia ambientale come giustizia sociale.

Oggi la possibilità è in conflitto con la realtà del pianeta malato. Ma che le cose stiano così, dipende da quanto ci detta il senso della realtà. È chiaro che siamo noi ad avvertire e pensare le possibilità alternative. Ma esse sono, per così dire, possibilità incorporate nello stato delle cose e non dipendono solo da come noi le pensiamo. Nel gergo del grande Leibniz, i possibili confliggono per pervenire all’esistenza.

E sappiamo anche che non c’è molto tempo per sistemare la faccenda e che il rabbi Hillel non aveva torto quando si era chiesto: se non ora, quando?

Pensare questa crisi ci chiede di pensare l’umanità, se ancora ne siamo capaci. La proposizione soggiacente al programma su sviluppo sostenibile e giustizia sociale è del tipo: un solo pianeta, una sola umanità. Ma di quale umanità parliamo propriamente, quando parliamo di umanità?

Sappiamo che molti esseri umani e convenzioni e istituzioni e pratiche sociali escludono dallo spazio condiviso dell’umanità altri esseri che non sono riconosciuti come umani. Razzismo, sessismo, classismo, nazionalismo, patriarcalismo, fondamentalismo sono operatori della lacerazione e della scissione dello spazio d’umanità.

In molti luoghi del pianeta ha senso chiedersi «se questo è un uomo». Guerre, massacro, deportazioni, sfruttamento, crudeltà e barbarie, cattività, tortura e schiavitù: qua e là per il pianeta e fra noi. La crudeltà al primo posto, per dirla con Michel de Montaigne. Qui la seconda contraddizione chiama in causa il riconoscimento di un’umanità possibile e lo stato di fatto di un’umanità negata.

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Nell’occhio del ciclone della crisi molti hanno pensato che regimi politici autocratici, certo meno complessi di quelli democratici, disponessero di una maggiore capacità di risolvere i problemi e affrontare con successo le sfide. Abbiamo visto che non è così. Ma abbiamo anche toccato con mano la necessità che lo Stato e la deliberazione politica democratica abbiano primazia sui processi economici e sociali. C’è stata, implicita o esplicita, una domanda di politica entro le nostre imperfette democrazie. Una domanda di una politica democratica all’altezza di minacce e di sfide straordinarie, nel senso letterale di non ordinarie. Si tratta di una domanda di politica democratica al suo meglio, che viene richiesta dall’esterno, per fronteggiare efficacemente l’«assedio» nell’arena internazionale delle autocrazie illiberali.

Sono convinto che questo sia un punto molto importante, emerso con forza ed evidenza dalla crisi provocata dal Covid-19, e che noi dobbiamo prenderlo molto sul serio, pena l’esperienza di una regressione che potrebbe investire al tempo stesso le istituzioni, la società e l’economia estendendo la cappa oppressiva di un ancien régime premoderno. E contrassegnando una severa perdita di semplice civiltà, come quando avvertiamo, per dirla con Marx, che «le mort saisit le vif».

La crisi

La nostra riflessione sulla crisi generata dalla pandemia potrebbe ora articolarsi in una più compiuta analisi di conseguenze e implicazioni su differenti livelli. Perché è importante questo esercizio? Semplicemente perché ci consente di tratteggiare in modo realistico le caratteristiche salienti di quella normalità che molti invocano e da cui, al contrario, dovremmo scostarci radicalmente.

L’ho detto nell’incipit: il modo realistico è alla base del pensiero critico. Per cui dovremmo vedere le cose nell’ottica del loro cambiamento, entro i vincoli dati e le circostanze determinate. Solo così possiamo delineare i fondamentali di un futuro cui corrisponda un’immagine di liberazione e di emancipazione umana che preservi l’eco dei valori del progresso e della giustizia sociale ai tempi di un rinnovato patto fra società, scienza e natura. Vorrei precisare che, in ogni caso, l’emancipazione umana è possibile solo se la priorità è data alla questione di genere, da noi e in giro per il «nostro» mondo interdipendente, piccolo e maledettamente inquinato.

Consentitemi tuttavia, in conclusione, di abbozzare ancora una volta una congettura filosofica. Covid-19 ha messo a fuoco, inter alia, le dimensioni della fragilità delle nostre democrazie. Ma ha messo a nudo anche la nostra vulnerabilità e la nostra fragilità e ci ha ricordato quanto sia miope e filosoficamente ottuso sottovalutare l’importanza del nostro essere, in quanto esseri umani, corpi in carne e ossa, corpi e menti di animali umani esposti alla sorte e all’inaspettato. Noi non abbiamo corpi. Noi siamo corpi. Allo stesso modo, noi non abitiamo la Terra, la Madre terra, noi le apparteniamo.

Noi siamo certamente esseri frutto dell’evoluzione culturale tanto quanto lo siamo dell’evoluzione naturale. Noi non siamo i signori dell’universo, né i pinnacoli orgogliosi della creazione. Noi siamo nello stato contingente dell’essere creature nel senso che il mondo non è in alcun caso nostro. Infine, il nostro slogan prezioso «una sola umanità, un solo pianeta» va integrato con la glossa che ci ricorda che, come viventi, noi non siamo soli. La glossa elide la pretesa illusoria dell’eccezionalità antropocentrica.

Come siamo parte della natura e della cultura, come siamo un impasto di biologia e di logica, così noi apparteniamo al sistema e alla comunità del vivente. L’umanità è un sottoinsieme della comunità biotica. Il riconoscimento di ciò è il riconoscimento di un limite umano, solo umano. Viene fatto di pensare al limite cui il grande Leopardi nella Ginestra alludeva, potendo evocare a questo punto la solidarietà umana, solo umana, e la «social catena».  E questo può essere il nucleo di una nuova prospettiva di ecologia radicale e di giustizia sociale.

Un invito

L’ultima riflessione contiene un invito intellettuale implicito a lavorare, con una essenziale pluralità di approcci, a una nuova teoria ecologica. Questo, sullo sfondo di una filosofia ambientale che riprenda e sviluppi il programma di ricerca dei migliori contributi della seconda metà del secolo scorso. Con un’avvertenza: noi oggi abbiamo bisogno di impegnare le nostre risorse intellettuali, consapevoli dell’essenziale incompletezza e insaturazione di qualsivoglia approccio disciplinare. Noi ci muoviamo naturalmente entro discipline. Come potrebbe essere altrimenti? Ma sappiamo che, ai limiti del nostro dominio disciplinare, ve ne sono altri e che la cooperazione tra essi per la soluzione dei nostri difficili problemi è l’unica risorsa grazie al cui impiego possiamo sperare di venire a capo delle sfide inedite che abbiamo di fronte, a partire dalla pandemia da Covid-19, disponendo come sfondo appropriato del paradigma dello sviluppo sostenibile. E il nostro programma multidisciplinare di ricerca per una nuova teoria ecologica comprensiva potrebbe avere come motto quello spinoziano: «quis auget scientiam, auget et laetitiam».

Ha affermato Arundhati Roy, la scrittrice indiana, attivista nel campo dei diritti umani e delle questioni ambientali, e autrice de Il Dio delle piccole cose: «Storicamente le pandemie hanno forzato gli esseri umani a rompere con il passato e a immaginare un nuovo mondo. Questa volta non è diversa. È un portale, un passaggio da un mondo a uno successivo. Possiamo scegliere di attraversarlo, trascinandoci dietro le carcasse dei nostri pregiudizi e del nostro odio, la nostra avarizia, i nostri dati bancari e gli ideali ormai morti, i fiumi e i cieli inquinati. Oppure possiamo attraversarlo alleggeriti, pronti a immaginare un nuovo mondo. E a combattere per esso».

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