L’opacità sul colonialismo. Come gestire le opere rubate

Nel quartiere Eur, a Roma, c’è un archivio in cui sono contenuti circa 12.000 opere e documenti che raccontano e testimoniano l’attività coloniale italiana, una attività iniziata ben prima del fascismo e durata quasi un secolo, dal 1882 al 1960. Pochi conoscono le guerre e le storie di occupazione dell’esercito italiano in Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia e, ancora meno, i crimini di guerra commessi dai nostri soldati in quelle terre, crimini per cui nessun esponente dell’esercito o del governo italiano è mai stato processato a causa dell’amnistia firmata da Palmiro Togliatti. Così, mentre l’esercito monarchico prima e fascista poi ha deciso a più riprese di dichiarare guerra a paesi africani con cui l’Italia non aveva avuto nessun conflitto che giustificasse una simile scelta, gli italiani occupanti hanno collezionato nel corso dei decenni migliaia di reperti. La lista è molto eterogenea: ci sono quadri, manufatti, reperti archeologici, oggetti d’uso quotidiano, carte geografiche, strumenti scientifici, reperti naturali e utensili appartenuti a chi viveva in quei territori. Si tratta di oggetti destinati a far parte di un progetto di propaganda ben preciso che trova la sua attuazione più completa dal 1923 quando al Palazzo della Consulta a Roma viene inaugurato il Museo Coloniale. Il “colonialismo in vetrina”, i musei che hanno creato l’Impero Collezioni rubate La sede coincideva con quella dell’allora ministero delle Colonie da cui il museo dipendeva: la disposizione e la narrazione proposta rifletteva il desiderio di raccontare il potere e la supremazia che l’Italia esercitava su quei luoghi. Il museo, dopo alcuni spostamenti di sede e cambi di nome, è stato definitivamente chiuso nel 1971 e oggi, dopo alcuni passaggi di competenza, i 12.000 reperti rubati o sottratti all’Eritrea, la Somalia, la Libia e l’Etiopia appartengono al ministero dei Beni e delle Attività culturali. Negli ultimi anni si è posto il problema di cosa fare di questa folta collezione: restituire alcuni reperti ai paesi che ne avrebbero fatto richiesta, come costruire una narrazione critica dell’operato italiano nei territori occupati, come disporre gli oggetti nello spazio del museo dato che il museo stesso, come racconta anche anche Françoise Vergès nel suo Il museo come campo di battaglia, è una istituzione per sua natura pregna di atteggiamenti coloniali dato che quelli che noi consideriamo reperti sono in realtà il frutto di saccheggi. La risposta non è facile ma dal 2022 è stato costruito uno spazio istituzionale per la formazione progressiva di un gruppo di ricerca internazionale che si occupi proprio di riflettere su come gestire e esporre il conflitto che questi reperti contengono. Oggi chiunque decida di andare al quartiere Eur di Roma, (acronimo che sta per Esposizione universale romana) e attraversare uno spazio nato appositamente per celebrare il potere imperiale fascista, può entrare nel Palazzo delle Scienze del Museo delle Civiltà (Muciv). Nel salone di ingresso del museo, sulla sinistra della scala centrale del palazzo che conduce ai piani superiori, c’è un’altra scala elicoidale. Si tratta di una installazione che esemplifica il conflitto tra due storie: quella italiana, criminale e coloniale, e quella dell’impero etiope che ha subito i massacri compiuti dall’esercito fascista. L’opera è firmata dall’artista etiope Jermay Michael Gabriel nato ad Addis Abeba e si chiama ካቲት ፲፪ Yekatit 12, data che nel calendario Etiope corrisponde al 19 febbraio. In quel giorno del 1937 l’allora viceré di Etiopia e criminale di guerra Rodolfo Graziani viene ferito durante un attentato organizzato dalla resistenza etiope e, per rappresaglia, Graziani ordina di aprire il fuoco su qualsiasi abitante di Addis Abeba: secondo le stime degli storici le vittime etiopi furono almeno 19.000. Lasagna etiope: quel che resta del colonialismo italiano Nel calendario etiope Yekatit 12 è una giornata di lutto nazionale volta a ricordare le migliaia di vittime innocenti. In Italia, invece, durante la giornata non è prevista nessuna commemorazione ufficiale nonostante a ottobre del 2023 alcuni deputati avessero presentato una proposta di legge per istituire un “giorno della memoria” dedicato alle vittime del colonialismo italiano e dell’occupazione etiope (con questa definizione, tuttora, la popolazione etiope si riferisce alla presenza italiana nel paese). L’opera Yekatit 12 è una fedele copia di un’altra opera, quella voluta dallo stesso Graziani in Etiopia e ancora oggi presente nel paese: sono 14 gradoni che rappresentano ciascuno un anno del regime fascista (dal 1922 al 1936, anno in cui l’esercito fascista invade l’Etiopia). Al suo termine, il 5 Maggio del 1941, l’imperatore Hailé Salassié riprende il potere del paese e colloca sul gradino più alto della scala il Leone di Giuda, simbolo dell’impero Etiope, per dimostrare la fine dell’occupazione italiana. L’opera originale quindi era già stata risignificata ma quella presente al Muciv continua e affina il processo di decolonizzazione: dietro al leone vengono proiettate le immagini di Graziani ferito dall’attentato, materiali di propaganda e annunci di indipendenza. Inoltre, l’allestimento proposto al Muciv mette in dialogo la scala con un reperto molto problematico dell’ex museo coloniale che non oggi non potrebbe essere esposto senza la cura e la critica necessaria. Si tratta di una bandiera sottratta al consolato etiope di Gibuti firmata da alcuni italiani. Carrie Mae Weems fotografa la storia, anche nella sua cucina Il progetto La bandiera è indirizzata a Graziani e viene offerta per dimostrare il proprio sostegno al suo operato. La scelta di mettere in dialogo la bandiera con un’opera di un’artista etiope rappresenta la volontà di stabilire un nuovo dialogo tra i reperti dell’ex museo coloniale e le comunità che hanno subito l’occupazione italiana attraverso le loro sensibilità e le proprie prospettive: l’allestimento non cerca conciliazione ma, piuttosto, una storia plurale e conflittuale. Il progetto curatoriale affidato a Rosa Anna Di Lella, Gaia Delpino e Matteo Lucchetti, non a caso, si chiama “Museo delle Opacità” dove “opacità” si riferisce sia all’amnesia italiana che non conosce sostanzialmente nulla della sua storia coloniale sia alla teoria del poeta e saggista decoloniale Édouard Glissant. Per Glissant l’opacità è il diritto di ogni individuo a non assoggettare la propria identità a pratiche di accettazione ma associarla a pratiche di condivisione. Dopo il primo capitolo del 2023, attualmente è visitabile il secondo capitolo del Museo delle opacità che si concentra principalmente sulle agricolture e le architetture coloniali per analizzare lo sfruttamento italiano dei popoli e dei territori. Dal 2026, invece, si attende al Muciv un riallestimento permanente dei reperti dell’ex museo coloniale capace dare la parola a tutte le soggettività interessate da questa storia.