Tutte le canzoni sono esoteriche a modo loro. Il significato vero è nascosto sotto, dietro le parole. Spesso soltanto nell’inflessione di una voce, nel riverbero di un’armonia. Nei primi anni Ottanta, quelli dello spaventoso e inatteso successo popolare (che ci fece scoprire cosa fosse la pop culture e quanta forza potesse avere la tv) le canzoni di Franco Battiato sono state doppiamente esoteriche. Erano alte e basse insieme, usavano lessici gozzaniani, tardo coloniali, indovinelli a chiave. All’epoca non molti sapevano cosa si nascondesse esattamente sotto l’espressione «centro di gravità permanente», né si raccapezzavano tra gli insegnamenti del mistico russo Gurdjieff che il cantante siciliano aveva eletto a suo riferimento nel turbolento passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta. D’altra parte, ridotto a un ritornello, il messaggio aveva una sua superficiale semplicità. Vecchia bretone + contrabbandieri macedoni + gesuiti euclidei (ricordate?). Non sopporto i cori russi, il free jazz punk inglese. Quindi cerco un centro eccetera. Funzionava lo stesso, anche al Festivalbar e dentro i film di Nanni Moretti. Dava una patina di glamour (e sintomatico mistero) a quello che contemporaneamente sembrava negare.

Ma non era tutto. Era stato l’amico Roberto Calasso, fondatore di Adelphi, a indirizzare il musicista verso la pratica della meditazione con un neonato gruppo milanese, dopo la lettura durante una vacanza in montagna di un volumetto su Gurdjieff di Astrolabio – specialità filosofie orientali, nelle librerie di allora spiccavano per i colori azzurrini, rosato e paglia e l’innaturale levigatezza della copertine prive di immagini. Battiato ha raccontato che all’epoca era uscito da più di un “esaurimento” come si diceva allora. Da una folle attività creativa a cavallo tra il rock sperimentale e la musica contemporanea. Era l’allievo prediletto di Stockhausen. Mezzo Cage, mezzo Zappa. Una presenza disturbante in decine di festival rock all’aperto: lui dietro un muro di sintetizzatori urlanti, poco altro. Ma tutto cambiava in fretta. L’Italia di inizio anni Ottanta si annunciava come un mondo estremamente interessante e vivace. Dissolte nella luce azzurrina della tv a colori che illuminava il nuovo boom economico le selvagge e tetre certezze della stagione precedente. Spogliarelli a mezzanotte. Il kitsch e il camp. Momento era buono per i santoni, i complotti, l’assoluta e tossica perdita di sé, la cura di sé. Meglio filosofie che non negassero la vita ma che in un certo senso rendessero vitale la negazione, il pensiero della morte e della reincarnazione, il tutto unito d’altra parte a un certo ritrovato orgoglio nazionale (il partigiano presidente, la coppa del mondo...). Le canzoni di Battiato ritraggono questo mondo nuovo e vitale attraverso il prisma deformante delle canzonette new wave. L’ottimismo del momento è appena mascherato dal sarcasmo (rivedere l’intervista di Pippo Baudo a Domenica In, 1980). Un certo dandismo camp e decadente si fa strada qua e là. Neppure a caso Battiato aveva lavorato con Alfredo Cohen, uno dei primi performer omosessuali e con Milva, icona totale, scrivendo per entrambi la stessa canzone: Alexanderplatz. E quando cantava: «Voglio vederti danzare... al suono di cavigliere del Kathakali», e di Radio Tirana, danzatori bulgari, Bassa Padana, (gli avrebbero giustamente reso omaggio per questo i Cccp - Fedeli alla Linea) aveva uno stile pazzesco: postmodern minimale siculo azerbaigiano con colbacchi di inverno e i kepì turchi d’estate. Camicie abbottonate fino all’ultimo bottone, sandali a piedi. Molte palme di contorno, un po’ Schifano e un po’ Memphis. Ballava benissimo, quasi come avremmo visto fare David Byrne di lì a poco. Perché – ma questo da ascoltatori lo sapevamo ancor meno del resto – anche la danza circolare ispirata ai dervisci era legata alla sua pratica di meditazione.

In tutte le dottrine neopitagoriche la musica comunica agli iniziati cose che soltanto loro possono interpretare. Allo stesso tempo, per i non iniziati la musica ha una forza magica quando è capace di risuonare con le vibrazioni del mondo. Nell’esoterico canzoniere di Battiato il messaggio non sono le parole. Sono le vibrazioni. È la vocalità coi salti di ottava e l’enfasi sui semitoni come momenti di frattura e di cambiamento, ancora ispirata agli insegnamenti di Gurdjieff. Probabilmente anche il ritmo motorik di sconcertante minimalismo (lo stesso che in quegli anni affascinava David Bowie e Robert Fripp, altro seguace del Maestro) ha qualche giustificazione simile. La pronuncia araba, studiatissima palatale dolcezza mediorientale, è un’altra grande invenzione che rende La voce del Padrone e Patriots due dischi letteralmente senza termini di confronto nella storia della musica italiana. E di effetto incalcolabile, mutante, sull’emotività nazionale.

La simbolica Milano

Arrivato a Milano dalla Sicilia (e da un’altra epoca) per fare il cantante, avendo come punto di riferimento quella Galleria vicino al Duomo dove avevano sede gli editori musicali, Battiato aveva incontrato sulla sua strada artisti come Giorgio Gaber, col quale aveva musicalmente condiviso l’abbandono della canzonetta e la nascita del teatro-canzone – che pure, per chi ha avuto l’avventura di assistere dal vivo a quegli spettacoli, ha una notevole dimensione di psicodramma e showdown collettivo. Gianni Sassi, pubblicitario agitatore situazionista, lo aveva voluto come modello per una mitica foto pubblicitaria del divano Busnelli. E attraverso Sassi Battiato aveva incrociato John Cage. Quelli di Re Nudo organizzavano i festival dove Battiato arrivava, si nascondeva dietro un muro di sintetizzatori (che per primo aveva portato in Italia, o forse per secondo dopo Piero Umiliani) e finiva bersaglio di lattine di coca e scemo scemo in un caotico delirio elettronico. E con tutta la agguerrita schiera dei giornalisti dei mensili Gong e di Muzak polemizzava in ogni modo: era lo stile dell’epoca (si litigava anche senza social) ma si dice che abbia ricominciato a scrivere canzonette per specie di sfida con quelli di Muzak nel momento più astruso e inaccessibile della sua carriera.

Non ha fatto tutto da solo. Ma ciascuna della sue canzoni sembra arrivare da una solitudine diversa. Battiato dava del tu a Karlheinz Stockhausen (proprio mentre Connie Plank e Brian Eno sperimentavano il futuro della musica elettronica). Musicista viaggiatore capace di attraversare in pullman i confini del mondo occidentale viaggiando assieme al gruppo dei suoi amici e collaboratori a Milano come Mino Di Martino e Lino Capra Vaccina, la mitica tournee del Telaio Magnetico, di cui restano pochi preziosissimi nastri registrati. Di imparare l’arabo. La musica contemporanea, gli armonici infiniti del pianoforte de L’Egitto prima delle sabbie. Questo periodo ha avuto una nuova eco internazionale con le ristampe americane qualche anno fa di dischi come Sulle corde di Aries e Clic. Lui stesso dopo aver sistemato i conti col suo apprendistato da cantante leggero italiano nelle raccolte Fleurs, si era dedicato a restaurare un po’ di quel materiale avventuroso tornando a suonare in giro con il suo amico Pino Pischetola per un pubblico di giovani e meno giovani fan dell’unico nostro musicista che poteva competere davvero nel campionato del mondo del kraut rock e del prog internazionale (assieme a Morricone, pochissimi altri).

Sul ’68 Battiato la pensava come Ionesco – disse una volta – il commediografo che dalle sua finestre a Parigi gridava ai cortei «finirete tutti a fare i notai». Ma si farebbe torto al genio errante dell’artista e intellettuale della Magna Grecia se dimenticassimo i fragorosi smarrimenti di quel periodo in una Milano da urlo per quant’era ancora vitale e culturalmente esplosiva, senza grattacieli né aperitivi, con la strategia della tensione e gli anni di piombo. Le canzonette degli anni Ottanta – quelle citate ora da chiunque nel tweet medio di cordoglio, le Bandiere Bianche e le Cure – perdono di senso se non si ascoltano attraverso l’eco della produzione anni Settanta, caotica, rock, radicalissima. Prima di rifugiarsi in Sicilia a occuparsi di sé tra i tamarindi e i limoni, Battiato era stato uno dei simboli di quella Milano che resta il simbolo di tutto ciò che l’Italia prometteva di essere e non è stata. Gurdjieff, chiedo scusa per la spiccia crudezza, era l’ascesi postmoderna e ottimista. Interrotta dal brusco risveglio di Tangentopoli. Dunque Povera Patria, come dargli torto, il dolente coro verdiano non si sa quanto ironico. Certo, niente a che vedere con l’altro santone Osho che a Milano nello stesso periodo fece vestire d’arancione più d’uno tra gli stessi conoscenti di Battiato. Ma Osho è finito in un documentario ad allungare le mani alle segretarie in Rolls Royce. Di Gurdjieff si sa che ispirò anche Gianroberto Casaleggio, forse Beppe Grillo, e probabilmente certi ultimi tristi duetti del Maestro con Marco Travaglio. Ma di questo non si può dare colpa a nessuno.

 

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