I dischi più ascoltati al mondo in questi giorni – Certified Lover Boy di Drake e Donda di Kanye West – pubblicati a breve distanza dai due rapper più ricchi e popolari di tutti, sono opere da crisi di mezza età, dolenti e rabbiose. Disperatamente maschili. «Una combinazione di mascolinità tossica e verità strappacuore» ha precisato Drake, con qualche ironia. Mascherati dal sonnambulo flow dei versi e della musica, tocchi di sincerità, narcisismi da autofiction. Sopra a tutto il fascino e l’intraducibilità della cultura popolare afroamericana.

01/05/2019 Las Vegas, Billboard Music Awards 2019, nella foto Drake con i premi

Divisi e uniti

«La carriera va bene/ ma il resto di me lentamente dissolve» rappa Drake in Champagne poetry, la voce non mutata dall’autotune e un nostalgico arrangiamento di Michelle dei Beatles sullo sfondo (ambiguo omaggio: i Beatles li ha tatuati sul braccio, sono un suo bersaglio da quando li ha battuti per numero di singoli contemporaneamente in classifica).

«Ho una casa da 60 milioni di dollari ma non è mai stata casa mia (…) / cercavo amore vero e ho chiesto a Kim cosa ti piace / (…) difficile sapere la verità, la verità è che la verità fa schifo», mastica amaro Kanye West in Hurricane, chiedendo aiuto a Dio in persona con la voce angelica di Weeknd nel ritornello.

A tre anni dal precedente e cristianissimo Jesus is King, il rapper di Chicago che di anni ne ha 44 dedica alla madre Donda – ex docente di letteratura all’università, morta nel 2007 dopo un disgraziato intervento di liposuzione – il catalogo dei suoi dolori: la fine del matrimonio con Kim Kardashian, la depressione, i disturbi mentali, la confusione politica e ideologica su ogni argomento: trumpiano prima, complottista poi, prolife, no vax, candidato in proprio alle elezioni americane con la lista Birthday party e il programma copiato al film Black Panther. La ricerca ossessiva, così afroamericana (come tutto il resto), della salvezza spirituale: «Il tempo di Dio non sta su un polso soltanto», avverte parlando di orologi e patacconi.

New York, Kanye West is seen performing during a Surprise World AIDS Day (Red) concert at Times Square (Agf)

Meno sofferta in apparenza la figura di Drake. 35 anni, canadese di Toronto guascone e donnaiolo, meme vivente in rete, che sente di dover iniziare la recita tirando in ballo suo figlio Adonis, 4 anni. La paternità – avverte – lo ha reso ancor più “hot” di prima.

Nato da una breve relazione con l’ex pornostar Sophie Brusseaux che ora vive a Parigi, nascosto all’inizio, svelato da un tweet maligno del collega Pusha T, Adonis è stato presentato in pubblico a un importante premio di Billboard. Per lui adesso Drake si fa chiamare anche Daddy. E papi: champagne papi. In copertina l’artista inglese Damien Hirst ha disegnato per lui gli emoij di una ragazza incinta, con quel che ne consegue: «Ho costruito questa casa per noi tutti, mi fa ancora male la schiena/ voi niggas fate i fighi ma non ce la fate a pagare le bollette».

È ancora hip-hop? Sempre più verboso, ipercontenutistico, difficile da comprendere senza storia, contesto, testo a fronte (lettura di riferimento, le interpretazioni riga per riga del sito “Genius”). Un “celebrity drama” che solo Brad (Pitt) può capire, dirà a un certo punto Kanye.

Completamente centrato sulla voce “reale” del personaggio, col ritorno ossessivo sugli stessi topos verbali e concettuali: la strada, gli amici veri e quelli falsi, i vivi e i morti, l’abilità verbale, il successo, l’invidia e l’odio dei nemici, la solitudine. Ma soprattutto la sfida: il diss, il beef.

I due “re” Kanye West e Drake appaiono divisi (e uniti) da una faida che risale a dodici anni fa, difficile da ricostruire nell’esatto sviluppo a parte il passaggio generazionale e qualche fidanzatina comune. Ma questa rivalità è uno degli elementi centrali dei due dischi, rimbalza da Twitter e si nasconde in allusioni arcane nel più innocente dei versi. «Tutto quel che rappi/ suona come me» dirà Kanye (in Ok Ok) che effettivamente ha aiutato l’esordiente Drake agli inizi. «Perché i perdenti non sanno perdere mai in pace?» ripeterà in Junya.

Tutti maschi

A suo tempo l’hip-hop aveva inventato quel genere di flame, di retorica dello scontro, che oggi è benzina per i social media. Qui, attorno ai due vecchi rivali Kanye e Drake si raggruppano decine di featuring, manipoli di giovani rampanti, amici e vecchie glorie. Ognuno porta la sua rima. Ognuno il suo post e la sua story.

La presenza di giovanissimi come Lil Baby, Playboi Carti, Weeknd (e altri) spinge le canzoni ai posti più in alti nelle classifiche di Spotify. Loro sono già dall’altra parte: hanno passato il confine alieno di quella che il critico inglese Kit MacIntosh definisce «psichedelia vocale» che è dei trapper ragazzini: poesia clownesca, fluida, distorta dall’autotune. I vecchi amici come Jay Z rassicurano la buonanima di mamma col vocione: «Ho detto io a tuo figlio: basta con quel cappello rosso, torniamo a casa» ricordando la vecchia sbandata per Trump (ma cap è un altro slang per bugia). Si sa da indiscrezioni che Kanye avrebbe voluto l’ex presidente agli spettacolari eventi di lancio dell’album (tre performance negli stadi di Atlanta e Chicago), ma non se ne è fatto niente.

In Donda mettono bocca qualcosa come 30 ospiti. Tutti maschi. Meno una: la corista soul Shyleena Johnson che ripete per 50 secondi nell’introduzione il santo nome di mamma. Sembra un vecchio film di gangster girato da Martin Scorsese, una riunione di gang stile Gomorra (l’hip-hop è da sempre criminalità organizzata combattuta coi mezzi dello spettacolo). Oppure uno di quei blockbuster di supereroi costruito per accumulazione di personaggi.

Più inquietante tra gli ospiti la folta presenza di impresentabili: Marylin Manson, Chris Brown, DaBaby, Jay Electronica – pesa di loro un rosario di accuse che vanno dall’abuso alla violenza sessuale all’omofobia e all’antisemitismo – e Buju Banton, campione giamaicano del reggae omofobico, dieci anni di galera per traffico di cocaina, chiamato a dare il suo commento sulle donne e il divorzio. Quando, in una delle canzoni centrali del disco, Jail, Kanye dice di sentirsi in galera, sta giocando tra il senso di prigione spirituale dalla quale Dio dovrebbe liberarlo, come San Paolo, e l’aria della (presunta) cancel culture, dalla quale vorrebbe liberarci.

I featuring di Certified Lover Boy sono circa la metà. Tutti maschi. Meno una, l’amica Nicki Minaj che compare non accreditata in Papi’s Home nella parte di una fidanzata venuta a chiedere i soldi per il figlio («prima che prenda in mano il fottuto bastone»).

I due campi non sono alternativi. Di nuovo Lil Baby, il (t)rapper dell’anno in America porta Girl wants girls di Drake in testa alla classifica di Spotify, il pezzetto basato sul vecchio calembour lesbi-honest: «Sei lesbica?» chiede Drake «Sono lesbica anch’io»). Discutibile.

Di nuovo Jay Z presta a Drake un ricordo di gioventù: «Quel nigger ha tentato di uccidermi/ ti aspetti che io sia suo amico?». Mistero sulle circostanze e sui protagonisti. Meno teorico ma non casuale il girotondo dei “cancellati” momentaneamente redenti: R. Kelly, ex stella del r&b anni Novanta, processato per violenze sessuali e pedofilia, compare ma solo in un campionamento; la canzone Way 2 sexy ha una variazione su un ritornello della band inglese Right Said Fred («sono troppo sexy per la tua ragazza/ troppo sexy per questo mondo» ecc.). Non è neppure colpa di Drake, forse, se Richard Fairbrass che cantava quella canzone negli anni Novanta è tornato di nuovo alla ribalta come no vax militante, contagiato dal Covid e ricoverato in ospedale.

Silenzio 

Il silenzio di questi dischi sulla pandemia è assordante. Rovescio di una socialità esplosa, di una solitudine che è anche un prezzo da pagare, in qualche modo. Non sappiamo se Jay Z abbia fatto cambiare idea a Kanye West, il quale in un’intervista a Forbes diceva che i vaccini hanno «il marchio della bestia». Sia Kanye che Drake hanno avuto il Covid. La reazione del primo alla notizia della positività dell’altro: «Drake ha il Covid? Non può essere più malato di me».

Poco prima, aprile 2020, Drake aveva scelto di girare il video di Tootsie Slide nella sua casa di Toronto mentre le strade della città di notte erano deserte per la quarantena. Le stanze dell’appartamento di super design – marmi stile Versace, quadri di Andy Wahrol alla parete, teche spettrali con i premi vinti – se possibile apparivano ancora più desolate e vuote. Alla fine del video, il silenzio era rotto da uno spettacolo di fuochi d’artificio per nessuno, di rara disperazione. Questo dice oggi l’hip-hop di Kanye e Drake. Quel che è rimasto.

© Riproduzione riservata