Di rinascita del vinile si parla da almeno un decennio, ma l’espressione non è più sufficiente a inquadrare il fenomeno. Se dieci anni fa il vinile è rinato, oggi è cresciuto, si è fatto adulto e occupa una fetta considerevole di mercato, mentre la produzione fatica a tenere il passo.

Secondo i dati della Fimi (Federazione industria musicale italiana), le vendite di vinili nel 2021 sono aumentate del 79 per cento rispetto all’anno precedente per un giro di quasi 27 milioni di euro e hanno superato anche quelle di cd – una notizia annunciata in pompa magna. La cifra era impensabile fino a qualche anno fa e, messa a confronto con i 208 milioni dello streaming e i 332 dell’intero mercato musicale italiano, non descrive il semplice vezzo di una manciata di nostalgici.

Certo, a differenza dell’esplosione dello streaming, il vinile si è faticosamente guadagnato una seconda vita anno dopo anno. Dopo la sua morte ufficiale nel 2004, aleggiava un’atmosfera da trapasso. I negozi specializzati chiudevano; i proprietari delle fabbriche vendevano spazi e macchinari; i vecchi 33 giri erano dimenticati in cantina, quando non usati per decorare gli sgabelli dei bar. Eppure da qualche parte giravano ancora: sulle consolle dei dj e fra le mani dei collezionisti, che spulciavano con metodo certosino le copie in circolazione.

Sebbene le analisi di mercato l’avessero cancellata, la cultura del vinile pulsava ancora, tanto che nel 2008 – lo stesso anno in cui arriva la prima piattaforma di streaming, Spotify – alcuni esercenti e musicisti appassionati istituiscono il Record Store Day, una giornata di celebrazione dei negozi di dischi, ricca di piccoli concerti, eventi, ristampe ed edizioni speciali. Con il tempo, il Record Store Day si diffonde in tutto il mondo, le fiere e i mercatini si moltiplicano, le vendite lievitano, nuove fabbriche si affacciano sull’industria, e nel 2020 la situazione va fuori controllo.

«Il periodo del lockdown è stato una follia, abbiamo venduto tantissimi vinili», racconta Emily Moxon, direttrice generale dell’etichetta londinese Brownswood Recordings. «Poi nel 2021 abbiamo sperimentato i primi problemi: era tutto pronto per l’uscita di Indaba Is, un album di jazz sudafricano, ma i vinili sono arrivati con due mesi di ritardo. È stato molto frustrante. L’unica soluzione in questo momento è organizzarsi con largo anticipo».

Se prima della pandemia per realizzare un vinile ci volevano circa 6 settimane, oggi servono circa 6 mesi, senza la totale garanzia che le cose non cambino in corso d’opera. Le tempistiche variano leggermente da fabbrica a fabbrica, ma tanto in Italia quanto all’estero l’industria dei vinili è intasata. «Al momento gli ordini di Sony vanno fino al 2023 inoltrato, per quanto riguarda gli altri clienti stiamo cercando di smaltire l’arretrato» spiega Filippo De Fassi, titolare di Phono Press, una delle due grandi fabbriche in Italia che ha sede in provincia di Milano.

Le major

Fra il 2020 e il 2021, infatti, la produzione subisce un primo imbottigliamento. Con un urto senza precedenti, le major – Universal, Sony e Warner – entrano definitivamente nel mercato del vinile, pubblicando anche le ultime uscite, come Marracash, Harry Style o Blanco, prima disponibili solo in streaming e cd. «Qualcosina le major hanno sempre stampato, ma da un paio d’anni le cose sono partite alla grande», racconta Michele Gagliardi, proprietario dell’altra grande azienda in Italia, Europress, sempre in provincia di Milano.

«Fino a pochi anni fa stampavano 500, mille copie, adesso chiedono tirature da 30, 50, addirittura 100mila dischi». Le macchine a Europress sono sei e sono in funzione tutto il giorno dalle 6 di mattina alle 10 di sera, compreso il sabato, con 16 dipendenti a controllarle. «Tempo fa ho ordinato un’altra pressa», continua Gagliardi, 70 anni e una lunga esperienza nel settore, «doveva arrivare l’anno scorso, ma mi tocca aspettare fino a dicembre. Sono pieni di ordini pure loro».

D’altra parte, anche il mercato indipendente, pioniere della rinnovata industria, ha richiesto dischi a dismisura in periodo di pandemia. Mother Tongue è una piccola fabbrica a Verona che raccoglie sotto lo stesso tetto una pressa per vinili, un’etichetta discografica, una distribuzione e il magazzino del relativo e-shop.

«Da quando abbiamo aperto nel 2019 al 2021 abbiamo assunto tre persone e il nostro fatturato è cresciuto del 510 per cento», dice Carlo Grossule, uno dei cinque fondatori. «In parte è una cifra da attività che inizia, in parte la domanda del mercato indipendente che serviamo noi è volata. Purtroppo non riusciamo più ad accettare tutti gli ordini e, a differenza dell’inizio, non scendiamo sotto le 300 copie per titolo. È una questione di spese».

Per ogni album o singolo che si voglia tradurre in 33 o 45 giri serve una costosa matrice in metallo capace di imprimere a caldo la plastica di cui sono fatti i vinili, ovvero il pvc, nome d’arte del polivinilcloruro. Oggi sia il pvc sia la matrice, per la cui produzione servono il nichel e un procedimento molto delicato, costituiscono un ulteriore ostacolo nella produzione.

Simone Serretta è proprietario di Imprimatur Varade, una fabbrica di medie dimensioni incastonata nel verde della Valsesia: «Il problema adesso è che le materie prime sono di difficile reperibilità. Venerdì sera sono corso personalmente a recuperare i sacchi di pvc per poter lavorare sabato e domenica». È la crisi delle materie prime. Pvc, nichel, carta, energia: alla scarsa disponibilità si accompagna l’aumento dei prezzi.

«Il costo del pvc è salito almeno del 30 per cento da gennaio» continua Serretta, «quello del nichel è schizzato con lo scoppio della guerra in Ucraina… I prezzi cambiano di settimana in settimana. Adesso, quando faccio un preventivo, resta valido per 15 giorni». Nel complesso, stampare vinili costa il 40 per cento in più rispetto al 2019: si è passati circa da 3,5 a 5 euro a disco. «È difficile da spiegare un aumento del genere a un cliente degli inizi, ma non c’è alcuna speculazione dietro», conferma Carlo Grossule di Mother Tongue.

Un modo per affrontare la scarsità del pvc, in ogni caso, è riciclarlo, pratica comune fra le fabbriche italiane. Quando la matrice si imprime sulla plastica, il bordo in avanzo viene tagliato ed espulso come una specie di liquirizia nera: lo scarto è riscaldato, sminuzzato e riutilizzato oppure rivenduto. Quest’operazione, piuttosto semplice per il pvc nero, è assai complessa per il colorato, che nel frattempo è diventato uno sfizio imprescindibile. I due LP di Sono qui di Vasco Rossi, per esempio, sono uno bianco e uno turchese, quelli di Lover di Taylor Swift sono rosa e verde acqua. «Io non capisco perché, con il prezzo dei dischi colorati raddoppiato, le etichette continuino a volerli», commenta Filippo De Fassi di Phono Press. «È molto più complicato riciclare in casa i dischi colorati, quindi è una scelta anche meno sostenibile».

Per questo molte fabbriche, soprattutto le più piccole, tendono a prediligere il nero, offrire solo alcuni colori base e standardizzare quanto più possibile il prodotto. «Inoltre, c’è la credenza che il formato in 180grammi sia il migliore» continua De Fassi, «ma non aggiunge assolutamente nulla al suono rispetto allo storico 120grammi, che usa anche meno pvc».

Musica sostenibile

In generale, il mondo del vinile non è sordo alla questione ambientale. Esistono diverse ricerche sui materiali alternativi e su tecniche più pulite, a cominciare da quelle dell’associazione olandese Green Vinyl Records. Ci sono poi le buone pratiche: nel 2021 il sito per acquistare musica Bandcamp ha introdotto un servizio per ordinare vinili e, da quel momento, compensa l’inquinamento della produzione finanziando Atmosfair, organizzazione non profit impegnata nello sviluppo di energie rinnovabili.

Per quanto si cerchi di non sprecare e riciclare, in effetti, la produzione di vinili è sempre un processo industriale, che sfrutta materiale sintetizzato, consuma energia ed emette CO2.

Tuttavia non bisogna farsi ingannare dalla virtualità dello streaming, all’apparenza ben più etereo dell’oggetto-vinile. Il problema dell’inquinamento di internet, il cui traffico nell’aria funziona grazie a capannoni e capannoni di server fisici, raffreddati con la conseguente produzione di gas serra, è diventato un tema. Anzi, stando alla mole di musica, utenti e ascolti giornalieri, l’inquinamento di Spotify et alii è molto maggiore rispetto alla produzione dell’industria del disco: lo afferma uno studio di Kyle Devine, docente al dipartimento di Musicologia dell’Università di Oslo.

Che fare, allora, di quei milioni di vinili che per decomporsi impiegano centinaia di anni ciascuno? «Non è una cosa che si butta via» ribatte Emily Moxon, «e c’è un mercato dell’usato incredibile». Proprio il mercato che persisteva con la produzione vicinissima allo zero. Allora oltre i numeri, oltre le mode, oltre la musica, forse si sente vibrare in sottofondo un’intramontabile passione.

 

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