Light music del Cinquecento. La Moresca è una forma di canzone che ha dentro di tutto: dialetto storpiato, inserti di lingua kanuri o altre lingue franche, onomatopee, imitazione con la voce di strumenti a percussione, eventuali cambi di sesso dei protagonisti (hanno appellativi femminili anche se maschi). Entertainment leggero, spesso a cura di grandi compositori, la cui sostanza prima è il plurilinguismo, la contaminazione. L’interazione.

Le Moresche nascono nel Mediterraneo e fioriscono a Napoli, al tempo nel cuore degli scambi mercantili. Hanno personaggi fissi, la bella schiava mora e uno o più corteggiatori. La schiava si chiama spesso Lucia: le “Luciàte” diventano un sottogenere musical-teatrale di quel periodo, con titoli come: O Lucia miau miau, Il carro di madama Lucia, La luciàta a tre, La luciàta nuova. Canta Giorgia, in cui il protagonista si chiama Giorgio, ma viene chiamato Giorgia. Testimonianze del fatto che l’Africa e il vicino oriente erano ben presenti alla cultura mediterranea, a causa dello schiavismo come delle scorrerie dei “turchi” sulle coste dell’Italia meridionale.

Spesso le contaminazioni avvengono per necessità dolorosa più che per diletto. Ma avvengono. E funzionano. Nelle Moresche c’è una parte di parodia culturale-razziale, ma c’è soprattutto una parte di rappresentazione “realistica”, come nota Gianfranco Salvatore affrontando l’argomento in un libro destinato a diventare un classico per chi studia la presenza africana in Europa, Il chiaro e lo scuro (Argo, 2021).

A Napoli, nei confronti dei “mori” l’atteggiamento di base è affettuoso. Troppo per i parametri del tempo: la promiscuità culturale napoletana è stata denunciata e stigmatizzata da intellettuali di altre zone d’Italia. Matteo Bandello era molto critico. Secondo lo scrittore pur cresciuto alla corte liberale dei Gonzaga, «i mori sono di pessima natura», ed è giusto applicare con loro il metodo consigliato da Petrarca: sferzarli sin da piccoli. O quello dei genovesi, drastici nel disfarsi di uno schiavo o nel fiaccarlo con severe punizioni alla minima infrazione.

La vergine

Napoli “contaminata”, Napoli promiscua Napoli votata religiosamente all’interazione anche quando le condizioni di potere suggerirebbero il contrario. Per natura o per cultura? La domanda ha poco senso, è una bolla che càvita nel finito dell’esperienza umana, mentre resta il vero (e vichianamente) il fatto che Partenope emerge sempre in coerenza con il suo nome.

Parthenos, la vergine. Nell’etimo Parthenos non vuol dire che non abbia rapporti sessuali, vuol dire che non si consegna mai a un rapporto conclusivo, che resta aperta all’eventuale non deliberato. Anche nei confronti della modernità con le sue pretese di grande narrazione ontologica e emancipativa. Napoli è pre moderna, post moderna, para moderna, se mai kata moderna, ma mai moderna. È immune per disillusione (o per eccesso di illusione) alla via dello “sviluppo”.

Non per caso Pasolini ne parlava così ad Antonio Ghirelli nel 1976: «Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità». Facciamo la tara ad ogni millenarismo anche pasoliniano.

Per essere moderni bisogna credere a uno sviluppo lineare, a un avanzamento della storia. La modernità è un dispositivo di autocoscienza della modernità che si autorappresenta, consapevole di sé in quanto “superamento”: pensiamo alla famosa immagine dei nani sulle spalle dei giganti. Per Napoli non è così. Per Napoli/Partenope questa sarebbe solo una autoillusione tra le tante. Il mondo può procedere quanto vuole sulla via di una direzione stabilita: nel Cinquecento era quella dello schiavismo come forza lavoro per i commerci borghesi, nel Novecento quella delle ideologie, o del mercato, oggi quella di idealità di rinnovamento non sappiamo quanto verdi e quanto digitali.

Da questo punto di vista Napoli resta intoccabile (Parthenos). Perché? Perché qualunque grande narrazione presuppone un fondamento unico, mentre qui i fondamenti sono plurimi. Napoli è la punta avanzata del politeismo pagano-mediterraneo nel mondo moderno. Napoli è anche, da sempre e per sempre plurilingue. In quanto politeista è sospesa non a un fondamento, ma a una molteplicità di fondamenti. Interazione, appunto.

Da qui la fame rappresentativa che caratterizza una città dove tutto proprio tutto viene messo in forma. Siamo al contrario della teoria lukácsiana, per la quale al deperimento dell’”anima”, cioè del senso delle cose, corrisponde un proliferare delle forme. Per la configurazione rappresentativa partenopea le anime sono tante, forse infinite, se fossero visibili oscurerebbero il cielo come gli angeli e i demoni nelle visioni dei mistici, e sono quindi suscettibili di infinite reinterpretazioni. Anzi devono, fortissimamente devono, incarnarsi in infinite rappresentazioni, infinite icone, infinite narrazioni.

La musica del Cinquecento a Napoli – l’abbiamo accennato all’inizio – racconta e teatralizza la vita di mori e africani. La Napoli degli anni 50-70 del Ventesimo secolo assorbe, mette in forma, e restituisce a modo suo lo swing, il jazz, il rhythm’n’ blues senza perdere un’oncia (anzi, un’onza) delle sue radici. La Napoli di oggi piega la canzone al racconto della delinquenza come di ogni banale (mai banale) fatto (vichianamente: vero) della vita.

Nei neomelodici troviamo tutto: canzoni su corna, morti, amori del padre per il figlio, della sorella per la sorella, del fratello per la sorella, del figlio per la madre, per nascite, incidenti stradali, burocrazia: non c’è avvenimento che non trovi una strofa, un giro, una “fronna” di voce al quale aggrapparsi. Nel rap partenopeo troviamo una complessità tematica inaudita agli altri rapper italiani, legati mani e piedi alle “influenze” Usa, mentre nel dialetto c’è una flessibilità metrico-ritmica inaccessibile a chi usa l’italiano. Perfino l’oleografia, lo stereotipo, il luogo comune non esauriscono la voracità rappresentativa, in quanto non lavorano sulla totalità della realtà.

Non esauriscono il mondo, mettono in forma una dichiarata parzialità. Benissimo i quadri ottocenteschi con i panorami “vedi Napoli e poi muori”, benissimo la pizza, il mandolino e le sfogliatelle di Scaturchio. Benissimo Mario Merola, che infatti è stato ripreso dalla penultima e ultima generazione di rapper. Benissimo San Gregorio Armeno e le botteghe su botteghe dei presepisti, con Draghi, Mattarella e il Maradona d’obbligo.

Non è (solo) commercio, non è (solo) teatro. Sono fatti controvertibili e verità complesse al lavoro. Anime. Spiriti colti nello stato di epifania e interazione. Gli spiriti non sono mai cristallizzabili. Per questo si possono ancora efficacemente adottare cappuzzelle (teschi) al cimitero delle Fontanelle. Per questo è bene salutare, entrando in casa, la “bella ‘mbriana”, lo spirito protettore delle mura, che a volte intorno alla controra si mostra in qualche riflesso in penombra: è una donna mora, altera, incazzosa. E, come da film di Sorrentino, a volte i munacielli si possono mostrare in vesti di puttanieri, ma non è detto che non restino munacielli.

Realtà interattiva

In questa realtà “interattiva” non solo tra persone, ma anche tra diverse persone e diverse trascendenze, il concetto di avanguardia artistica assume un sapore diverso da quello che abbiamo imparato da frequentatori dell’estetica moderna. Da Hegel in poi un elemento di pensiero disarticola la mimesi classica, introduce una riflessione spiazzante, distruttiva («morte dell’arte», anche se per la verità Hegel aveva parlato di «carattere di passato dell’arte»), e le avanguardie seguono questa diversione, questa assunzione di molteplicità, questa disarticolazione dei linguaggi.

Mettono in questione le forme con la riflessione. Ma attenzione, le rotture hanno corso solo quando si presuppone un’unità. Il distacco di significanti e significati implica una precedente, assodata, consistenza di significanti e significati. La decostruzione implica un’ontologia da decostruire. Nell’ambito politeistico mediterraneo (di cui Napoli, abbiamo detto, è la punta avanzata) siamo su un piano diverso. Coi culti mediterranei, con la loro traccia politeista, interattiva, dispersa anche temporalmente, siamo nell’ambito di una ontologia non unitaria.

Di una continua metamorfosi di anima e forme nella quale il concetto stesso di identità anche logica (A=A) non ha corso. Meglio parlare di analogia. Siamo nell’ambito di quelli che Claude Levi-Strauss chiama «significati fluttuanti»: è possibile indicare più cose con la stessa parola o con lo stesso simbolo, secondo un dispositivo ormai caduto in disuso nelle società moderne, ma di cui rimane traccia nell’abitudine a indicare con parole come “coso” o “affare”.

I significati fluttuanti sono simboli allo stato puro, disponibili a più significazioni e irriducibili alla loro risoluzione in segno. Un mix di realtà, magia, sciamanesimo, divinazione mette in crisi la stabilità perché sfugge ai codici statuiti e ai dispositivi d’ordine, come racconta Giovanni Vacca ne Nel corpo della tradizione (Squilibri). Se le cose stanno così, se veramente nella cultura popolare-pagana-politeista esiste con la sua sorta di ontologia analogica, multiforme, non definitoria, ne consegue che le forme rappresentative sono naturalmente portate a cambiare di segno e posizione. Che il détournement non è scelta avanguardistica, ma condizione strutturale. Sembra sperimentazione, e invece è vita.

Fare e disfare

Nell’ambito della prospettiva magica che abbiamo sommariamente delineato l’alto diventa alchemicamente basso, e il contrario. Qualsiasi fatto o persona diventa l’immaginale nascondiglio in cui si nasconde un altro fatto o un’altra persona, le identità si confondono (e gli identitarismi sono solo noiose ipostasi nostalgiche). L’astrattezza di un Totò che fa il burattino diventa una forma di animismo: la realtà non è l’uomo che fa il burattino, ma il burattino che prende possesso dell’uomo.

Tutto l’ambito di quello che chiamiamo pomposamente “realtà” si sposta su un piano simbolico che ne confonde (e diffonde) contorni ed essenza, che rende legittima ogni sperimentazione, non come rottura di codici, ma come rispondenza a codici più profondi, sottili, normalmente difficili da cogliere. Non si tratta più dell’irruzione distruttiva della riflessione nell’ambito della rappresentazione, ma di una rappresentazione che si fa carico già in partenza di una differenza data dal quantum di irrazionalità, magia, che ne costituisce lo statuto ontologico-rappresentativo.

Ecco, certi miracoli rappresentativi possono succedere solo qui a Napoli, ed ecco che la libertà delle forme, delle contaminazioni, delle interazioni, perde il suo significato di de-costruzione, e diventa invece strumento di ri-costruzione. Ecco che ogni deliberato espressionismo diventa realismo di una realtà “allargata”. Di una fisica che contiene anche una metafisica. L’ironia, la comicità, la dispersione dei significati, l’affidarsi all’improvvisazione e all’interazione sono segnacoli mistici: un dire che è anche uno “sdire”, un fare che è anche un disfare. Per Partenope l’interazione è l’occhiolino che l’essere sa strizzare al non essere.

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