Ci siamo incontrati il giorno di Capodanno nell'androne di un palazzo di Montespaccato, periferia romana dove lui stava passando le feste insieme a cinque donne. Siamo rimasti per un paio d'ore a parlare, fermi uno difronte all'altro, fuori pioveva. Ma non era l'acqua che scendeva a trattenerci in piedi e immobili al freddo, Anthony non poteva uscire e io non potevo entrare. Dovevamo per forza stare lì, nell'androne. Il piccolo appartamento che divideva con le cinque donne era una “casa di accoglienza” che ospitava detenute di Rebibbia in permesso speciale, oltrepassare il portone era come fuggire, a tutti gli effetti un'evasione.

Così, a Montespaccato, Anthony mi ha raccontato brandelli della sua vita e promesso, una volta tornato nella cella numero 85 della “sezione femminile” del carcere di Roma, che mi avrebbe donato «uno scritto dove spiego veramente chi sono». Memorie che sono diventate un libro. Mi ha anticipato il titolo: Ero nato errore. È stato di parola, dopo un paio di settimane il suo diario mi è stato consegnato e in una notte l'ho letto tutto d'un fiato.

Quella mattina di Capodanno mi aveva però già detto qualcosa, o forse mi aveva detto tutto: «Sono un uomo».

L'ho visto arrivare mentre salutava una ragazza cinese con un sacchetto della spesa fra le mani. Aveva addosso un giubbotto di pelle marrone scuro e un paio di jeans, scarpe di gomma chiare, si è presentato sfilandosi per un momento la mascherina: «Buongiorno, io sono Anthony».

Barba folta e baffi, sorridente, gentile, all'apparenza quieto nel ricordare un tormento lungo quasi cinquantaquattro anni. Mi ha confessato subito che nell'appartamento di Montespaccato ha trascorso giorni sereni «anche se, in verità, avrei preferito restare a Rebibbia». Solo, nella sua cella, «perché ogni volta che entro o esco dal carcere ci sono momenti di forte imbarazzo con le perquisizioni personali e con i controlli all'esterno...».

Qualche sera prima di San Silvestro, nella casa di accoglienza sono saliti i carabinieri per la sorveglianza sulle detenute in libera uscita. Cercavano sei donne e hanno trovato cinque donne e Anthony. Cercavano anche un'Antonella. Ha fatto molta fatica a spiegare che quell'Antonella era lui. Telefonate in carcere, verifiche incrociate con l'"ufficio matricola”, un po' di stordimento e alla fine i carabinieri se ne sono andati probabilmente non del tutto confortati dalle rassicurazioni ricevute.

Sulla carta Antonella

Sulla carta di identità Anthony è Antonella C. nata il 3 marzo 1967 a Galatone, provincia di Lecce. Statura 1 metro e 60 centimetri, capelli neri, occhi celesti, segni particolari “sembianze maschili”. La foto accanto è decisamente quella di un uomo. È in carcere dal 2013 e ha pene da scontare per diciassette anni. Tutti furti, solo furti. Quelli che, da quanto ho capito e credo di non avere capito male, gli hanno consentito di non morire di fame.

Ma oggi il suo problema, e non soltanto suo, è un altro: Anthony è l'unico uomo – almeno così si sente lui – in mezzo a 350 donne, tutte le recluse del “complesso penitenziario femminile più grande d'Europa” che è appunto la casa circondariale di Rebibbia. Anthony non condivide la cella con nessun'altra. Le agenti lì dentro non irrompono mai, bussano sempre, una delicatezza per rispettare la sua privacy. Fa poca vita comune, niente ora d'aria con le altre, i contatti con le detenute sono limitati alla lavanderia dove lavora. Gli hanno concesso di avere anche un rasoio per farsi la barba ogni mattina.

È vicenda alquanto intricata quella di Anthony e il carcere, istituzione totale che il più delle volte non migliora certo la vita degli uomini e delle donne che per colpa o per sventura ci finiscono, è diventato il luogo dove più di ogni altro si sono manifestate le “contraddizioni” di Anthony e del suo corpo. E, paradossalmente, proprio il carcere potrebbe offrirgli la chance di una nuova identità, liberandolo dalla doppiezza che lo devasta. Il suo desiderio è avere in tasca un documento che attesti la sua mascolinità. Ci sta provando, non sarà facile però ottenere ciò che vuole. Il mistero è intorno al suo sesso. Confuso. Non è maschio e non è femmina ed è maschio e femmina insieme con organi sessuali non completamente sviluppati. C'è gran consulto di specialisti intorno ad Anthony.

Memorie dell’infanzia

Nell'androne comincia a raccontare e a raccontarsi. Parla con calma, ha con sé qualche carta e appunti sparsi. Comincia da quando «il Mostro» – così chiama suo padre, mai per nome, mai papà – lo fa registrare all'anagrafe del comune di Galatone sei giorni dopo che viene al mondo dalla levatrice Angela Molducci «che, assistito al parto di Cecilia. P., moglie di Renato C., non potendo questi presentarsi perché lontano dal paese per motivi di lavoro» dichiara davanti a due testimoni «che è nato un bambino di sesso femminile alla quale dà il nome di Antonella». Firmato l'ufficiale dello stato civile Antonio Inguscio. Un atto di nascita che è una condanna a morte per Anthony.

Il padre fa il muratore, la madre tira su i figli, ne partorirà sette. Ma c'è poco da fare alla fine degli anni Sessanta laggiù nel Salento, i genitori decidono di emigrare in Germania, non vogliono o forse non possono portare con loro l'ultimo arrivato in famiglia. C'è una parente in Scozia, sposata con uno dei fratelli di suo padre. A sei mesi è con zia Ann a Inverness, una cittadina sulla costa nord orientale attraversata dal canale di Caledonia. Quella creatura che all'anagrafe è Antonella, a quattro anni confessa alla donna che lo cresce «che a lui piacciono le bambine». Da quel momento la zia, «bellissima, alta, capelli rossi, mia unica e vera madre», lo chiamerà Anthony.

Ma non durerà a lungo la vita di Anthony e nemmeno la vita di Anthony nelle Highlands scozzesi.

«Troverai tutto nel mio libro, i particolari anche di quella mattina che il Mostro venne a prendermi a Inverness per strapparmi via per sempre», mi dice ricordando campi verdi, laghi, la neve dei lunghi inverni scozzesi. A pagina 19 del suo diario rintraccio quella giornata: «Alle nove del mattino sento zia che mi chiama.. ci sono delle persone che ti vogliono, vedo una donna che mi prende in braccio stringendomi forte, ero impaurito, non la conoscevo.. mia zia mi disse che quella donna era la mia mamma...erano i miei genitori che dopo quattro anni erano venuti a trovarmi».

Il libro è firmato da Anthony con Nina Maroccolo, una scrittrice che entra a Rebibbia per un laboratorio di prosa e canto con il poeta Plinio Perilli. Nel 2013 l'incontro, nel 2014 Ero nato errore viene dato alle stampe da Pagine Editore. Sulla quarta di copertina, la Maroccolo scrive che la storia di Anthony sembra popolata da quei personaggi “del sottosuolo” che si ritrovano nelle opere di Dostoevskij.

È il 1971 quando è prelevato «dal Mostro» e dall'«Estranea» (la madre) e «trasportato» da Inverness a Luino, in provincia di Varese. Un giorno i suoi genitori spariscono, vanno in Puglia, quando tornano gli presentano un fratello e una sorella che non ha mai conosciuto. Sono tutti e due più piccoli di lui, si chiamano Gianni e Claudia, fino ad allora avevano vissuto a Galatone con i nonni. L'inferno di Anthony comincia a Luino.

È un bambino schiavo. Deve spolverare la casa dove abitano fino a farla brillare, altrimenti percosse. Deve spaccare la legna, altrimenti percosse. Deve badare ai fratellini. Non può giocare, non può uscire in giardino, non può incontrare altri bambini. Una volta il padre gli spezza un bastone sulla schiena: «Mi guardava con gli occhi pieni di odio, si scaraventava su di me come se fossi io che gli avevo fatto del male». C'è vergogna in quella casa, c'è risentimento perché Anthony esiste.

Dai quattro agli undici anni è un calvario. Solo botte e  umiliazioni. In famiglia si confida soltanto con suo fratello Gianni, il “Mostro” quando è ubriaco prende a calci pure lui. E sono colpi di frusta o di cinghia, oltraggi, privazioni, tre giorni senza mangiare. Gianni una sera gli dice: «Perché non lo facciamo fuori, ci sono dei funghi, devono essere velenosi, li prendiamo e li sbricioliamo nel piatto». Una notte Gianni scivola via dalla casa per incontrare una ragazzina, una corsa in motorino, l'incidente, Gianni muore. Il padre non glielo fa salutare nemmeno per l'ultima volta.

Gli anni passano e l'inferno non finisce mai. Trova un lavoro come saldatore a Varese, fa il giardiniere, lo stalliere, ripara frigoriferi. Ogni volta la paga la deve portare tutta a casa, al "Mostro”. Anthony un giorno scappa e si rifugia da una sorella, poi prende il primo treno per Torino. Una pensioncina in via Mazzini e comincia a cercare un lavoro: «Ma in qualsiasi posto dove mi presentavo e ogni volta che esibivo il documento la risposta era sempre negativa.. e allora ho capito che non avevo speranza». Anthony, per tutti, era sempre Antonella.

Non ha più un soldo in tasca, di notte dorme nei casolari abbandonati, di giorno si trascina fra barboni e ragazze che si vendono, non ha vestiti, mendica cibo. Di tanto in tanto si sfama facendo il giro delle macellerie, chiede scarti per un cane che non ha. Ma le disgrazie non vengono mai da sole. Un pomeriggio Anthony sta male, perde tanto sangue dal naso, dopo una settimana è sul lettino di un ospedale. La diagnosi è crudele: un tumore al cervelletto. L'operazione e quattro mesi di chemio. Quando esce, sempre più distrutto, si getta nel Po: «Mi ricordo solo che ero fra le braccia dei pompieri che mi tiravano su...».

I furti e il carcere

È qui che comincia un'altra delle tante sue vite. Ed è quella che l'ha portato a Rebibbia. Anthony che non trova lavoro perché è Antonella, Anthony che non ha casa e non ha famiglia, Anthony che non ha amici, Antony che diventa un ladro. Ruba attuando sempre lo stesso piano. Si presenta in un bed and breakfast, si sistema nella stanza, aspetta il momento migliore per l'incursione nell'appartamento privato della proprietaria o di qualche altro ospite. A volte sono 60 euro, altre volte 80 euro e un anellino, una collana, un orologio. Soldi per mangiare.

Girovaga per l'Italia, dopo Torino è a Firenze dove, con quello che riesce a racimolare con le incursioni nei bed and breakfast, compra una vecchia auto che diventa la sua casa. Dorme lì dentro. Lo pizzicano per la prima volta a Faenza, in provincia di Ravenna, il 26 gennaio 2010. La sentenza di condanna arriva il 28 maggio 2012. Il giudice riconosce «il disegno criminoso premeditato» sostenuto dalla pubblica accusa e per Anthony sono 4 mesi e 10 giorni di reclusione. I primi. A Trieste un'altra condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione. E poi, a catena, tutte le altre. Sempre furti, solo furti.

È ancora libero e decide di andare a Roma. Passa dalla comunità di Sant'Egidio, una sera in una chiesa lì vicino incontra don Franco, «le solite parole del prete che anch'io sono Figlio di Dio ma non può aiutarmi e bla bla bla», Anthony è disperato e coglie l'occasione al volo, «in un attaccapanni c'era la giacca del prete appesa, frugai nelle tasca interna e c'era il suo portafoglio con dentro tre carte di credito e quasi trecento euro, presi i soldi mettendo a posto il portafoglio».

Dopo il furto entra in un bar e si compra «una bella ciambella calda morbida alla crema» ma ha anche la pessima idea di raggiungere Brindisi. In Puglia lo fermano a un posto di blocco, i carabinieri gli chiedono i documenti, il solito dramma: Anthony è Antonella. E, a mano, ha maldestramente anche corretto la data di scadenza dell'assicurazione della sua vecchia auto. Gliela sequestrano. Non perde solo una macchina, perde la casa. Torna a dormire in ripari di fortuna, nei campi tempestati di ulivi della campagna pugliese.

Incontra un brav'uomo, Domenico, che gli presenta sua moglie Rosanna e i loro due figli. È un lampo di felicità in mezzo al deserto umano. Lo aiutano, per la prima volta trova qualcuno che ha un po' di compassione. Ma dura poco. Perché Anthony torna a Roma, per un anno riesce a sopravvivere con piccoli “colpi” ma una sera lo fermano due poliziotti e una poliziotta. È il settembre del 2013: «Mi dicono che li devo seguire, quando arriviamo in questura mi comunicano che devono portarmi in carcere, io divento bianco come un lenzuolo e comincio a tremare..». La donna poliziotta gli allunga un pacchetto di sigarette, apre il portafoglio e gli mette in tasca 10 euro.

Sulle cronache dei quotidiani si ritrova qualche notizia su questo spaventoso passato di Anthony. Resoconti sbrigativi, da vecchio “mattinale” di questura. Un foglio del Salento titola: «La donna con i baffi cha ha truffato mezza Italia». Un altro giornale della Romagna scrive della sua «pericolosità sociale» e ironizza: «È donna ma rubava da uomo».

A Rebibbia Anthony sta in isolamento per due settimane, gli educatori capiscono che è un “caso speciale” e gli assegnano una cella singola. Ha qualche imbarazzo per la doccia in comune con le altre detenute, però resiste, resiste perché «nessuno mi può cambiare perché sanno anche in carcere che io sono Anthony».

Nel suo libro elenca «le agenti come posso dire, umane» che hanno avuto almeno una volta un'attenzione per lui. Ispettrice Roberta, molto disponibile. L'assistente Livia. Direttrice Pedote. Agente Veronica. La rossa che è rossa. L'agente Jessy con quei capelli neri lunghi e ondulati. Agente Lorella. Sovrintendente Carla. E l'assistente Marta, che quando ha il rossetto il suo sorriso si illumina.

Gesti di civiltà

Anthony non ha un avvocato perché non se lo può permettere. Solo un difensore d'ufficio, per un po' gli dà una mano l'avvocato Fabio Spaziani. Intanto gli anni di reclusione si accumulano. Disegno criminoso premeditato. Nelle pagine di Ero nato errore lui chiede e si chiede: «Ma non c'è una sproporzione evidente fra piccoli reati e grande pena? Non c'è l'esigenza civile di riconoscermi una difesa ponderata, insomma giusta? Non ho diritto a gesti veri di civiltà da parte di una società che si vanta e si dice civile? Io non sono uno stinco di santo, sono colpevole di tutto, ma non del brutto romanzo esistenziale che mi ha schiacciato».

Nell'androne del palazzo di Montespaccato, dopo un'ora che siamo lì a chiacchierare, Anthony mi confida che in carcere ha avuto momenti di intimità con una vicina di cella. «Roba vecchia però». Mi assicura che a Rebibbia sta bene perché «ho un lavoro, mangio ogni giorno, ho un letto, mi posso lavare». Nel suo libro ha affettuose parole per qualche detenuta: «Antonella, da quando ha iniziato a lavorare non facciamo quasi più qualche giocata a carte.. Nichita, lei è addetta all'abbigliamento, quando trova qualcosa da uomo me la mette da parte, grazie Nichita.. Berenice sa come addolcirmi con il suo tiramisù.. Michela, che è addetta ai cani ed è bello vedere come si rapporta con i cani, amabile, peccato che sono un uomo perché se fossi un cane riceverei un sacco di coccole che dalla razza umana non ho mai».

Sul risvolto di copertina di Ero nato errore trovo un numero di telefono e un nome: Nina. Chiamo. Risponde Nina Maroccolo, la scrittrice che l'ha conosciuto a Rebibbia e con cui hanno scritto insieme. Le è stato vicino per molti mesi, prima gli incontri ogni martedì, poi anche due o tre volte la settimana. Il libro è un atto di amore. Non vede Anthony dal 2017 ed è sorpresa: «Ma come, è ancora rinchiuso in carcere? Io credevo che fosse finalmente in una comunità e avesse ottenuto la possibilità di lavorare fuori». Anthony è ancora dentro e vi resterà fino al 2030, a meno che non sopraggiunga un indulto o un miracolo o una grazia che qualcuno vorrebbe chiedere al presidente della Repubblica.

Il magistrato di sorveglianza di Rebibbia femminile Marco Patarnello conosce bene Anthony e le sue sofferenze. E sa che, prima di ogni altra cosa, lui deve modificare il suo stato anagrafico. Così com'è, fuori dal carcere, vivrebbe sempre una marginalità che gli porterebbe più male che bene. Intanto Anthony si è dato tutto da solo un nuovo cognome, prendendolo in prestito dal patriota scozzese a capo della ribellione contro gli inglesi di Edoardo I. Sogni di libertà. Quando ci siamo lasciati nell'androne di Montespaccato, si è congedato con un sorriso triste: «Antonella C. non è mai esistita, quello che hai davanti è Anthony Wallace». Poi è sparito, salendo di corsa le scale verso l'appartamento delle sue cinque amiche di Natale. Il giorno dopo è rientrato nella casa circondariale di Rebibia, al primo piano, cella numero 85.

© Riproduzione riservata