L’amore è sempre pericoloso. Perlomeno, sono cresciuta credendolo fortemente. Per amore Edith Wharton fa lanciare su una slitta due pazzi verso il precipizio, certi di non poter sopravvivere l’uno senza l’altra (sopravvivranno, ma ovviamente sarà lei a rimanere paralizzata in Ethan Frome). Per amore muoiono come mosche Anna Karenina, la signora delle Camelie, Giulietta. Quelle che provano a godersela, vengono stecchite dalla punizione divina: il vaiolo si porta via la cortigiana balzachiana Nanà e anche la marchesa de Merteuil ne Le relazioni pericolose. Insomma, l’amore è una faccenda crudele, soprattutto per le donne.

Sovrapponendo per millenni lo struggimento amoroso alla finaccia assicurata, siamo cresciute abituandoci a misurare l’amore con la disgrazia. Più ami, più il sacrificio è dietro l’angolo. Il patriarcato ci ha trasformato in gallinelle che covano la loro mortificazione per uomini spesso mediocri (dei succitati esempi iniziali, salvo solo Romeo: lì c’è stata parecchia sfortuna), o che non hanno nemmeno bisogno di un amore lacerante per coltivare la propria inadeguatezza, basta la “sindrome dell’impostore”. Io ci sono cresciuta, come milioni di altre donne, coltivando una dismorfofobia per difetti visibili e invisibili ai più, ma non a me.

Due persone

La sindrome dell’impostore ce l’ha anche Marta, protagonista del romanzo d’esordio di Camilla Boniardi Per tutto il resto dei miei sbagli, Mondadori editore.

Marta è una ragazza immobile dentro a cose di cui, in fondo, le importa assai poco, ma finge che le importi tantissimo. La facoltà di giurisprudenza all’università, un fidanzato con cui non c’entra nulla, i mesi fatti di giornate che non riconoscono le stagioni. Perché stare dentro a qualcosa di sbagliato spesso è più semplice che trovarti a decidere dove vorresti essere davvero.

«Convincersi di avere una scelta è un passaggio liberatorio ma destabilizzante. La possibilità di dare nuova speranza alla disillusione richiede lo sforzo di lasciarsi alle spalle una tranquilla mediocrità per abbracciare, forse, una spaventosa rivoluzione», racconta Marta che si flette, si piega, rimane indietro e si assottiglia a furia di provare a prendere la forma che gli altri si aspettano da lei: «La taglia dei miei pantaloni negli anni si è sempre rivelata inversamente proporzionale alla contentezza d’indossarli al momento dell’acquisto».

Marta, come noi, è due persone diverse, perché decidere chi essere a tempo pieno è il lavoro più complesso. E nel gioco spietato del “come tu mi vuoi”, l’altro – origine del nostro farci arco, tese verso il raggiungimento dell’obiettivo – a un certo punto si dissolve sullo sfondo. Perché l’unica cosa che conta è sfiancarci in una perversione agonistica a soccombere con noi stesse.

Maria, suora disgraziatissima in Storia di una capinera urla: «Si può impazzire per amore?», e Marta sembra rispondere sì. Ma poi si rende conto che «di amore non ce n’era affatto. Eppure, riuscire a farmi amare era diventato per me un traguardo irrinunciabile. Ottenere le sue attenzioni e il suo affetto divenne lo stratagemma che la mia ansia adottò per tenermi occupata».

Marta troverà con chi riconoscersi, ed è a questo punto che accade una cosa che ci sorprende: leggere come si può raccontare l’amore oggi. Senza impalcature, disprezzo, furberie e inganni.

Sorrisi come candele

Sembrano dimenticati i ragazzi spettrali e svuotati di Bret Easton Ellis o le dannazioni perenni di Kurt Cobain e Courtney Love, sono accantonate anche le persone normali, così inafferrabili nell’indossare la maledizione di esplodere sempre lontano dalle cose che accadono. Qui trovano spazio candore e coraggio. L’amore raccontato da Camilla Boniardi inverte la narrazione della disperazione, ha fiducia, rispetta il senso del tempo e nasce dalle parole.

È un lungo epistolario, infatti, quello che fa innamorare Marta di Leandro. Si vedono per un attimo, si immaginano per mesi che diventano anni, nutrendosi con i loro racconti.

E visto che Camilla è una secchiona, il suo Leandro è in fondo la versione 2.0 di quello di Ovidio, che ogni notte si tuffa nelle acque scure per raggiungere di nascosto l'amata Ero, che gli indica la via con una candela. Qui Marta indica la via per ritrovarla semplicemente sorridendo a Leandro, e a volte i sorrisi funzionano meglio delle candele, quando si hanno le fiamme negli occhi.

Dimentichiamo le relazioni pericolose della marchesa de Marteuil in queste lettere: abbandoniamo le perversioni in punta di penna, gli intrighi e il desiderio di devastazione.

L’era del cinismo sembra finalmente dimenticata, e forse il patriarcato si sconfigge anche così, facendo cadere le maschere di protezione e i ruoli, mostrandosi nudi e dunque feribili, alla ricerca di un alleato con cui, eventualmente, fallire insieme.

Marta che per anni si è sentita somigliare «a quelle macerie abbandonate dopo un violento terremoto, che se ti fermi a guardarle, nella loro statica solitudine, danno l’impressione di conservare ancora il ricordo del calore che un tempo le aveva abitate», impara a bruciare.

Ci si innamora attraverso le parole, ma anche con le canzoni in questo libro. Ogni mail di Marta e Leandro si chiude con un pezzo che viene dedicato all’altro, per costruire uno scenario che accolga suoni, prima di dare finalmente una casa ai corpi. Gli Smiths, Jeff Buckley, The Tallest Man on Earth: ogni canzone è una scommessa sull’altro, perché, come dice Marta, trasmettere una passione è un compito difficile, occorre superare lo scarto che sembra sempre persistere tra il proprio entusiasmo e quello che si riesce a riconsegnare agli altri.

Il tempo delle attese

Leggere Per tutto il resto dei miei sbagli in un tempo feroce come questo – in cui viaggiare, uscire, perdere notti e perdere soprattutto tempo a flirtare sembra un ricordo lontanissimo – è antidoto e al tempo stesso un buon allenamento. Per recuperare fede in una semantica sentimentale nutrita dalle parole e dalle attese.

Difficile stringere amicizia con le pause, soprattutto adesso che la nostra vita è diventata una sospensione ininterrotta. Boniardi lo racconta molto bene quando scrive «la natura delle attese mi ricordava il paradosso di Schrödinger. Nella loro dimensione sospesa, infatti, le attese possono celare grandi felicità come profonde tristezze, tutte possibilmente vere nello stesso momento e a me questa incertezza non è che sia mai andata molto a genio. Con il tempo però ho cambiato idea, ho pensato che invece un po’ mi piace abitare nella scatola del gatto, dove le cose ancora fluttuano in potenza, sgravate dal peso dell’atto».

Camilla Boniardi sui social è Camihawke, io sono una del milione e duecentomila followers che la segue incuriosita da anni, perché sceglie con cura le parole per raccontarsi in forme sempre diverse. Non ho mai saputo perché ha scelto come nome d’arte Camihawke, ma ho immaginato che c’entrasse con Lady Hawke, il film con Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer “sempre insieme eternamente divisi” da un sortilegio. Quando il film è uscito, io già piangevo su Michelle trasformata in falco e Boniardi non era nemmeno nata, eppure leggendo il suo primo romanzo mi sembra chiaro che questa ragazza con le fiamme negli occhi abbia trovato una via per raccontare, e probabilmente vivere, l’amore in maniera più sana di come ce lo siamo raccontati per anni. Anche abitando nella scatola del gatto.

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