Ci vediamo in un hotel accanto alla stazione Centrale, uno di quelli che potresti essere a Dubai, Città del Capo o Grenoble e non troveresti indizi per capire dove effettivamente tu sia; ma è stata una buona idea. Ora che ci si può vedere dal vivo, è esilarante farlo, perlomeno per me: non mi sono ancora riabituato all’idea e dunque accolgo come una cerimonia d’altri tempi ogni incontro dal vivo, peraltro raro.

Giorgio Poi è arrivato da Bologna, dove ha scelto di vivere, me ne spiegherà i motivi. Lo trovo seduto a un tavolino rotondo, alle spalle il giardinetto finto dell’hotel, che però pare meglio della hall e dunque proviamo a spostarci, per godere delle palme finte e della birra globale. Ah, la joi de vivre!

Io e Giorgio non ci conoscevamo, almeno di persona; ha un cappelletto alla Spielberg, una postura dolcemente nerd – le mani sulle ginocchia, mi pare – e l’occhio curioso; mi accoglie con domande su Milano e la mia vita. Domande da viaggiatore, quelle che faresti al vicino di treno, o meglio che avresti fatto prima della trasformazione della noia in un rapporto monogamo con i nostri smartphone. Gli rispondo che sono apolide, sangue misto, milanese bastardissimo senza una goccia di sangue meneghino. Ma qui le domande le faccio io, concludo. Intanto si impietosiscono di noi e hanno la compiacenza di darci un tavolo in giardino, dove potremo bere e fumare liberamente.

E tu di dove sei, Giorgio?

Sono nato a Novara, ma solo perché i miei erano lì di passaggio. Sono andato via che avevo due anni e non ci sono mai tornato. Abbiamo vissuto in Toscana e poi a Roma, dai miei otto ai vent’anni. Poi sono andato a Londra, e in seguito a Berlino. Sono stato via undici anni, nel 2017 sono tornato e ho scelto Bologna. Avevo voglia di una piccola città italiana dopo Roma, Londra e Berlino. È un posto piccolo dove però ci sono cose da fare.

A me Bologna mette malinconia, ma è un problema mio. A un rave vidi due ragazzini che pippavano ketamina dal bordo di una pozzanghera. Giuro.

Questa roba ancora c’è, ma c’è pure a Berlino eh. A Berlino c’era un tipo che dormiva dentro il portone. Lo dovevi scavalcare quando tornavi a casa, a casa sua, perché tale era diventata. Il problema è che lo usava anche come “bagno libero”, faceva tutto quanto dove gli girava… Bologna è perfetta, l’ho scelta perché mi piace, ci sto benissimo ed è collegata perfettamente con Milano e Roma.

È un bel privilegio scegliersi il posto in cui vivere. Tieni famiglia?

Ho una ragazza, ma niente prole.

Ma quanti anni hai?

35.

Beh è tempo, dai. Guarda che fare figli è la cosa più psichedelica che possa capitarti… ma ‘ste birre arrivano?

No, non arrivano.

Cosa ascoltavi da ragazzino?

A 12 anni ho iniziato a suonare la chitarra e ad ascoltare per bene i primi dischi… a me piacevano solo i Nirvana in realtà. È stata la mia prima fissa, poi sono passati tanti anni e nella mia musica non si sente, però ancora oggi è una delle cose che trovo musicalmente più misteriose, usano sequenze di accordi strani su cui Cobain cantava melodie a volte improbabili o al contrario super pop; mi sembrano ancora sequenze di accordi molto rare, anche oggi si usano molto poco quei giri. Poi ascoltavo, i Pixies, i Verdena…

Sai cosa ascoltavano i Nirvana sul loro tourbus? Gli Abba.

Ma dai! Beh c’è una vena totalmente pop in loro, però è un pop unico. Se provi a scrivere una canzone alla Nirvana penso sia impossibile riuscire a fare qualcosa di decente. Invece il primo concerto che ho visto sono stati i Verdena, che venivano paragonati ai Nirvana, sbagliando. In realtà dipendeva quasi solo da come si vestiva Alberto, con le Converse, i jeans rotti, i cardigan, i capelli lunghi. Aveva diciannove anni e probabilmente è vero che Cobain era il suo mito, ma la loro musica era la loro musica, e si è visto negli anni.

E invece come si vestono gli indie poppers italiani intimisti?

Bah, a cazzo.

Direi normcore. Vabbè facciamo sul serio. Fai conto che mi abbiano ibernato nel 2010 e che tu debba raccontarmi cosa è successo nella musica italiana…

Fino al 2015 non ho seguito quello che succedeva in Italia, ero all’estero. Il mio primo incontro con la musica italiana è stato con Federico Dragonia dei Ministri perché era amico della mia ragazza e veniva spesso a Berlino. Mi raccontava quello che succedeva in Italia, anche della situazione dei concerti. Raccontava di quanto fosse difficile: i gruppi nuovi facevano fatica, c’era ancora il dominio delle band del decennio precedente, come gli Afterhours, mentre le cose nuove erano più di nicchia, molto interessanti ma con numeri molto piccoli. Dopo il 2015 penso che Calcutta sia stato il primo a fare una piccola rivoluzione sia musicale che di pubblico con un ritorno alla canzone italiana. Negli anni all’estero ascoltavo i cantautori, Dalla, Battisti, Vasco, Paolo Conte, tutto quello che era venuto dopo lo conoscevo meno. Nel momento in cui avevo già iniziato a scrivere delle cose in italiano in stile cantautoriale è uscito Calcutta e ho pensato che si potesse davvero fare, non era troppo lontano rispetto a quello che stavo scrivendo e quindi mi ha un po’ esaltato. Poi da lì è partita un’altra strada per me… sto cercando di fare un punto, la domanda era difficile eh!

Semplifichiamo. Chi ha sputtanato l’indie pop italiano?

Penso che si sia un po’ normalizzato, penso sia stato assorbito dalla macchina.

Ma è mai stato fuori dalla macchina?

Penso di sì. Era una cosa che non si faceva più, che era considerata quasi ridicola. Forse I cani sono stati i primi a fare un certo tipo di canzone in italiano, e infatti si sono presi anche tanta merda. Le cose che valgono veramente in ogni epoca sono quattro o cinque, poi ce sono tante altre che si perdono. Musicalmente per esempio per me Pop X è stata una cosa fresca e nuova, penso che abbia una grandissima abilità nel comporre melodie e nella scelta della successione delle note.

Ma poi è arrivata la trap e tanti saluti all’indie pop intimista…

In realtà non mi interrogo su queste cose; faccio la musica che sento di voler fare. Cerco strade che mi diano soddisfazione, e già questo è difficile, trovare qualcosa che mi renda felice nel momento in cui l’ho appena fatto. Quando capita ecco, quello è il momento dell’estasi. Non penso a chi poi le ascolterà. A chi piacerà, piacerà. E va bene così, nel senso più banale del mondo: l’importante è che piaccia a me. Nel mio primo disco, giusto per fare un esempio, non c’era neanche un ritornello.

In una intervista Biazzetti di Rolling Stone, ti chiede se il tuo primo disco è anni Settanta e il secondo anni Ottanta… ergo il terzo è anni Novanta? Altri tre e ti metti in pari!

Ahhhhh, sì. Mi ha molto colpito una cosa che mi ha detto un musicista a Londra. Lui era a Manchester quando uscirono i Joy Division e mi diceva che gli facevano cagare perché pensava fossero troppo anni Sessanta. Penso sia un’analisi destinata all’irrilevanza quella dell’identificazione di un sound contemporaneo con un periodo storico precedente, perché nel tempo i suoni assumono altre forme e altri significati.

D’accordo ma siamo costretti ad ancorarci a quello che conosciamo. Se ascolto un tuo pezzo mi viene in mente Carboni. È inevitabile, a prescindere dalle tue intenzioni e dai tuoi desideri. Tanto più oggi che l’algoritmo inventato da Amazon ha trovato la sua massima realizzazione nella musica: se ti piace questo, allora senti questo. Ah se potessi liberarmi per un’ora di tutto quello che ho letto, visto e ascoltato!

Se lo stesso pezzo fosse stato cantato in francese tu avresti detto Carboni? Forse no. Però certo dipende da quali strumenti hai per decifrare quello che stai ascoltando. Sono meccanismi automatici, ascolti una cosa e si connette al già sentito. Se mi chiedi se nella mia canzone I Pomeriggi vedo riferimenti agli anni Ottanta, direi di no. In realtà gli elementi stilistici che hanno caratterizzato quel periodo non li trovo. Nel senso che il gated reverb sul rullante non c’è, è asciutto… sai la teoria che dice che il suono del rullante è ciò che definisce il sound di una band? Io ci credo abbastanza.

Mah, io no. Il tema è non poter sentire una cosa per la prima volta…

Infatti è impossibile raggiungere il livello di emozione delle prime volte che hai sentito una canzone da bambino, che per un motivo che non sai ti travolge.

Eh, signora mia. Però il tuo pezzo sui pomeriggi mi ha tirato fuori immagini sepoltissime e super intimiste… il pomeriggio è la primavera, quattordici anni, il sole che filtra dai buchi delle tapparelle e rende visibile la polvere sospesa nell’aria, tanti laser proiettati sui muri.

È esattamente l’immagine a cui penso se penso al pomeriggio! Sono cresciuto sul lungotevere, nella mia stanza il sole entrava solo di pomeriggio e avevo le tapparelle con i buchetti che descrivi e le chiudevo per non far entrare troppa luce.

Carramba. Però devo tornare a Carboni, perché senza di lui non ci sareste voi indie poppers intimisti degli anni Dieci…

Certo. Ma è un padre riconosciuto, io ci ho fatto pure una canzone! Semmai è stata la generazione precedente a non averlo capito e considerato come meritava. La mia generazione, che non è più neanche nuova, gli ha reso giustizia, no?

Sì. Torniamo ai pomeriggi. Dopo aver contemplato le geometrie della luce filtrata dalle tapparelle, come te sono andato a Londra, che è contemporaneamente il meglio e il peggio che si possa fare a quell’età.

Sono stati anni difficili e duri ma anche bellissimi. Abitavo in topaie con scarafaggi e topi che lottavano tra di loro. Sono arrivato lì nel 2006, e nei primi sei mesi ho cambiato sette case, sempre con altra gente. Poi per un periodo ho abitato con una ragazza ed è stato il momento in cui ho avuto la casa più bella – perché era la sua. Studiavo e lavoricchiavo, ero povero in canna. Ho fatto il lavapiatti, il cameriere, raccoglievo i bicchieri in un locale a London Bridge per sei pound all’ora, il minimo sindacale… poi ho dato anche lezioni private di chitarra. La sera si andava a Shoreditch e Huckney e Daulston.  

Londra è incredibile in questo. Tocca andare sempre più lontano. Noi si andava a Camden, Brixton… bisogna farsi arrestare almeno una volta a Brixton, fa curriculum…

Ma sai che una volta mi è successo con degli amici? A Brixton a un certo punto mi circondano dieci poliziotti, ma davvero dieci, in cerchio intorno a me, che mi guardano incazzatissimi… poi una poliziotta fa «it’s not him». Cioè mi avevano scambiato per qualcun altro! Stavano per saltarmi addosso!

Beh, io sono stato “arrestato” da un buttafuori di un rave illegal perché avevo un po’ di erba. Intorno a me tutti si facevano di qualunque cosa, quindi gli stavo sulle palle per qualche motivo. Forse perché ero bianco al contrario della maggioranza dei presenti. Mi ha preso l’erba e l’ha sparpagliata per terra. Io mi sono incazzato ed è finita con una fuga verso la stazione della metro. Bella vita…

Londra è molto dura anche se non decidi di metterti nei guai da solo. Per questo avevo deciso di andare a Berlino; era molto più semplice, come una piccola Londra, e tantissime persone che conoscevo si erano trasferite lì perché gli affitti erano molto bassi. Un’altra cosa importante che mi è successa mentre ero a Londra è che ho iniziato ad ascoltare Lucio Dalla, che i miei ascoltavano quando ero bambino e che da adolescente non ascoltavo perché ero sicurissimo dei miei ascolti – da adolescente sei sicurissimo di idee che in realtà non hai. Poi più vai avanti e più sei insicuro. All’inizio questo ti apre a cose bellissime, poi arriva il momento del casino, nel quale non ci capisci più niente. Per esempio a Londra amavo la musica africana, la musica sudamericana, la Cumbia. Se me lo avessero detto da adolescente non ci avrei creduto. Io lì studiavo jazz e mi sono avvicinato alla musica italiana con lo stesso spirito come se fosse musica esotica, o folk. Io faccio musica folk o world music, in una visione anglosassone.

Londra, Berlino, manca Parigi. Vorrei un racconto dettagliato della tua collaborazione con i Phoenix.

È stato tutto spontaneo. La moglie di Branco, che è uno dei due chitarristi dei Phoenix, si è imbattuta nella mia musica e le è piaciuta, l’ha fatta ascoltare al marito ed è piaciuta anche a lui, mi hanno cercato e ci siamo conosciuti. Poi sono venuti ad ascoltare un mio concerto in un campeggio in Toscana e da lì siamo diventati amici. Mi hanno chiesto di aprire il loro concerto a Milano e poi Parigi, Lione e in un attimo eravamo a New York e Los Angeles. È stato bellissimo e strano: cantare in italiano dall’altra parte del mondo… il pubblico sembrava non avere neanche idea di cosa fosse l’Italia, uno dopo il concerto è venuto a chiedermi qualcosa sulla Spagna, pensava io fossi spagnolo o comunque per lui era la stessa cosa. La risposta del pubblico americano fu però sorprendentemente buona, anche perché c’erano momenti solo strumentali nel concerto, eravamo un trio che suonava, anche se non c’era il sing-along lo potevi accettare, diciamo. Poi i Phoenix mi avevano chiesto di tradurre una loro canzone in italiano e cantavamo questo pezzo insieme durante il loro set a Los Angeles, ma solo tre sere su cinque perché le altre due volte c’era Beck a cantare al posto mio. Ho dovuto lasciare il posto a Beck! Ci poteva stare no?

Ok, il nuovo tuo disco com’è? I pomeriggi dà un’idea?

Ci sto ancora lavorando, faccio fatica a parlarne, di certo I Pomeriggi è un pezzo diverso rispetto agli altri del disco. L’ho fatto uscire prima perché si distinguesse anche anagraficamente… è nato prima. Il disco boh, non so ancora quando uscirà. Ma io ancora non ho capito se ti è piaciuto I pomeriggi

Ma sì, dai, mi è piaciuto. L’ho anche messo ad alto volume, poi te l’ho detto, le tapparelle, il sole che filtra, Carboni, tutta roba buona. Poi ho iniziato a ballicchiare…

Quindi il tuo corpo ha risposto.

Nel suo piccolo, sì. Da ciò deduco che mi è piaciuto. È un pezzo persuasivo e accogliente con dei bei suoni. L’hai prodotto tu?

Sì.

Eh peccato che lo ascolteranno tutti malissimo come da regola della contemporaneità: fruire di un sacco di contenuti, nel peggior modo possibile. E la qualità della produzione è solo un encomiabile desiderio dell’artista…

Mah, col mio telefono se me lo metto davanti lo sento bene, pure stereo e mi piace un sacco come suona la batteria, per esempio. In realtà io penso che uno può anche non accorgersene di una buona produzione ma lo sente così come ai concerti. Sono dell’idea che anche chi non ha conoscenze musicali lo percepisce magari non dal punto di vista della consapevolezza ma certamente da un punto di vista fisico, il corpo risponde se ci sono arrangiamenti che funzionano, dei suoni che escono bene. Le persone se ne accorgono: non sanno il motivo per cui si sentono in un modo o in un altro ma lo sentono a livello emotivo e fisico. La musica fa vibrare i tuoi organi interni, non la senti soltanto con le orecchie, la senti con tutto il corpo. Ma anche il suono di una stanza, come “suonano” i tuoi gesti in una stanza, determina quanto sia accogliente oppure no. Per esempio quando vado in studio a fare il mix, sto lì sul divano e c’è questo suono molto asciutto, perfetto, e io mi addormento sempre su quel divano! Mentre invece le case che rimbombano non sono accoglienti. Quando avrò una casa mia farò in modo che non ci sia nessun tipo di rimbombo. Adesso ho una casa che rimbomba tantissimo perché ha i soffitti alti, però la cameretta dove ascolto la musica l’ho asciugata tantissimo. E ora è una stanza che suona bene.

Hai ragione, sì. La musica parla col corpo e il suono delle stanze è fondamentale. Ma invece non ti affatichi ad ascoltare col telefono? Lo sai che le frequenze compresse e tagliate – tipo la roba che esce da un computer – ti affatica un sacco perché il tuo cervello tende a completare i suoni mancanti?

Eh lo so, sì. Ho l’acufene ogni tanto; se ascolto dieci minuti di musica dal computer senza casse mi viene subito. Ce l’ho più o meno da un anno, penso che mi sia venuto perché ho usato delle cuffie che avevo dentro più alti e ascoltando ad alto volume deve essersi creato un piccolo danno al timpano… ma vabbè, Beethoven era sordo, quindi tutto bene. In realtà la cosa migliore è ascoltarla bene la musica, con delle belle casse che pompano i bassi.

Ma infatti pure io sono mezzo sordo, troppi concerti e notti davanti alle casse.

Eh… adesso non ci sono i concerti.

Beh no dai. Io ho visto Iosonouncane al Castello a Milano, è stato molto figo.

Io dal vivo ancora non l’ho visto, farà una data a Bologna appena si potrà. Ci conosciamo, siamo amici, ogni tanto ci vediamo, anche lui sta a Bologna. C’è pure Calcutta… e pure Biagio Antonacci, che è mio vicino di casa… a Bologna secondo me la musica continua a essere rifugio di chi la fa.

Ultima cosa. Che pensi della grande partecipazione ai referendum online su cannabis ed eutanasia?

Avendo firmato per entrambi ho accolto questo successo in maniera molto molto positiva. È un modo per facilitare l’espressione della propria opinione da parte dei cittadini e mi sembra positivo che si possa fare online. Mi sembrano due temi talmente importanti a livello di libertà personale, che penso la scelta debba ricadere sulla singola persona. Io devo poter scegliere se mi voglio fumare dell’erba che ho coltivato da solo o se voglio andare per strada a comprarla dal primo sconosciuto, dando i soldi alla criminalità organizzata, dopo che peraltro è stato ampiamente provato che l’erba danneggia molto meno di tante altre cose che sono legali. Allora proibiamo tutto! Ma la vita è pericolosa. C’è chi ci muore.

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