Un piccolo dipinto che ha per soggetto un gallo vestito con la divisa delle guardie svizzere pontificie accoglie il pubblico negli spazi della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, a Lugano. Questa collezione privata ha da tempo aperto le sue porte alla fruizione del pubblico più vasto, divenendo parte integrante dei programmi del Masi, il Museo d’arte della Svizzera italiana, che ha sede a pochi passi, affacciato sul lago.

Quel piccolo dipinto è un’opera senza titolo del 2011 e il suo autore è Pietro Roccasalva (Modica 1970), a cui la Collezione ha dedicato lo spazio di una mostra antologica (fino al 18 dicembre). Nato nel 1970 a Modica, una delle più belle città della Sicilia, Roccasalva lavora da circa un ventennio e ha conquistato un riconoscimento che travalica i confini nazionali.

Aprirsi agli stimoli

Principalmente pittore, l’artista non esita a scegliere altri mezzi espressivi quando li ritenga necessari per costruire l’universo polifonico nel quale intende operare. Disegno, scultura, performance, installazione, tecnologia digitale, tutto concorre a costruire un percorso, che si dipana coerentemente dagli esordi fino ad oggi, fatto di rimandi continui fra un’immagine e l’altra, fra un linguaggio e l’altro, e nutrito da una sapienza che non si limita a sondare la storia dell’arte. Ogni stimolo, culturale o esistenziale, può generare un’opera e l’origine di essa può trovarsi nel fotogramma di un film, in un brano letterario, in una proposizione filosofica o anche solo nell’esperienza quotidiana.

Anche in questa mostra antologica vediamo dipanarsi un racconto fatto di molti capitoli in una rilettura del lavoro che lo rimette di nuovo in questione grazie all’attuale contesto espositivo. Davanti a quel gallo ironicamente blasonato campeggia una scritta al neon che recita “Chi è che ride chi” dove i due pronomi sono sovrapposti in modo che il lettore legga solo “Chi è che ride”, frase che dà il titolo alla mostra.

Essa compare nell’ultimo romanzo dello scrittore e filosofo Pierre Klossowski, Il Bafometto, e qui vale come assonanza che l’avvicina alla nostra usuale trascrizione del verso del gallo; si tratta però solo di una assonanza imprecisa: Roccasalva parla di malinteso, e noi ne deduciamo che proprio dai malintesi, dagli errori, dagli equivoci si evolve il sapere, si fanno scoperte scientifiche e si realizzano le opere d’arte.

Il neon è dipinto di nero in modo che la sua luce si percepisca solo come alone e possa alludere alla luce dell’alba, annunciata dal canto del gallo, che inaugura il nuovo giorno. Al di là di questo incipit la sala seguente ci rende edotti del metodo dell’artista: il ciclo di pitture From Just Married Machine rimanda a un tableau vivant del 2012, realizzato a Los Angeles.

Il punto di partenza è un fotogramma da La Ricotta, il film di Pasolini che inizia con l’immagine di una tavola imbandita, allusiva alla natura morta barocca. In quel tableau vivant la suggestione nata dal fotogramma ha generato una ampia installazione dove compaiono palloncini e sculture in ceramica che stanno per l’uva e l’aglio disposti sulla tavola mentre il panneggio della tovaglia diviene una mongolfiera sgonfia, stavolta tratta da un altro fotogramma, da un film di Tarkowski.

Due personaggi in carne e ossa rappresentano i due sposi, lui seduto su una barca a forma di mandolino e lei in bianco che regge una racchetta. Ora tutto diventa pittura in un ciclo (2018-2022) dove personaggi e oggetti ricompaiono come icone, e allo stesso modo ricompaiono altre figure che popolavano un’altra installazione, intitolata Hétalvó II, (2018) dove sette studenti di un’Accademia d’arte copiavano un modellino di quello stesso “tableau” losangelino.

Eterni ritorni

Non basta: ritorna anche l’immagine della sposa nel recente ciclo La Sposa Occidentale del 2021, e la racchetta che tiene in mano reca, al posto delle corde, il disegno del pavimento del Campidoglio a Roma, ideato da Michelangelo e associabile a un’idea di perfezione formale e mentale. E vediamo anche diverse versioni de Il Traviatore, un’apparizione fra le più frequenti nell’immaginario dell’artista: un cameriere reca in mano un vassoio metallico su cui è posto uno spremiagrumi dello stesso sfavillante materiale. L’origine di questa apparizione risale al 2002, quando Roccasalva era studente nel corso annuale della Fondazione Ratti, a Como, e il docente era Giulio Paolini.

L’opera era una animazione in cui al modellino della chiesa di San Francesco, il luogo stesso dell’esposizione, veniva tolta la cupola, sostituita dalla figura di uno spremiagrumi rotante, dove la rotazione alludeva al passare del tempo.

Ora in mostra vediamo quella chiesa schematizzata dipinta su tele di diverso colore, quasi allusione al trascolorare della luce in base all’ora del giorno, come nelle cattedrali o nei covoni di Monet.

Pensiero analitico e memoria storica

La pittura è sempre il referente di Roccasalva, che scherza sui termini quando dice che i suoi “vivants” sono tutti destinati a diventare “tableaux”, ed è una pittura guidata da un pensiero analitico e da una profonda memoria storica. Pittura ad olio, ad acrilico o a pastello non fissato, colori squillanti o ridotti alla quasi-monocromia, ogni scelta discende da una riflessione sulla natura del segno oltre che dell’immagine finale.

La scelta del pastello non fissato per esempio serve per definire i volti deformati di molti suoi personaggi; l’artista ha affermato che i suoi ritratti vanno intesi come anime insufflate in maschere e corpi che veicolano soffi (e notiamo come “soffio” sia un termine che ricorre anche nel romanzo di Klossowski, ambientato all’epoca dei Templari e popolato da potenze invisibili divenute anch’esse corpi). Si tratta insomma di immagini cangianti, poste materialmente in un continuo divenire.

Nella sua pittura ritroviamo – Roccasalva lo dice apertamente – il tratto dissociato di Segantini e quello filamentoso di Boccioni, e poi molta pittura italiana, fino alle fitte griglie colorate di Dorazio. Una parete ci mostra un insieme di dieci dipinti monocromi realizzati nel 2016, tutti chiamati Imprimitura e ciascuno con la specificazione d’après, seguita dal nome di cinque pittori futuristi.

L’artista ha scelto dieci famosi dipinti, ha individuato in ciascuno i pigmenti e li ha mescolati insieme ottenendo un colore dominante e con questo ha saturato le superfici, tutte rispettose delle dimensioni originali (si riconosce il trittico di Boccioni detto Stati D’animo) ma tutte azzerate. Potremmo definirle «dimenticate a memoria» come diceva Vincenzo Agnetti alludendo a ciò che abbiamo assimilato culturalmente e che fa ormai parte della nostra identità? Per Roccasalva, i Futuristi sono il simbolo stesso dell’Antropocene, la fiducia incondizionata nel progresso umano; una fiducia non sempre destinata al successo: le tele qui sono applicate ai telai tramite chiodi in oro massiccio, simboli della luce del sole, quella stessa che ha precipitato l’Icaro involato della mitologia.

Del resto anche il sole si spegnerà, in un futuro remotissimo ma comunque effettivo. Ce lo ricorda una curiosa scultura in legno bianco che si chiama Fanfaro (2014) raffigurante un bambino che morde la coda di un grosso varano, il quale a sua volta regge in una zampa un arancino sferico, che rappresenta il sole morto. Alla fine di tutto, l’universo intero «si dileguerà e perderassi», dice il gallo silvestre di Leopardi, il quale però in nota aggiunge che, «parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine». 

Niente si perde, nel pensiero e nella sensibilità degli artisti. Il gesto artistico come lo concepisce Roccasalva trasfigura le cose che rappresenta decontestualizzandole e creando per loro una catena di nuovi significati potenzialmente infinita. Apparentemente chiuse nel loro mistero, le sue figure sono aperte alle interpretazioni dell’osservatore. Marcel Duchamp diceva che l’artista è creatore dell’opera solo a metà, l’altra metà spetta a chi guarda.

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