Tra i numerosi piccoli segreti della Biblioteca civica di Milano a palazzo Sormani c’è un’edizione del 1808 delle Odi di Orazio. Sulla copertina di pelle che rilega il tomo piccolo ma spesso c’è un foro che arriva a oltre metà delle 500 pagine, via via rimpicciolendosi. Sulla prima romana, accanto al foro, in una scrittura minuta ma elegante e un francese asciutto, c’è un’annotazione che dice più o meno questo: «Questo foro è il risultato di una trafittura durante la battaglia di Jena. Questo libro non mi ha mai lasciato, ma non l’ho mai letto». La firma è quella di Stendhal, al quale Orazio ha con tutta probabilità salvato la vita.

Il libretto è parte del fondo stendhaliano, conservato in una delle poche sale perfettamente preservate di palazzo Sormani dopo l’intervento nel primo trentennio del 1700 da parte dell’architetto Francesco Croce. Croce, figlio di un idraulico, ebbe una carriera di primissimo piano. L’ascensore sociale evidentemente funzionava meglio di oggi. Divenne direttore della Fabbrica del Duomo e ne progettò la guglia principale, quella sopra la quale nel 1774 venne posta la Madonnina. A Croce venne affidato il compito di risistemare e ampliare il palazzo Sormani, allora in realtà palazzo Monti, ma i lavori vennero presto fermati da un litigio tra vicini di palazzo, se così vogliamo dire; i principi Trivulzio lamentarono che l’ampliamento voluto dal conte Monti avrebbe impedito loro di godere della vista sul Borgo della Fontana proprio dalle sale di ricevimento e dalla loro splendida terrazza sul Naviglio.

Si immaginano svenimenti delle signore e minacce di duelli da parte dei signori. Ma la ragione, con pragmatismo meneghino, prevalse, conti e principi fecero pace e nel 1744 palazzo Monti fu finalmente completato. La forma tondeggiante che ha preso la facciata fu il pegno che il conte Monti dovette pagare, su suggerimento di Croce, per portare a casa l’ampliamento ed evitare la guerra con i Trivulzio.

La spritzoteca Sormani

Di questo ampliamento, oltre che la parte di struttura che resistette ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, l’unica sala rimasta identica al tempo è proprio quella nella quale è conservato il fondo Stendhal, col suo sobrio parquet intarsiato, le volte affrescate e alcuni elementi di mobilio originali, se si eccettuano quelli qui trasferiti dalla casa di Stendhal stesso a Civitavecchia. La dolcezza del racconto del funzionario pubblico, che non cela un tipo di orgoglio accogliente e seducente nonché approfondita conoscenza del fondo sono cose belle e semplici; quello che ti aspetti nel migliore dei mondi possibili.

Quello che accade quando senti quel friccicorio che arriva da chi è davvero interessato a quello che fai – mi viene da pensare che non ricevano molte visite. Chi mai viene a raccontare una biblioteca? Sta lì, non fa male a nessuno; arredo urbano, scatola vuota. Nein! Quello sguardo è una cosa piccola ma preziosa, se non irrinunciabile; come piccola e preziosa è una biblioteca. Ogni biblioteca. Non importa quanti volumi conservi, anche fossero dieci milioni non è che un piccolo retroposto di civiltà, una civiltà che in quelle forme sta evidentemente per scomparire o, meglio, in larga parte è già scomparsa. Questo non è male di per sé, non saremo nostalgici; ci sarà sempre qualcuno curioso di andare a vedere il foro di baionetta sulle Odi di Orazio. Quel che si deve temere è che inseguendo le tendenze dell’intrattenimento culturale (odio) si acceleri la perdita di rilevanza, che andrebbe in certi casi cercata nella conservazione e non nella sfrenata e a volte miope fregola di cambiare le cose, di ammodernare, di rendere tutto multiservice. Per dire: si parla di caffè letterario (un altro!). Si parla di “eventi”. Siamo a un passo dalla spritzoteca Sormani. Aiuto.

La Sormani, per come la vedo, somiglia a una stazione americana in un film in bianco nero; gente indaffarata e con evidenti scopi; quei movimenti veloci rispondono, nella stessa cornice monumentale, alla pacata fissità della biblioteca; l’homeless che cerca riparo dal freddo nella sala periodici; il giovane avvocato in attesa di un colloquio al quale si è presentato troppo presto; la coppietta di sedicenni che ha saltato scuola e ride, con un teatrale tentativo di mantenere un minimo contegno.

Tutto questo forse non ha nulla a che fare con i libri, forse ne è del tutto dipendente, ma senza i libri non ci sarebbe stato; è la vita di un luogo che c’è, che è sensato ci sia e facile. E questo non potrà cessare di essere né oggi né domani. A meno che non lo si voglia trasformare in qualcosa che abbia successo, che sia contemporaneo; specchietti, allodole.

E poi è arrivato Internet

Vengono soprattutto studenti universitari, ci dice il funzionario, barbetta e parlata gentile, anche se ricorda con tristezza quando c’era la fila per entrare e lui doveva gestire il trambusto di quelli che occupavano il posto e poi lo lasciavano per più di 15 minuti, il limite massimo per non perdere il diritto all’occupazione. Sono diminuiti; è dalla seconda parte degli anni Zero che il numero delle persone che venivano a consultare in sede è calato sensibilmente. Prima il nostro eroe faceva il buttafuori, di fatto. La storia dei 15 minuti creava tensioni con quelli in attesa di un posto, e allora lui quando vedeva uno alzarsi andava a mettergli il disco orario (me lo ricordo) in modo che passato il quarto d’ora raccoglieva le sue cose e assegnava il posto al prossimo in fila. Manco in discoteca. Brilliant.

Ora c’è la fila di nuovo a causa della limitazione agli accessi dovuta al Covid. O meglio c’era perché ora è totalmente chiusa. A lui mancano gli studenti – dice soddisfatto che nessuna digitalizzazione potrà far perdere il ruolo di luogo di studio. Insomma, magari non vai a cercare un libro, ma ci vai a studiare. O altro. Per esempio da quando la Gazzetta ufficiale esce online hanno perso un sacco di utenza. E che peccato però, vuoi mettere andare a spulciare una legge incomprensibile dopo aver preso il bus, col tuo vestito grigio, per scoprire cosa dice il comma scritto in piccolo e ricopiarlo sul tuo taccuino? Un mondo; la stazione dei treni americana dei film.

Negli stanzoni deserti, la sala di lettura principale, il racconto del funzionario cade ogni tot sulla frase «e poi è arrivato internet». Gira e rigira, lì si arriva. Ma al tempo, l’arrivo di Internet non colse impreparata la Sormani che allestì appunto la sala Internet, che non è quasi più utilizzata, e tuttavia è una risorsa per i turisti e per le persone che stanno sotto la linea del digital divide, quelli che non hanno la rete a casa. Per cui lunga vita alla vetusta e commovente sala Internet della Sormani, allestita dove un tempo stavano gli schedari – vedo ancora i segni per terra e mi prende un colpetto al cuore, ma nulla in confronto al momento nel quale mi dicono che sì, posso affacciarmi dal balcone della Sormani. Vorrei subito aizzare le folle ad una rivoluzione “disattivistica a sfondo copulatorio”, ma fa troppo freddo e scendo a più miti consigli. Ovvero rientro.

Formazione di un cinefilo

Io alla Sormani ci andavo, almeno fino a quando non è stata sostituita da Google. E anche dopo, in realtà, perché ci sono cose che su Google non si trovano, grazie a Dio. Tra la storia raccontata sopra e le mie trascurabili esperienze alla Sormani passano più o meno 250 anni e di certo né Croce, ne il conte Monti e men che meno l’umbratile principe Trivulzio avrebbero potuto immaginare il futuro lontano nel quale io, sedici anni, seconda liceo scientifico, presi a frequentare con cadenza almeno bisettimanale la bellissima e retrofuturistica sala degli audiovisivi. Si tratta di uno stanzone con un soppalco. Sopra stanno impilate file e file di videoregistratori e giradischi (poi man mano rimpiazzati da lettori Dvd e altri supporti) e sotto le incredibili postazioni, che oggi mi commuovono per quanto sono belle e perché vedo la forma del mio culo sulla preferita, la numero 18, con vista sulla corte interna. Banchi bianchi ad andamento tondeggiante, cuffioni extralarge alloggiati in un comparto posto accanto allo schermo bombato (a tubo catodico!) allocato nella struttura.

Si chiedeva un film alla videotecaria, si sceglieva una postazione libera, ci si sedeva e come per magia, eccolo lì. Il tuo film, in privato, tutto per te, all’ora che vuoi. La mia prima piattaforma di video on demand. Per dire, Blockbuster non c’era ancora a Milano.

Fuori orario, in tutti i sensi

Mi viene in mente ora che queste mie session di aspirante cinefilo e forse regista avevano luogo quasi sempre al mattino. Al posto che andare a scuola cioè. E mai una volta l’addetta mi ha chiesto niente. Un ragazzino di sedici anni con uno zaino Invicta (giallo, per la precisione) che cazzo ci fa alla Sormani alle 9 del mattino? Niente. Mai una parola.

La ringrazio ora, da queste righe, se mi sta leggendo. Cosa ci facevo era precisamente questo: avevo scoperto il cinema d’autore, grazie a Fuori orario di Enrico Ghezzi ed ero in quella fase della vita nella quale più il film è introvabile, palloso, e sconosciuto più la voglia di vederlo era insopprimibile. Ne parlai poi a Ghezzi, che mai avrei sperato di conoscere, del fatto che lo usavo come scusa per non andare a scuola; il suo sorriso sempre dolce confermava che avevo fatto bene. Fu lì, in quello schermo minuscolo e su Vhs che vidi 2001 Odissea nello spazio; tutto Bergman, Melville e i suoi nipotini della nouvelle vague; ma inutile fare l’elenco. Avrò visto duecento film seduto lì, alla postazione 18 della Sormani.

Ogni tanto, quando il film mi invitava a farlo, uscivo a farmi una piccola cannetta mattutina, cosa diffusissima tra gli adolescenti al tempo, non so ora. Di certo se si fanno ancora le canne poi non vanno alla Sormani. Questo solo per dire che da giovane ero molto più figo dei giovani d’oggi, sui quali però non scatarro, anzi, li invidio e per questo dico codeste cazzate. Ma, al solito, sto divagando. Cammino sovraeccitato per lo stanzone audiovisivo sotto lo sguardo un po’ sorpreso dei funzionari pubblici, verso i quali provo a mantenere senza successo l’atteggiamento rispettoso e deferente che meritano perché sono davvero travolto dall’emozione - non ci entravo da quel dì. E ora scopro che, piuttosto giustamente in questo caso, lo ammetto, la sala sarà smantellata. Non ci va più nessuno. Tutto: le postazioni, la colonna da teletrasporto di vernice grigia con la scrittona argento Philips che porta alla sala macchine, i monitor catodici. Ma buttate via tutto, chiedo, con un filo di voce. Perché nel caso se proprio buttate via, mi offro di tenere e conservare una postazione. Immagino che si commuovano, probabilmente pensano semplicemente che io sia fuori di testa, anche se temo che non vedano spesso un essere umano saltellare di gioia dentro la Sormani. Amen, andiamo avanti. Anzi indietro.

Andiamo indietro

La storia di palazzo Sormani (già palazzo del marchese Giovan Battista Castaldo, condottiero dell’imperatore Carlo V, poi palazzo Medici di Merignano, quindi palazzo del conte Giovan Battista Rovida, che vendette al Monti, Conte di Valsassina, che morse il gatto che si mangiò il topo che nel 1930 il comune comprò per farne il Museo di Milano e poi la Biblioteca civica) non è diversa da quella di quasi tutti i palazzi seicenteschi. E così la storia della Biblioteca stessa: l’idea nasce nel 1861 con il bellissimo nome di “Biblioteca circolante dei maestri”, per poi allargarsi agli studenti delle scuole serali maschili, per divenire infine, dopo il trasferimento nella sala dell’orologio di palazzo Marino, già simile, per funzione, a quella che sarebbe stata lungo tutto il secolo scorso e fino a oggi. Dopo due “veloci” passaggi a palazzo dei Giureconsulti e al Museo di storia naturale dei giardini pubblici, nel 1914 occupa alcuni spazi del castello Sforzesco, dove rimarrà fino alla Seconda guerra mondiale. È in questo periodo che la raccolta si allarga a «opere meno auliche (sic) come i romanzi», si scriveva al tempo, celebrandola.

Il capo dell’ufficio tecnico

Popolarizzò dunque la propria utenza e svolse un ruolo di qualche rilievo nel processo di alfabetizzazione. Negli anni trenta raccoglie ben 400mila monografie, resta aperta fino alle dieci e mezza di sera e ha una prestigiosa raccolta storica di quotidiani italiani e stranieri. Il fascismo, come di ogni altra cosa, ne fece principalmente fonte di propaganda, fino alla notte del 12 Agosto del 1943, quando un bombardamento alleato mandò in fumo più di 200mila volumi – mentre l’emeroteca fortunatamente rimase quasi intatta.

E fu così che nel dopoguerra la pratica arrivò sul tavolo di Arrigo Arrighetti, capo dell’ufficio tecnico del comune. Occorreva trovare una nuova sistemazione per la Biblioteca civica, che venne individuata in palazzo Sormani – esso stesso gravemente danneggiato dai bombardamenti. Provare a mantenere quel che era rimasto (le facciate e pochi elementi strutturali maggiori) e integrare con un intervento “moderno” e compatibile con le nuove esigenze fu il compito che si diede Arrighetti.

Figura un po’ sottovalutata di funzionario pubblico brillante – di “civil servant” come l’ha definito Rem Koolhas – Arrighetti era convinto che l’architettura pubblica dovesse avere come scopo la socialità, nel senso più ampio possibile; costruì quartieri interi (come il sant’Ambrogio a Milano) con l’idea molto teorizzata e poco praticata nel Novecento che questi tipi di quartieri non fossero satelliti-dormitori ma luoghi autosufficienti; progettò le bellissime piscine pubbliche Solari e Argelati, il notevole edificio della scuola materna di via santa Croce, in centro a Milano, oggi ambitissimo dall’upper class perché molto cool.

Alla Sormani dovette ricostruire tutto e lo fece realizzando una splendida facciata secondaria a quadrotti di cemento e soprattutto la “torre dei libri” una struttura ingegnosa di cinque piani senza solette o pavimenti, ma solo scaffali di libri; si cammina letteralmente sopra gli scaffali del piano inferiore. Il fatto che abbia impedito qualsiasi vista laterale sulla torre, che fosse così alieno dalla spettacolarizzazione spiace un po’ ma è del tutto coerente. La magnifica fuga di cinque piani di libri si intravede nei pochi centimetri lasciati tra la struttura e il suo contenitore (i quadrotti di cemento). È così stretta che non si riesce nemmeno a scattare una foto. Mi piace immaginare l’abbia fatto apposta, Arrigho Arrighetti, il capo dell’ufficio tecnico del comune di Milano, il burocrate architetto. Bravo. Era il 1956.

Gli esseri-che-ricordano

Naturalmente camminare tra centinaia di migliaia di libri, una torre di libri è un privilegio. L’accesso ad essa è infatti riservato agli impiegati della biblioteca, che ci illustrano nel dettaglio il sofisticato – ancora oggi – sistema di reperimento e smistamento dei titoli, che poi viaggiano in miniascensori ovviamente presenti a ogni piano, prima di venire sputati a vista nell’ufficio prestiti. Me lo ricordo, era una specie di apparizione, cercavi un libro introvabile, ma lo trovavi! e arrivava in 5 minuti sputato dall’ascensorino – ovviamente dopo averlo cercato negli schedari, ormai non più aggiornati poiché comprensibilmente trasferiti online. Me lo ricordo bene però. La magia del trovare cercando e non trovare e basta. Questo penso sia il più grande cambiamento del quale le biblioteche sono mute testimoni. La difficoltà di reperire una informazione è direttamente proporzionale alla capacità di ritenerla nel tempo; perché se il percorso per arrivare ad essa è ogni volta diverso, diventa storia e l’informazione assume un valore emozionale che ne esalta la rilevanza, rendendola più stabile nell’equilibrio fuggevolissimo delle reti neurali che la conservano. Questo è un tema importante, che non mette in dubbio il prodigio; l’incredibile progresso dato dalla disponibilità immediata di zillioni di dati e informazioni e la velocità supersonica alla quale possiamo accedervi.

Anzi, tutt’altro. È probabile che questo meccanismo sia di per sé evolutivo, ovvero in grado di costringerci ad adattarci ad esso e rimanere, in qualche modo, esseri-che-ricordano. È però necessario prendere atto del fatto che quel modo di raccogliere informazioni complesse non esiste quasi più. E ciò non potrà non avere un impatto sull’essenza di quel che siamo, nient’altro che le storie che abbiamo vissuto e la nostra capacità di trarne un’idea di cosa saremo. Ovvero il nostro futuro.

 

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