Siamo in guerra. Ovunque si volti lo sguardo i giornali, le televisioni, le radio, tutti i media ci dicono che siamo in guerra contro un nemico invisibile che dobbiamo quanto prima sconfiggere, costi quel che costi. Ho sentito persino dire che il 2020 è stato l’anno più drammatico della storia d’Italia, non solo quella repubblicana, ma quella dell’Italia unita.

Mi è sembrata una riflessione poco sensata. Due conflitti mondiali, con i loro milioni di morti, un ventennio dittatoriale, le persecuzioni, le deportazioni, l’invasore nazista, i bombardamenti alleati, la resistenza partigiana, tutto ciò e tanto altro non possono essere paragonati alle circostanze che abbiamo vissuto nell’anno appena trascorso. Ma tant’è, la vulgata guerresca si è fatta egemone, e nessuno si sorprende o scandalizza: la pandemia è stata ed è una guerra.

Rabbrividisco.

Il nemico non è alle porte

Perché no, non c’è stata alcuna guerra. E il virus non è il nemico alle porte, non è un plotone di esecuzione, e non è un persecutore di minoranze etniche o di oppositori politici. Il virus non è una squadriglia di bombardieri, non rade al suolo le città, non semina il terrore indiscriminato che romba nelle notti assassine, quelle che mi raccontava mia madre. I nonni spegnevano le candele, e tutta la numerosa famiglia andava a nascondersi nei pagliai o fra i campi, nella speranza di non morire. Insomma, non è con un vocabolario bellico che possiamo descrivere i nefasti effetti sulla società che la pandemia ha provocato e continua a provocare.

Mi sovviene – e per forza! – quell’intelligente spot tedesco nel quale un anziano reduce della pandemia ricorda, con orgoglio patriottico, lo sforzo fatto da giovane nella guerra senza quartiere a un virus mortale che mieteva le sue vittime in tutta la popolazione. L’arma vincente, quella con cui il nemico invisibile sarebbe stato sconfitto, è definita con un’unica, semplicissima parola: niente. Non fare assolutamente niente. Restarsene a casa a poltrire sul divano come un procione. Nel flashback del vecchio saggio, il giovane, a un certo punto, accenna insieme alla compagna un mesto saluto militare, come a significare quanto quella disciplina domestica avesse un significato di unità e comunione d’intenti che solo un fedele soldato sa esercitare nella quotidianità. Una quotidianità protocollata in quella semplice ma ferrea regola del restarsene a casa a non fare niente.

Non nascondo che lo spot è addirittura riuscito a commuovermi. Il sottofondo musicale, azzeccatissimo, induce nello spettatore un breve moto di compassione. Patire-con, addolorarsi insieme a quell’anziano signore nel ricordo di quell’anno luttuoso, il 2020, nel quale si decisero le sorti del paese. Semplicemente geniale.

In un altro ancora un arzillo vecchietto racconta che per lui, al tempo anch’egli ventenne, non fu poi quel grande sforzo. C’era già abituato a restarsene a casa a smanettare con computer e world wide web. Un “hikikomori” si direbbe, quello strano fenomeno sociale che spinge i giovani a isolarsi in cameretta passando l’intera giornata a trastullarsi nell’immenso mare della rete globale, quella che ti consente di vivere al di fuori della società reale e a immergerti in quella virtuale, lontano dalle persone in carne e ossa. Geniale anche questo: quello che fino a ieri dalla comunità psichiatrica di tutto il mondo era considerato un disturbo del comportamento, nello spot diventa il suo esatto contrario. Una virtù sociale.

Semplici spettatori

C’è però, in questa propaganda tanto ironicamente affilata, un aspetto inquietante. Se è senz’altro vero che l’auto isolamento domestico è, in questo momento storico, essenziale per combattere la diffusione del contagio, è anche vero, o almeno probabile, che produrrà effetti di lungo corso nelle abitudini sociali e, con esse, nel principio di cittadinanza.

Sono decenni che questo principio è posto sotto attacco dalla tecno-struttura del capitale e dal suo apparato ideologico. In questa falsa pace sociale, nell’agonia della lotta di classe, motore inceppato della storia e cuore infartato del progresso umano, le élite dominanti, il capitale finanziario, l’oramai abnorme apparato militar-industriale, i colossi del web, faranno tutto ciò che vorranno. Noi… resteremo a guardare, impassibili, imperterriti, negli appartamenti, al riparo da ogni pericolo. Out of Sight, Out of Mind.

Non è da cospirazionisti immaginare che questa retorica bellica possa portarci in un perimetro storico non ancora esplorato. Dopo una guerra bisogna rimboccarsi le maniche e ricostruire. Non i palazzi del governo, gli aeroporti, gli ospedali, le ferrovie, le autostrade, le infrastrutture nel loro insieme, no.

Qui da noi, in Europa e in tutto il così detto “primo mondo”, si dovranno ricostruire i rapporti sociali. Dovremo affrontare un processo politico di riorganizzazione del tessuto socio-economico. Ci attende una sfida epocale, nella quale il capitalismo avrà gioco facile nel sussumere l’intrico delle contraddizioni emerse durante la pandemia, se ne impossesserà, e trasformerà le nostre democrazie sulla base di interessi specifici, non così difficili da individuare.

Saranno le grandi imprese transnazionali a giocare la partita, quella vera. Noi semplici individui – e in quanto individui del tutto inermi di fronte all’enormità delle forze in campo – saremo indotti a restare ciò che ormai siamo da tempo: semplici spettatori. Già ci siamo divisi in tifoserie opposte. Ce ne siamo accorti? No vax e Pro vax, chi crede nella scienza, e chi nella scienza non soltanto non crede, ma la teme, e con essa teme una possibile deriva tecno-autoritaria delle democrazie liberali.

Il grande ripristino

Prendo ad esempio un tizio che conosco bene, la mia persona. Io mi fido della scienza, e non temo il vaccino, strumento (non arma) che considero necessario. Ma è una scelta che dentro di me sento azzardata, perché intravvedo alcuni pericoli di natura politica. Non è la mia fantasia a procurarmeli, ma il World Economic Forum, quell’annuale riunione dei potenti della terra che si tiene a Davos. Nei suoi comunicati non è difficile notare quanto alcune idee di mutamento dell’ordine delle cose, a cui peraltro siamo già abituati, si stiano imponendo, dal passaporto sanitario all’identità digitale, fino a quella visione distopica sintetizzata nell’espressione “great reset”, il grande ripristino, nella quale le nuove (rinnovate, potenziate, up-to-date) tecnologie dell’interconnessione, dell’informazione, dell’intrattenimento, del commercio avranno ovviamente un ruolo cruciale.

C’è nell’aria una qualche forma di ineluttabilità, tipica dei processi storici in atto: le multinazionali il mondo già lo governano, d’ora in poi saranno esse a decidere le sorti della comunità umana, senza incontrare resistenze statuali degne di rilievo. Una molteplicità di aziende private immensamente potenti, più ricche dei Pil degli stati nazionali, faranno (ma già lo fanno) cartello, con l’obiettivo di egemonizzare l’umanità nella sua interezza. Si tratta di uno sviluppo in corso da decenni e che ora, in questo momento storico, in questo atteso “dopo guerra”, appunto, deflagrerà.

È dagli anni Ottanta che sentiamo parlare di “turbocapitalismo”, da quando Margareth Thatcher diede il via alla deregulation e alla globalizzazione dei mercati finanziari, e che si distingue per l’alto grado di irresponsabilità nei confronti della gente e dell’ambiente. Molti temono, anche io, che non siamo che all’inizio di una nuova fase sociale e economica, quel “capitalismo della sorveglianza” così ben descritto da Shoshana Zuboff. E allora, quale più efficace menzogna se non descrivere le circostanze che stiamo vivendo come una “guerra”. E un “dopo guerra”, nel quale saremo invitati (o costretti) ad accettare un ancor più cogente controllo delle e sulle nostre esistenze, nel nome, questa volta, della salute di tutti.

La foto di Alan Kurdi

In Wikipedia, alla voce guerra, possiamo leggere: «Per guerra si intende un fenomeno sociale che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata, posta in essere fra gruppi organizzati. (…) Il termine deriverebbe dalla parola werran, dell’alto tedesco antico, che significa mischia. Nel diritto internazionale il termine è stato sostituito (…) dall’espressione conflitto armato».

Interessante. Chiamiamo guerra ciò che guerra non è, e alla guerra diamo un nome diverso, che in qualche misura ne altera l’originale, rendendolo meno angoscioso e più razionale.

Ricordate Alan Kurdi? La foto del suo cadaverino sul bagnasciuga? Aveva tre anni, era di etnia curda, e divenne il simbolo della crisi migratoria. Il mondo intero fu colto da un sentimento di solidarietà nei confronti dell’immane tragedia siriana, e di lì a poco in Germania sarebbero stati finalmente accolti centinaia di migliaia di profughi, in fuga dalla guerra e da privazioni intollerabili. Tutti abbiamo sofferto guardando quella terribile fotografia.

Ma c’è un breve video in YouTube che qui da noi, chissà perché, nessuno ha voluto o saputo guardare. L’ho trovato grazie a Russia Today. Spulciando nella rete alla fine ne ho trovata una versione più completa in un sito iraniano, e dove altrimenti? I nostri media, comunque sia, non se ne sono accorti.

È un bambino yemenita. Scalzo e spaventato. Il corpicino sporco di polvere e detriti. Maglietta e pantaloncini strappati, accasciato a terra. Abbraccia piangendo il corpo senza più vita del padre, un marcantonio sulla cinquantina, colpito da una scheggia.

Una bomba sganciata da un jet saudita, magari provvisto di proiettili made in Italy, aveva centrato in pieno un matrimonio. Un attimo prima erano tutti in festa. Un attimo dopo o erano morti o gravemente feriti. Intorno, cadaveri straziati. E pezzi di corpi sparsi ovunque. Una gamba, una gamba umana, camaleontica fra i rami di un albero. Ma è il pianto del bambino, le sue grida scorate, e quelle mani di adulto che lo accarezzano e cercano di portarlo via, di convincerlo ad andare via, via da lì, via da tutto, che ti fanno piangere, a dirotto, e all’istante.

Ecco, quella è la guerra.

Il problema della pace

È un uomo nel pieno delle sue forze che muore ammazzato, è l’orfano incredulo, che non può capire, è una forza disseminatrice di sofferenze, proveniente dal cielo (ha un ché di divino questa forza), tecnologia soverchiante e cieca, che distrugge ogni speranza, e che si nasconde nell’immensa perfidia del capitale finanziario, vero demiurgo dei nostri tempi, nel lavorio di funzionari ligi a ogni compromesso, al riparo da ogni pericolo, che non vedono e non sentono, non pensano e men che mai esprimono pensiero alcuno, e se ne stanno lì, al loro posto di lavoro, alla ricerca di un equilibrio vantaggioso nella determinazione del prezzo degli idrocarburi su scala globale, un po’ come il vecchio reduce nel geniale spot tedesco che, convinto d’essere in guerra, non si accorse che il problema, quello vero, non era la guerra.

Era la pace. Si, quella pace sociale che accomuna tutti i nostri egoismi, le nostre indifferenze, la nostra ignavia. Il benessere, simbolo supremo di concordia, ci ha reso ciechi. Non siamo più cittadini del mondo, e il mondo non ci riguarda più.

Assistiamo ogni giorno a manifestazioni, in tutta Europa, contro i coprifuoco. Il popolo vuole tornare all’aperto! Il popolo vuole sbarazzarsi delle mascherine e del distanziamento fisico, ma soprattutto il popolo vuole divertirsi. Si, divertirsi. Perché questo siamo diventati: ci sentiamo liberi solo all’ora dell’aperitivo. Il principio del piacere si è impadronito di ogni senso del dovere, ogni principio morale, ogni aspirazione o ambizione, ogni desiderio, anche il più intimo, e ci ha trasformati, chi più chi meno, in androidi dediti al consumo di beni e servizi.

Ma almeno smettiamola di scherzare con questa parola, “guerra”, e proviamo a tornare in noi, a un discorso pubblico sensato. Usciamo dal caos. Perché la guerra è in Libia, in Siria, in Irak, in Palestina, in Kurdistan, in Donbass, per citare quelle a noi più vicine, ma chi più ne ha più ne metta. Tutta farina del sacco dei nostri, non altrui, interessi economici e geopolitici.

Chi ci ha dato il diritto di bombardare la Libia e di uccidere Gheddafi, assassinato nel modo più barbaro immaginabile? La democrazia? La necessità di portare le libertà democratiche dove queste non hanno dimora? L’urgenza di difendere minoranze perseguitate? Niente di tutto ciò. La legge del più forte, la rapina, l’imperialismo neocoloniale, questo è il nostro diritto.

Si stima che le sole Guerre del Golfo, prima e seconda, abbiano causato due milioni di morti, giusto un po’ di più dei decessi per Covid in tutto il pianeta dall’inizio della pandemia. Ma in un solo paese. E a suon di bombe, nitrato d’ammonio, polvere di alluminio, fosforo bianco. I soldati iracheni in fuga dal Kuwait furono massacrati, e quelli che si inginocchiavano di fronte ai marines non stavano salutando il liberatore, erano terrorizzati. A Fallujah, è bene ricordarlo, non ci fu una battaglia, ma una strage.

Con l’Arabia Saudita, invece, il mondo intero fa a gara ad andarci d’accordo. Eppure non è una democrazia, è tutt’altro, ma tant’è, la sua forza economica, le sue riserve petrolifere, il suo ruolo di gendarme del medio oriente, finanche l’oramai verificato doppio gioco nel finanziamento dei tagliagole dello Stato islamico, fanno di quella monarchia assoluta, ovvero di quel sistema politico nel quale il monarca ha diritto di vita e di morte su tutti i suoi sudditi, un alleato geopoliticamente essenziale. Alla faccia dei nostri tanto sbandierati valori democratici.

E certo, è pur vero che il 22 dicembre scorso la commissione Esteri della Camera ha approvato una risoluzione che proroga la sospensione della vendita di armi ai sauditi, in scadenza a gennaio 2021, chiedendo al governo di adottare gli atti necessari per revocare tout-court le licenze in essere ma, come sottolinea la Rete pace e disarmo, per essere pienamente efficace l’obiettivo finale non può che essere un embargo europeo su tutti gli armamenti verso tutti gli attori del

conflitto in Yemen.

Speriamo che questo semplice obiettivo possa presto essere raggiunto e conseguentemente implementato, senza indugi. Nel frattempo continueremo, ne sono certo, a dire che siamo in guerra. Che magnifica mistificazione. Perché la guerra, quella vera, è nel pianto disperato di un bambino yemenita, che rivuole indietro non le serate ai Navigli o Trastevere, che prima o poi torneranno ad allietare le nostre esistenze, ma colui che più amava e che non tornerà. Mai più.


P.s.
In concomitanza con la Giornata mondiale della pace e con l’attracco ad Alessandria d’Egitto della prima delle due fregate Fremm, costruite da Fincantieri e vendute al regime dispotico e sanguinario di Al-Sisi, la famiglia Regeni ha fatto un esposto contro il governo italiano. Ha fatto bene.

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