Lupin è la serie francese che ha frantumato ogni record precedente di Netflix: 70 milioni di abbonati in tutto il mondo l’hanno vista nei primi 28 giorni di messa in onda, stando a quanto comunicato dalla piattaforma di Los Gatos, che ha un modo tutto suo per rendicontare le visualizzazioni e le preferenze degli utenti. Un successo che ha soppiantato quanto fatto registrare poche settimane prima da prodotti come Bridgerton o La regina degli scacchi e che dice molto del sistema Netflix nel suo complesso, della sua comunicazione e della sua capacità di macinare continuamente bolle di discorso e interesse, in una rincorsa continua di titoli e suggestioni che occupino stabilmente il dibattito pubblico.

La trama

Lupin di Georges Kay e François Uzan non è l’ennesima trasposizione dei racconti di Maurice Leblanc divenuti celebri a partire dai primi anni del ventesimo secolo; il protagonista non è il “ladro gentiluomo” uscito dalla penna dello scrittore, bensì un ordinario cittadino francese di origini senegalesi appassionato delle gesta di Arsène Lupin, alle quali si ispira per portare a termine un personale disegno di vendetta e giustizia.

Si chiama Assane Diop ed è interpretato da Omar Sy, in stato di grazia e in ascesa dopo il successo di Quasi amici; lavora come addetto alle pulizie al Louvre e presto intuisce che un’asta organizzata per mettere in vendita un collare appartenuto alla regina Maria Antonietta è l’occasione giusta per la messinscena di un furto.

In realtà, il suo piano ha un unico obiettivo: scoprire la verità sulla fine del padre Babakar, morto suicida in cella venticinque anni prima in seguito all’accusa di aver sottratto quello stesso collare dalla cassaforte della potente famiglia Pellegrini, presso cui prestava lavoro. Da qui prende il via un percorso tortuoso, quasi un giallo nel giallo che costringe Diop a scavare nel passato, a rivangare memorie e dolori, a ricostruire minuziosamente gli eventi che portarono alla morte del padre, grazie anche un uso costante del flashback.

Il suo obiettivo è Hubert Pellegrini (Hervè Pierre), magnate della finanza e dei media, capace di corrompere politici e commissari di polizia come il malcapitato Dumont, colui che aveva strappato Diop dalla strada al momento della scomparsa del padre consegnandolo ai servizi sociali.

Come il professore

La serie, prodotta dalla prestigiosa Gaumont, è un reboot atipico, una rivisitazione moderna che gioca burlescamente con i canoni di un personaggio universale, li ribalta e ci scherza confezionando una commedia elegante e grottesca, spensierata eppure terribilmente malinconica, antica nello schema e profondamente attuale nei messaggi. Assane si muove tra le pieghe di Parigi facendo perdere continuamente le tracce, affinando i travestimenti e inventando nuove sfide, giocando sull’anticipo per non lasciare prove, in fuga perenne dalla polizia e dai nemici come dal destino. L’Arsène Lupin di Leblanc era un borghese raffinato, con tuba e monocolo, ispirato però con ogni probabilità all’anarchico Alexandre Marius Jacob, un criminale gentile che si muoveva nella tumultuosa e radicalizzata Francia di fine Ottocento e primo Novecento.

Per i più giovani, Lupin ha invece le sembianze sgraziate, il sorriso beffardo e le basette del Lupin III del manga giapponese di Monkey Punch, reso poi ancora più popolare dal cartone animato e dall’ulteriore adattamento Lupin, l’incorreggibile Lupin, in onda anche in Italia con un esteso ciclo di vita. Qui, invece, il ladro gentiluomo è solo il modello che muove il progetto di Assane Diop e dà vita al suo agire; Lupin come ideale romantico, come meravigliosa e irraggiungibile utopia di un’emarginazione da banlieu che si scontra con le contraddizioni della contemporaneità.

Il giovane si carica del peso di un razzismo strisciante e apparentemente innocuo, quello che fa dire «non mi aspettavo uno come lei» a un uomo di colore che si presenta come facoltoso acquirente per rilevare il collier. Su questo sottile crinale, la serie solletica volutamente umori e convenzioni, ribaltando il background dell’originale per calarlo in una dimensione di disuguaglianza, smarrimento e riscatto.

Sfumano così anche i confini tra “guardie e ladri”, tra malvivente e detective; la serie inizia come un heist movie, con l’illustrazione di un piano nei minimi dettagli che, articolando i livelli temporali, rimanda inevitabilmente a La casa di carta. Lupin come il “professore”? “Lupo solitario” contrapposto al progetto collettivo della banda della serie spagnola? Di fatto, Lupin rimane quell’eroe globale a metà tra un Robin Hood e uno Sherlock Holmes, irresistibile e acuto.

Un omaggio indiretto

Diop indaga sulle malefatte di monsieur Pellegrini e della figlia Juliette con strabiliante precisione, mentre al contempo un giovane ispettore, Youssef Guedira, pare l’unico a scorgere nelle azioni del protagonista i legami con i racconti di Leblanc; ma Guedira non è Zenigata (il poliziotto del cartone animato), non deve solo indagare su Assane e arrestarlo, ne è anche colpito e affascinato, finisce per condividere con lui l’ossessione per Lupin e i suoi incredibili piani. In fondo, la serie è un omaggio indiretto alla matrice letteraria di Leblanc; i libri su Arsène Lupin rappresentano un legame generazionale, l’eredità del padre che Diop trasmette al figlio Raoul, con cui ha un rapporto discontinuo dopo la separazione dalla moglie Claire (Ludivine Sagnier, già vista in The Young Pope e The New Pope di Sorrentino).

Tra le pagine di Leblanc si nascondono codici, enigmi, soluzioni che aiutano Diop nella sua ricerca; distante nel profilo del protagonista, la serie è trasposizione fedele di alcuni romanzi e dei colpi in essi descritti, come Il collier della regina o Il viaggiatore misterioso.

I limiti

Il successo della serie non impedisce di rilevare i limiti di una regia spesso approssimativa e della scrittura di alcuni personaggi affrettati e sbrigativi, che lasciano Lupin sospesa al livello di un puro intrattenimento, largo e accessibile certo, ma un gradino sotto in termini di qualità rispetto ad altri titoli altisonanti del catalogo Netflix.

Anche la colonna sonora non pare particolarmente ricercata con hit immortali come I can see clearly now che escono da uno smart speaker tipo Alexa. Nel rapporto con opportunità e insidie della tecnologia sta un altro spunto interessante della serie; per le sue “indagini” e i suoi travestimenti, Diop attinge ai più svariati dispositivi, dai droni alle telecamere nascoste, ma anche a siti, app e social network sia per scovare informazioni che per creare falsi account quando necessari al piano.

E ancora, sperimenta il deep fake per incastrare il commissario corrotto, si traveste da rider di food delivery per attrarre una possibile “preda”, in un vorticoso vagabondare che sembra anche suonare come aperta riflessione sulle contraddizioni della post-verità e della “gig economy”.

Una genialità sfrontata che si scontra con i metodi tradizionali della giornalista vecchio stampo Fabienne Beriot (Anne Benoît), vecchia nemica dei Pellegrini che aiuta Diop nel quarto episodio, o del poliziotto Guedira che, seguendo le piste contenute nei racconti di Leblanc, riuscirà a bloccare il moderno Lupin sulla spiaggia di Étretat, luogo simbolo delle avventure del ladro gentiluomo e meta di pellegrinaggio dei suoi fan, in uno dei colpi di scena finali. I cinque episodi fin qui rilasciati sulla piattaforma sono l’antipasto di un prosieguo già annunciato e disponibile a breve, con una seconda parte le cui riprese sono state rallentate a causa dell’emergenza sanitaria. Non sappiamo quale altra diavoleria inventerà Diop-Lupin per sfuggire alla polizia e incastrare Pellegrini, ma nuove strepitose avventure dell’eroe «che anche quando perde, vince comunque», quelle sì, siamo certi che non mancheranno.

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