Ero tornata a Bari dai miei per qualche giorno per le vacanze estive, quando mio padre mi raccontò cos’era successo, una ventina d’anni prima, nel nostro cortile. Io stavo lavorando a una primissima bozza di quello che sarebbe diventato il mio primo romanzo, Devozione. Mi godevo il fresco sul balcone. Mio padre mi raggiunse fuori, feci una pausa e mi affacciai con lui.

Guardammo giù. Quanto tempo della mia infanzia e primissima adolescenza avevo passato in quel cortile. Ogni volta che torno a casa dei miei, ancora oggi, a guardare quel pezzo di asfalto con qualche alberello mi si stringe il cuore. Risento le voci di quando eravamo bambini. Risento il rumore dei nostri pattini, su e giù per il cortile. Risento l’odore di inizio giugno, quando la scuola era finita e l’estate era sterminata. Forse dissi proprio questo a mio padre, o meglio non proprio questo – non siamo tipi da lunghi discorsi, noi – ma qualcosa come: era bello giocare lì giù. E lui, allora, mi raccontò la storia.

Di una bambina scomparsa nel nostro cortile proprio quando la nostra famiglia si stava trasferendo in quel condominio di Japigia, un quartiere della periferia di Bari. Mi raccontò del dolore, dei sospetti, della paura, soprattutto: che il colpevole fosse nel recinto del nostro cortile, e che potesse tornare. Mi disse che non mi aveva mai raccontato quella storia perché non voleva che anche io mi spaventassi. Ma perché avrei dovuto spaventarmi? Quella tragica storia era successa quando avevo pochi mesi, e si era conclusa prima che io potessi anche solo lontanamente capire cosa stava succedendo. Allora perché a quattro, cinque, dieci, quindici anni, avrebbe dovuto farmi paura?

Perché faceva paura a loro. A tutti gli inquilini del nostro cortile. Perché, solo in quel momento ricollegai tanti strani episodi di quando ero piccola, dopo quell’evento nero successo nel piccolo angolo di pace che la gente di questo cortile si era ritagliato con fatica, la pace dal nostro cortile era fuggita per sempre. Anche quando la storia della bambina scomparsa era ormai lontanissima, il luogo in cui era accaduta ne portava il marchio. Non era più un posto sicuro. Perché, una volta che la realtà ti mostra il suo volto più mostruoso, non si può più tornare indietro. Ormai l’hai visto quel volto, e sai che può tornare. È come se nel luogo in cui un evento nero è accaduto, l’eco del dolore risuonasse per sempre.

Ecco perché, per tanti anni, i miei avevano sempre raccomandato a me e a mia sorella di non sparire mai dalla loro vista, quando eravamo in cortile. Ecco perché nessuno degli adulti lasciava mai soli i propri figli.

I tempi delle storie

Questa storia che era successa nel posto in cui ho vissuto per diciotto anni era successa anche a me, a casa mia, ai miei genitori. Pensai subito che volevo scriverne. Ma le storie hanno i loro tempi. A volte la mia testa le processa subito, trova una giusta collocazione agli eventi e all’invenzione, altre volte rimangono in un angolo. Io me le dimentico.

Poi un bel giorno mi tornano in mente. È il giorno in cui ho trovato la chiave con cui voglio raccontarle, il punto di vista da cui voglio affrontarle. Non ho mai scritto, finora, storie autobiografiche o realmente accadute. Ho preso sempre spunto dal reale, ho studiato il reale che volevo raccontare, e poi ho inventato. Quando ho capito da quale prospettiva volevo raccontare questa storia, è arrivato il momento.

Questo giorno che incombe è stato forse il mio romanzo più difficile da scrivere. Anzi, non tanto da scrivere, quanto da creare. Ho pensato a una donna, Francesca, una donna felice. Una donna che non pensava di avere ombre o lati oscuri dentro di sé. O che non li voleva vedere. Francesca, suo marito Massimo, le loro due figlie Angela, di cinque anni – Angela è il nome di mia madre e di mia sorella, in ogni mio romanzo c’è qualcuno che si chiama Angela o Angelica – ed Emma, di uno, sono una famiglia perfetta.

A Milano, dov’è nata e cresciuta, Francesca aveva un lavoro che amava e una vita che si era costruita perché fosse proprio quella che voleva. Quando Massimo le ha proposto di andare a vivere a Roma, lei ha accettato perché c’era una cosa che ancora non aveva fatto: dedicarsi al suo sogno, scrivere e illustrare un libro per bambini. E allora questo sarebbe stato un trasferimento perfetto: il momento giusto per lasciare il suo lavoro e sentirsi finalmente libera. Eppure quando Francesca mette per la prima volta la mano sul cancello rosso che la separa dal cortile in cui è custodito il suo nuovo condominio, qualcosa la punge. Il sangue rosso che sgorga dalla sua mano lei lo nasconde.

Come forse nasconde a sé stessa la sua parte buia, perché non vuole vederla. E allora, mentre pensavo a questa storia, mentre costruivo i suoi personaggi, pensavo: cosa succede a Francesca, se il suo diritto alla felicità viene minato da qualcosa che neanche lei sa riconoscere? Cosa succede se, per cause di forza maggiore, Francesca rimane prigioniera del condominio, del cortile che era convinta fosse il luogo in cui si sarebbe coronata la sua felicità? Cosa succede se le viene tolto tutto – il lavoro, il tempo, la possibilità di relazionarsi con degli adulti che conosce, la libertà, l’intimità con suo marito – tutto in un colpo? È vero che i luoghi possono essere oscuri? E un gruppo di persone – in questo caso, gli inquilini di questo apparentemente leggiadro condominio – può tingersi della stessa ombra del luogo in cui abita e diventare minaccioso? Se a una persona togli tutto, rimane solo l’istinto. E se l’istinto ti dicesse che la realtà è il tuo più grande nemico, e che devi combatterla a tutti i costi, anche con le armi più pericolose, perché o soccombono gli altri o soccombi tu: in quel caso, cosa faresti?

Essere liberi

I quattro anni che ho dedicato quasi esclusivamente a scrivere Questo giorno che incombe sono un ricordo allo stesso tempo bellissimo e difficilissimo. Avevo un contatto non solo con il reale, ma con la mia storia: ciò che era accaduto nel mio cortile. Avevo una protagonista: una donna che si ritrova a essere spogliata di tutto ciò che la rende un essere umano e a vedersi ridotta a un unico ruolo, una sola funzione, l’essere madre. Avevo delle bambine piccole, a volte dolcissime a volte spietate, come tutti i bambini. Avevo un marito improvvisamente assente. Avevo un condominio fatto di persone molto unite tra loro, ma anche sinistre. Avevo una voglia di libertà incredibile rinchiusa dentro il corpo e la mente di Francesca, una voglia incredibile di sacrificare tutto per essere libera, per sfuggire all’orrore della realtà quotidiana. Che è forse l’unico lato che io e Francesca condividiamo: un litigio interiore costante tra ciò che fai e ciò che vorresti fare, e ciò che fai e ciò che sicuramente hai sbagliato a fare.

Avevo una casa, unica compagnia di Francesca, sua nemica ma anche sua unica amica. Avevo un evento nero. Bene, ma rendere tutti questi ingredienti un romanzo, un romanzo che volevo tagliente, teso, ritmato, un romanzo che volevo ipnotico, un romanzo di cui volevo il lettore pensasse adesso che l’ho iniziato non posso lasciarlo, un romanzo in cui volevo che lo stile, la trama e i personaggi fossero al servizio gli uni degli altri; rendere vero tutto questo era difficilissimo.

A volte, sembrava impossibile.

A volte, sembrava inutile.

A volte, sembrava esaltante, una specie di scarica d’adrenalina infinita. Potevo sentirla zampillare.

Ma anche l’ansia di non farcela, anche il panico e lo scoramento zampillano.

Nella scrittura, non so distinguere il piacere dalla fatica, dalla paura di non farcela. Questi sentimenti sono sempre, tutti insieme, con me.

Questo romanzo ha anche un’altra cosa che mi riguarda: il passato non smette mai di braccarti. Non ci si può mai liberare del passato. Non si può mai davvero perdonare il passato. Il passato ti trova sempre, ovunque tu sia. Eppure, si può venire a patti col passato. Dire ok, è accaduto, ma io posso fare in modo che non accada più. Che l’eco del passato non continui ad accadere ancora oggi, nel mio presente e nel mio futuro, per sempre.

Questo romanzo, lo dicevo, è stato forse per me il più difficile da scrivere. Ma spero sia anche un romanzo che leggerete senza percepire mai il mio lavoro, il mio sudore, i miei giorni e le mie notti incollate al computer. Spero sia un romanzo di cui direte: sembra che si sia scritto da sé.

Antonella Lattanzi è autrice del libro Questo giorno che incombe, edito da HarperCollins

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