Il testo è un estratto dal nuovo romanzo di Michel Houellebecq, “Annientare”, edito in Italia da La nave di Teseo e in uscita il 7 gennaio 2022.


A livello razionale, Paul sa di essere nei locali del ministero, perché ha appena lasciato l’ufficio di Bruno; eppure non riconosce le pareti dell’ascensore. Sono di un metallo opaco e consumato, e quando schiaccia il tasto 0 cominciano a vibrare leggermente.

Il pavimento è di cemento sporco, coperto di rifiuti vari. Esistono cabine d’ascensore con il pavimento di cemento? Per sbaglio deve essere entrato in un montacarichi. Lo spazio è freddo, rigido, come se fosse sostenuto da invisibili sbarre metalliche senza le quali rischierebbe di crollare su se stesso come un palloncino bucato che si affloscia.

Sobbalzi

Con un lungo gemito metallico, la cabina si ferma al livello 0, ma le porte si rifiutano di aprirsi. Paul schiaccia di nuovo il tasto 0, più e più volte, ma le porte continuano a non muoversi, comincia a diventare preoccupante.

Dopo una breve esitazione, preme il pulsante della chiamata d’emergenza; è collegato al pronto intervento, attivo ventiquattr’ore su ventiquattro, almeno così è per gli ascensori normali, deve essere lo stesso per i montacarichi.

Immediatamente l’ascensore inizia a scendere di nuovo, stavolta a un ritmo molto accelerato, i numeri sul pannello di controllo scorrono a una velocità folle. Poi si arresta di botto, con un violento scossone che gli fa quasi perdere l’equilibrio: si trova al livello meno 62. Non aveva la più pallida idea che nel sottosuolo del ministero ci fossero sessantadue livelli, ma dopotutto non è da escludersi, non si era mai posto la domanda.

Questa volta le porte si aprono subito, senza intoppo: un corridoio di cemento grigio chiaro, quasi bianco, debolmente illuminato, si estende all’infinito davanti a lui. Il suo primo impulso è di uscire, ma poi cambia idea.

Rimanere nell’ascensore non è molto rassicurante, il suo funzionamento è palesemente difettoso. Ma può mai fermarsi al livello meno 62? Chi è che si ferma al livello meno 62? Il corridoio che si estende davanti a lui è vuoto, deserto, e dà tutta l’impressione di esserlo da tempo immemorabile. E se l’ascensore ripartisse senza di lui? E se rimanesse intrappolato al livello meno 62, fino a morirci di fame e di sete? Schiaccia di nuovo il tasto 0, e in quell’istante si rende conto che il livello meno 62, come tutti i livelli intermedi, non è presente sulla pulsantiera; non c’è nulla al di sotto del meno 4.

L’ascensore schizza immediatamente verso l’alto, stavolta a una velocità addirittura vertiginosa, i numeri si confondono, scorrono senza che abbia il tempo di distinguerli, riesce giusto a percepire, a un certo momento, che il segno meno sparisce. Poi l’ascensore si ferma con uno scossone enorme che lo scaraventa contro la parete di fondo; ci vuole una trentina di secondi prima che le vibrazioni della cabina si attutiscano; il tragitto, malgrado la brevità, gli è sembrato interminabile.

Ora si trova al livello 64. Stavolta è impossibile, assolutamente impossibile, gli edifici del ministero dell’Economia hanno avuto sempre e solo sei piani, di questo è assolutamente certo. Le porte si aprono di nuovo su un corridoio rivestito di moquette bianca, fiancheggiato da ampie vetrate; la luce è molto intensa, quasi abbagliante; una melodia d’organo elettrico, a tratti allegra, a tratti malinconica, si ode in lontananza.

Questa volta Paul non si muove, rimane assolutamente immobile per quasi un minuto. Trascorso questo lasso di tempo, il meccanismo si rimette in moto, come se premiasse la sua docilità: le porte si richiudono lentamente, poi la macchina inizia a scendere a un ritmo normale. Anche se i livelli che appaiono sul display (40, 30, 20...) non sono affatto presenti sul pannello di controllo, che non va al di là del livello 6, si susseguono con una rassicurante regolarità.

Poi l’ascensore si blocca al livello 0 e le porte si spalancano. Paul è salvo, o almeno così crede, ma quando esce dalla cabina si rende conto che non si trova affatto nei locali del ministero, ma in un luogo sconosciuto.

È un atrio immenso, il soffitto è alto perlomeno cinquanta metri. Si tratta di un centro commerciale, Paul ne è convinto, glielo dice l’intuito – sebbene non si veda nessun negozio. Si trova verosimilmente in una capitale dell’America Latina, pervade l’udito e sente una musica che conferma l’ipotesi del centro commerciale, oltretutto il brusio di voci attorno a lui sembra fatto di parole spagnole, dunque l’ipotesi di una capitale dell’America Latina acquista consistenza. Tuttavia i consumatori, piuttosto numerosi, che si incrociano nell’atrio non hanno affatto dei tratti latino-americani, non sembrano nemmeno esseri umani. I loro volti, di un pallore malsano, sono stranamente piatti, non hanno quasi naso.

Paul è colto dall’improvvisa certezza che le loro lingue siano lunghe, cilindriche e bifide, come quelle dei serpenti.

In quel momento cominciò a percepire una suoneria intermittente, breve ma sgradevole, che si ripeteva ogni quindici secondi. Non era una suoneria, ma piuttosto un bip di avvertimento, e si risvegliò di colpo comprendendo che si trattava del suo cellulare, che lo avvisava della presenza di un messaggio in segreteria.

La notizia

Il messaggio era di Madeleine, la compagna di suo padre. Gli aveva telefonato alle nove del mattino, adesso erano da poco passate le undici. La registrazione era a tratti incomprensibile, inframmezzata da singhiozzi, e con uno spaventoso baccano di traffico in sottofondo.

Paul riuscì comunque ad afferrare che suo padre era in coma, e che era stato trasportato all’ospedale Saint-Luc di Lione. Richiamò immediatamente. Madeleine rispose al primo squillo. Era un po’ più calma e riuscì a spiegargli che era stato colpito da un’ischemia cerebrale, si era alzato da poco, lei aveva preferito rimanere ancora qualche minuto a letto, finché non aveva sentito un rumore sordo proveniente dalla cucina. A quel punto si lamentò del tempo impiegato dall’ambulanza per arrivare, quasi mezz’ora.

Non c’era niente di strano in questo, suo padre abitava in piena campagna, in un paesino del Beaujolais di difficile accesso, una cinquantina di chilometri a nord di Lione. Non c’era niente di strano, ma poteva avere conseguenze molto gravi, era rimasto senza ossigeno per alcuni minuti, c’era il rischio che alcune aree del cervello fossero state danneggiate. Ogni tanto si interrompeva, sopraffatta da una nuova crisi di pianto.

Mentre le parlava Paul avviò una ricerca su Internet, il prossimo treno per Lione-Perrache era alle 12.59, non avrebbe avuto problemi a prenderlo, faceva anche in tempo a passare al ministero per dire due parole a Bruno, gli veniva di strada, subito dopo prenotò una camera al Sofitel di Lione, non sembrava lontano dall’ospedale Saint-Luc, poi riattaccò e si preparò l’essenziale per la notte.

Attese qualche secondo fuori dall’ufficio di Bruno.

«Sono in riunione con l’amministratore delegato della Renault...», annunciò Bruno, sporgendo metà del corpo attraverso la porta socchiusa. «È una cosa seria?».

«Si tratta di mio padre. È in coma. Vado a Lione».

«L’incontro è quasi terminato».

Mentre lo aspettava, Paul consultò vari siti di informazione medica su Internet. L’ischemia cerebrale era una forma di ictus – anzi, era di gran lunga la forma preponderante – e rappresentava l’ottanta per cento dei casi. La durata della privazione di ossigeno inflitta al cervello era un fattore essenziale per accertare l’aspettativa di vita.

«Ti spiegheranno che non sanno un granché, che non sono in grado di formulare una prognosi...», gli disse Bruno due minuti più tardi. «Purtroppo è vero. Potrebbe svegliarsi tra pochi giorni, ma potrebbe anche rimanere in questo stato molto più a lungo. Mio padre ha avuto un ictus l’anno scorso, è rimasto in coma per sei mesi».

«E poi?».

«Poi è morto».

Verso l’ospedale

LaPresse

La Gare de Lyon era insolitamente deserta, e Paul ebbe il tempo di comprare dei panini caldi e dei wrap, che masticò lentamente, mentre il treno attraversava a trecento chilometri orari la Borgogna sovrastata da un cielo plumbeo e impenetrabile.

Suo padre aveva settantasette anni, erano tanti ma non chissà che, un sacco di persone oggi superava quell’età; questo in effetti era un dato che giocava a favore della sua sopravvivenza, ma era più o meno l’unico. Fumatore abituale, amante dei salumi e dei vini corposi, poco propenso per quanto ne sapeva Paul all’esercizio fisico, aveva tutto quel che ci voleva per sviluppare una massiccia aterosclerosi.

Paul prese un taxi, ma il centro ospedaliero di Saint-Luc era ad appena cinque minuti dalla stazione di Perrache. Il traffico sul quai Claude Bernard, che costeggiava il Rodano, era estenuante, avrebbe fatto meglio ad andare a piedi.

I rettangoli di vetro colorato che componevano la facciata del Saint-Luc avevano senz’altro lo scopo di sollevare il morale delle famiglie, di suggerire l’idea di un ospedale dove si rideva, un ospedale Lego, un ospedale giocattolo. L’effetto non era stato raggiunto che molto parzialmente, il vetro qua e là era sporco e opaco, l’impressione di allegria dubbia; e comunque, appena entravi nei corridoi e nelle stanze, la presenza dei monitor di controllo e delle macchine per la ventilazione assistita ti riportava alla realtà. In quel posto non si veniva per divertirsi; si veniva, la maggior parte delle volte, per morire.

Il suo “papà”

«Sì, signor Raison, il suo papà è stato ricoverato questa mattina», gli disse l’impiegata dell’accettazione. La sua voce era melodiosa, un po’ soporifera, perfetta insomma. «Certo, può vederlo; ma la primaria gradirebbe prima dirle due parole. La avverto del suo arrivo».

La primaria era una donna brusca ed elegante sulla cinquantina, chiaramente di buona famiglia – si sentiva che era abituata a comandare e a cenare fuori, aveva degli orecchini da borghese, e Paul era sicuro che sotto il camice ospedaliero abbottonato in maniera impeccabile si celasse una sobria collana di perle – gli ricordava un po’ Prudence in realtà, o meglio quel che Prudence avrebbe potuto diventare, quel che era originariamente destinata a diventare; comunque si voglia interpretare l’informazione, non era una buona notizia. Recuperò la cartella clinica in meno di un minuto – almeno la sua scrivania era ordinata.

«Il suo papà è stato ricoverato in ospedale alle otto e diciassette di questa mattina». Diceva anche lei “papà”, era una cosa sconcertante, faceva parte delle disposizioni ufficiali infantilizzare i parenti stretti dei degenti? Paul aveva quasi cinquant’anni, era da un pezzo che non chiamava più suo padre “papà”, si chiese se lei chiamasse il suo “papà”, la cosa lo avrebbe stupito. Il problema era che non riusciva nemmeno a dire “Édouard”, come avrebbe fatto con un fratello o un amico della stessa generazione, insomma non sapeva più come rivolgersi a lui.

«Abbiamo predisposto subito una risonanza magnetica», continuò lei, «per localizzare l’arteria cerebrale coinvolta; poi abbiamo effettuato una trombolisi e una trombectomia, al fine di rimuovere il coagulo di sangue che la ostruiva. L’operazione è andata bene; sfortunatamente, un’emorragia secondaria è intervenuta a complicare la situazione».

«Pensa che ci sia qualche possibilità di recupero?».

«È normale che lei mi ponga questa domanda». Annuì soddisfatta; era evidente che apprezzava i pazienti normali, le famiglie normali e le domande normali. «Purtroppo sono costretta a risponderle che non lo sappiamo; la risonanza magnetica ci permette di identificare le aree che potrebbero essere state lese – in questo caso, si tratta del lobo fronto-parietale – ma non la gravità delle lesioni. Non ci sono altre procedure mediche da tentare; possiamo solo monitorare la situazione tenendo sotto controllo la pressione arteriosa e la glicemia. Il suo papà potrebbe recuperare un livello di coscienza alterato, o in certi casi addirittura normale; ma potrebbe anche regredire verso la morte cerebrale, tutto è possibile in questa fase. Bisogna essere ragionevoli...», concluse senza una vera necessità.

«Perché, c’è qualcuno che non è ragionevole, qui?», disse. Non era riuscito a trattenersi, quella donna cominciava a dargli un po’ sui nervi.

«Ebbene, devo dire che la compagna di suo padre... Le sue manifestazioni emotive, del tutto comprensibili naturalmente... A ogni modo, si è un po’ calmata da quando è arrivata sua sorella».

Quindi Cécile era lì; come aveva fatto, venendo da Arras? Contrariamente a lui, si alzava molto presto, e Madeleine doveva averla chiamata per prima, era andata fin da subito d’accordo con Cécile, mentre di lui aveva sempre avuto un po’ paura – forse perché era il primogenito, forse perché aveva un po’ paura di tutti.

«Un’ultima cosa...». Si era alzata in piedi per accompagnarlo alla porta. «Abbiamo dovuto mettere il suo papà in ventilazione artificiale, è indispensabile perché possa respirare, e so che a volte lo spettacolo della tracheotomia è un po’ traumatico per i familiari. Ma non è doloroso per lui, posso garantirle che non soffre affatto».

In effetti il suo “papà”, con un tubo conficcato nella gola e collegato a una grande macchina poggiata su rotelle il cui incessante ronzio riempiva la stanza, una flebo infilata nella piega del gomito e degli elettrodi fissati sul cranio e sul petto, gli parve spaventosamente vecchio e debole – a vederlo così, non gli si davano molte possibilità, aveva tutta l’aria di un moribondo.

Tra mistico e reale

Le due donne erano sedute una accanto all’altra in un angolo della stanza e davano l’impressione di non muoversi da ore. Madeleine fu la prima a vederlo, gli rivolse uno sguardo allo stesso tempo impaurito e sollevato, ma non osò alzarsi dalla sedia. Fu Cécile a venirgli incontro e stringerlo tra le braccia. Da quanto tempo non la vedeva?, si chiese. Sette anni, forse otto. Eppure non era lontana, Arras, meno di un’ora di tgv.

Era un po’ invecchiata: le era spuntato qualche capello bianco, ma si notava appena nella massa ancora abbondante dei capelli biondo chiaro. Anche il viso si era un po’ appesantito, ma i lineamenti erano ancora di una finezza estrema. Era una delle più belle ragazze del liceo, la sua sorellina, se ne ricordava benissimo, quasi non si contavano i ragazzi che le ronzavano attorno. Eppure era rimasta vergine fino al matrimonio, ne era sicuro, non sarebbe stata capace di nascondere una storia.

Già all’epoca era molto devota, andava a messa tutte le domeniche e partecipava alle attività nel cuore della notte per pisciare e si era sbagliato di porta, l’aveva sorpresa inginocchiata nella sua stanza, intenta a pregare. Ricordava di essersi sentito a disagio, come se l’avesse sorpresa con un ragazzo. Anche lei, del resto, sembrava un po’ imbarazzata, doveva avere sedici anni all’epoca, solo un po’ di tempo dopo aveva cominciato a rispondergli, ogni volta che era preoccupato per gli esami – e più di una volta gli era capitato, a ragione, di esserlo – «Intercederò per te con la Santa Vergine», con un tono di voce del tutto naturale, come se parlasse di una camicetta da ritirare in tintoria.

Paul non sapeva proprio dove l’avesse presa, quella tendenza mistica, era l’unico caso in famiglia. Aveva sposato un tipo come lei, in apparenza più equilibrato – un notaio di provincia in teoria è equilibrato, era sicuramente questo a ingannare in lui, perché in realtà, dopo due o tre minuti di conversazione, si avvertiva in lui qualcosa di intenso, si aveva l’impressione che avrebbe dato la vita per Cristo, o per una causa analoga, senza un attimo di esitazione.

Gli piacevano, pensava che fossero una bella coppia – molto più riuscita della sua, in ogni caso, per non parlare di suo fratello e di quella stronza presuntuosa della cognata.

«Stai bene? Non è troppo dura?», le chiese infine allentando la stretta del suo abbraccio.

«Certo, è durissima. Ma so che papà se la caverà. L’ho chiesto a Dio».


Michel Houellebecq è autore del libro Annientare, edito da La nave di Teseo e in uscita il 7 gennaio

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