La storia dell’arte è una miniera di aneddoti. La carrellata che segue è un viaggio nel tempo fatto di episodi spesso divertenti, talora seri, mai banali, sempre rivelatori di realtà complesse.

Il furto della Gioconda

Alle sette del mattino di lunedì 21 agosto 1911 – lunedì è tradizionalmente il giorno di chiusura dei musei – il decoratore e imbianchino italiano Vincenzo Peruggia, lavoratore precario del Louvre, esce dallo stanzino dove era nascosto, procede verso il Salon Carré al terzo piano del museo, stacca il dipinto dalla parete, si libera della cornice e del vetro protettivo, esce dal museo forzando una porta secondaria con un coltello, avvolge la Gioconda nella giacca e si allontana, indisturbato, per le strade di Parigi.

Il furto viene scoperto il giorno seguente. Il dipinto, per due anni, è introvabile. Nel 1913, Peruggia tenta di vendere la Gioconda alla Galleria degli Uffizi. Fissa un incontro con il direttore, che vuole vedere il dipinto, naturalmente capisce immediatamente che è l’opera di Leonardo e chiede di tenerla in custodia per esaminarla.

Il giorno dopo i carabinieri blindano il Peruggia. La sua strategia difensiva è astuta: il furto sarebbe una vendetta per le spoliazioni napoleoniche. L’idea era riportare un’opera universalmente nota nel suo paese d’origine, il suo è stato un gesto patriottico. La condanna è lieve, la voce popolare era favorevole al Peruggia e vivamente commossa dal suo eroico gesto. La pena viene ulteriormente ridotta e dopo sette mesi e qualche giorno il ladrone esce dal gabbio. Il dipinto ritorna in Francia. Ma la verità, secondo una credibile ipotesi, è diversa, oltre al fatto che la Monna Lisa non fu sottratta dal Bonaparte, ma portata in Francia nel 1516 dallo stesso Leonardo.

Il furto della Gioconda fu commissionato a Peruggia dal famoso e misterioso cittadino argentino Eduardo Valfierno, detto “el Marques”. A Buenos Aires, Valfierno e il restauratore Yves Chaudron – che gestivano un notevole traffico di falsi dipinti di Murillo, un vero e proprio Atelier – iniziarono a procurare opere su commissione, ossia rubate. Spesso, ai collezionisti rifilavano una copia.

A Valfierno non interessava la vera Gioconda, interessava la eco mediatica che il furto d’arte più famoso del tempo avrebbe generato e, conseguentemente, l’idea che lui avrebbe potuto recuperare il dipinto per vie criminali. Si calcola che Valfierno abbia venduto a sei collezionisti americani sei Gioconda, ovviamente spacciate per l’originale, con un fatturato che, attualizzato, ammonterebbe a quaranta milioni di euro.

Se gli incauti acquirenti avessero scoperto la truffa, e la scoprirono per il passo falso di Peruggia, comunque non avrebbero denunciato el Marques, che non correva alcun rischio: nessuno che acquisti un dipinto o un oggetto rubato denuncia il ladro, dato che denuncerebbe anche sé stesso.

Peruggia non conosceva il suo committente, che sparì totalmente dalla circolazione. Dopo due anni di silenzio tentò la maldestra vendita agli Uffizi. L’episodio è narrato da Stefan Koldenhoff e Tobias Tim in Art & Crime – Furti, plagi e misfatti nella storia dell’arte pubblicato da 24Ore Cultura. In Io Monna Lisa di Natasha Solomons pubblicato da Neri Pozza, la Gioconda racconta invece la sua storia in prima persona.

Naturalmente, alla notizia del furto, il 22 agosto del 1911 si scatenò l’inferno. Furono ipotizzati complotti delle consuete oscure potenze straniere (nella fattispecie gli austroungarici) e furono imprigionati, come gravemente sospetti, due giovani che presto sarebbero divenuti celeberrimi: Guillaume Apollinaire, allora trentenne e Pablo Picasso, trentenne pure lui.

La scarcerazione dei due fu rapida, i sospetti si concentrarono sui lavoranti del Louvre, Peruggia compreso, il cui tugurio fu perquisito senza successo (il dipinto era celato in uno scomparto segreto creato sotto l’unico tavolo dell’alloggio) ma, va detto, l’intuizione surrealista della occhiuta polizia francese (poco abile nella perquisizione, però) non fu scevra da una logica profetica, pensando alle non distanti, e stupende, provocazioni Dada e Surrealiste.

Dora Maar, Picasso e Apollinarie

Ed eccoci a Picasso, ad Apollinaire, a Dora Maar, la celebre musa del Minotauro (così si definiva e viene definito Picasso). Su Dora sono stati pubblicati numerosi libri: Dora Maar – Senza Picasso di Mary Ann Caws (Olivares Edizioni); Dora Maar – Nonostante Picasso a cura di Victoria Cumbalia Dexeus (Skira Editore); Schiava di Picasso di Osvaldo Guerrieri (Neri Pozza). Ed è in scena in questi giorni, alla Pinacoteca Agnelli, la mostra Pablo Picasso e Dora Maar – Un dialogo con Fondation Beyeler, a cura di Sarah Cosulich, Lucrezia Calabrò Visconti e Beatrice Zanelli (catalogo Corraini Edizioni).

Dora Maar è stata una grande artista e fotografa surrealista, ed è stata anche la principale Musa di Picasso. La loro tormentata relazione durò sette anni e terminò, in modo traumatico, nel 1943. I loro amici erano Man Ray, André Breton, Paul Eluard, Jean Cocteau, Brassaï e Jacques Lacan, che aiutò Dora Maar a superare il distacco dal Minotauro.

Nella piccola piazza Laurent Prache, accanto alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés, Parigi, si trova un monumento in ricordo di Guillaume Apollinaire, ucciso dalla influenza spagnola al termine della Grande Guerra, un cippo in marmo sormontato da una testa in bronzo. Ma la testa non è del poeta, è la testa di Dora, lavorata in gesso da Picasso nel 1941.

Picasso era intimo amico di Apollinaire, ed era terrorizzato dalla Morte. Quando fu invitato a realizzare un monumento in ricordo del poeta, fuse in bronzo la testa di Dora e, come lo scultore Aristide Maillol, orinò per alcuni giorni su uno dei quattro esemplari realizzati, al fine di creare un effetto di patina naturale. Non si trattò di uno scherzo o un imbroglio, anche se l’episodio ha un profumo decisamente surrealista, fu un triplo omaggio molto Dada: a un grande poeta, a un grande amico e a un grande amore.

Apollinaire, figura essenziale del movimento cubista e del movimento surrealista, coniò il termine “surrealista” per descrivere Le mammelle di Tiresia, dramma sospeso tra tragico e grottesco che andò in scena nel 1917. Non solo, Apollinaire fu il primo, nel 1912, a comprendere il talento di Giorgio de Chirico, i cui lavori furono base del Surrealismo e influenzarono a fondo le riflessioni sull’arte dei poeti e degli artisti del Movimento.

Il quadrato nero

Quando René Magritte vide il dipinto di de Chirico Canto d’Amore (1914), uno dei più belli dell’arte moderna (oggi al MoMa, New York), scoppiò in lacrime dicendo di avere visto, per la prima volta, rappresentato un pensiero. Non va dimenticato, a proposito di Magritte, che la donna, le donne, con il viso avvolto in una stoffa bianca, presenti in alcuni suoi capolavori, rimanderebbero alla madre dell’artista, trovata morta, annegata, con la testa avvolta nella camicia da notte.

Negli stessi anni, attorno al 1912-1914, Kazimir Malevič, con il suo leggendario quadrato nero e Vasilij Kandinskij gettano le basi dell’arte astratta. Il quadrato nero è la prima opera d’arte consapevolmente concettuale della storia. L’autore scrive: «Mi sono trasfigurato nello zero delle forme e sono andato al di là dello zero».

Tra i due viene ingaggiata una battaglia di date (molto diffusa nel campo) sulla primogenitura dell’arte astratta. Entrambi barano, ma il più immaginifico è Kandinskij, che diffonde una splendida storia: un giorno del 1909, osservando un suo acquerello figurativo, inavvertitamente capovolto dalla colf, e trovandolo incredibilmente bello e sfavillante di fuoco interiore, avrebbe esclamato: «Ora so esattamente che l’oggetto nuoce ai miei quadri». Kandinskij, da allora, inizia a sperimentare il distacco dalla figurazione. L’episodio, delicato e simbolico, lascia una impressione di invenzione ex post, per fondare nel mito, con un aneddoto significativo, il cambio di poetica di un genio. 

Le ricostruzioni ex post dei motori dell’ispirazione artistica sono frequenti nel mondo delle arti e ciò conduce nel fascinoso mondo dei falsari. Una vicenda straordinaria di uno dei falsari (scoperti) più famosi di sempre è quella dell’olandese Han van Meegeren.

I Vermeer di van Meegeren

Fanciulla che suona una cetra, un falso Johannes Vermeer dipinto da Han van Meegeren, 1930-1940 circa

Non molti possono vantarsi di avere truffato Hermann Göring. Ann van Meegeren – che era una persona sgradevole, razzista, iraconda e dedita alla morfina ­­– non raccontò volentieri di averlo fatto. Dopo la Liberazione però, Van Meegeren rischiava di finire impiccato per avere venduto Maria Maddalena che lava i piedi di Cristo di Vermeer all’altrettanto drogato luogotenente di Hitler.

Il Vermeer lo aveva dipinto lui. Arrestato come collaborazionista, rischiava la pena di morte. Una circostanza attenuante fu il fatto che aveva barattato il Vermeer con 137 opere fiamminghe, autentiche, sequestrate dai nazisti ed entrate nella gigantesca collezione di Göring. Con questo scambio Van Meegeren aveva inteso riportare le 137 opere trafugate nei musei del suo paese.

Ma per aver venduto un Vermeer lo aspettava il cappio. Terrorizzato, confessò: «Lo ho dipinto io, li ho dipinti tutti io: Discepoli a Emmaus di Vermeer, i Pieter de Hooch e i Frans Hals, la Maddalena … li ho dipinti tutti io». Non venne creduto, e a quel punto propose una dimostrazione live: dipingere un Vermeer di fronte a testimoni, un Gesù tra i Dottori.

Venne finalmente creduto e divenne un eroe nazionale, l’uomo che aveva raggirato Göring. La leggenda narra che, durante il processo di Norimberga, informato del fatto che il suo dipinto preferito era una crosta, il Reichsmarschall fosse rimasto profondamente colpito, come avesse scoperto il male del mondo, lui, che del male era stato una fetta non marginale.

I Beltracchi

Si calcola che con i propri falsi la coppia di coniugi Wolfgang e Helene Beltracchi possa avere incassato cifre stellari, comprese tra venti e quaranta milioni di dollari. Non realizzano copie ma opere originali accompagnate da una storia fittizia: fotografie truccate, falsi documenti, falsa corrispondenza, falsa bibliografia. I due hanno dipinto capolavori originali di Max Ernst, Fernand Léger, Leonardo, Cézanne, Picasso, Rembrandt.

Nel 2006 passa da Christie’s, in una importante asta di Impressionismo e Arte Moderna, il dipinto La Horde di Max Ernst, stimato per un valore tra i due milioni e mezzo e i tre milioni e mezzo di sterline. È una crosta bellissima, e finisce in copertina del catalogo. Il falso fu scoperto e diede il via ad una sequenza di sospetti e di controlli che avrebbe portato all’arresto dei Beltracchi.

L’episodio più straordinario, tuttavia, riguarda la certificazione di un falso Max Ernst che i Beltracchi chiesero a Werner Spies, ossia uno dei massimi storici dell’arte, un’autorità assoluta dell’opera di Ernst. Spies la certificò come originale. Helene Beltracchi sostenne che la moglie di Max Ernst, quando vide il dipinto oramai svelato come falso avrebbe detto: «Sarebbe potuto essere il quadro più bello che Max avesse mai dipinto».

I coniugi furono arrestati nel 2008 per un falso dipinto di Heinrich Campendonk, artista espressionista, componente non secondario del Blaue Reiter. Avevano usato un pigmento, il Bianco di Titanio, che nel 1914 non esisteva. Furono condannati a quattro anni di prigione e pesantemente multati. Wolfgang ammise di avere falsificato quattordici dipinti, ma si ipotizza che non meno di duecento magnifiche croste dei Beltracchi infestino musei, collezioni e gallerie private.

Nel 1997, Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum di New York, fece scandalo dichiarando che il 40 per cento delle opere del suo museo erano false. I falsi sono realmente ovunque e forse la stima è per difetto.

La burla di Bowie

Nel 1998 la casa editrice di David Bowie, la 21 Publishing, presenta, in un party nello studio di Jeff Koons, la monografia che lo scrittore William Boyd ha dedicato a Nat Tate, maestro dimenticato dell’Espressionismo Astratto americano: Nat Tate - An American Artist. 1928-1960. La biografia di Tate è drammatica, commovente. Nat beve in modo smodato, è perseguitato dal fantasma dell’abbandono paterno e dalla morte della madre. Nel 1959, dopo un viaggio in Europa e i cruciali incontri con Braque e Picasso, Nat, impressionato dalla qualità dell’arte europea e assai sconfortato, distrugge gran parte dei suoi lavori. Tate, imitando la morte dell’amato poeta Hart Crane, si suicida l’8 gennaio 1960, gettandosi nella baia di New York dal ferry di Staten Island.

Il libro di Boyd documenta la vita di Tate, con immagini, testimonianze, opere superstiti, lettere: Gore Vidal lo ricorda come dotato amante di Peggy Guggenheim, spesso brillo ma sempre elegante; sir John Richardson ricorda l’incontro tra Picasso e Tate, lui era presente, essendo il biografo inglese di Pablo Picasso.

Al party a casa-Koons c’è il meglio di New York: Julian Schnabel, Frank Stella, Paul Auster, Jay McInerney. Si sprecano le espressioni di dolore e sconforto di intellettuali, artisti e star, affranti per la terribile perdita e il colpevole oblio che ha colpito un genio. Ma Nat Tate non è mai esistito, il nome è una crasi tra National Gallery e Tate Gallery, Boyd e Bowie seminano indizi. Il party è fissato il primo aprile (il giorno del Pesce), la data del suicidio di Tate, 8 gennaio, è la data di nascita di Bowie. Ci cascano tutti, come pesci. Questa meravigliosa vicenda è narrata, appunto, nel volume di William Boyd recentemente tradotto in Italia dall’editore Neri Pozza.

Aby Warburg

Un ultimo ricordo di un grande storico dell’arte, forse il più grande, certamente il più influente: Aby Warburg. Ne Il rituale del Serpente (Adelphi Editore) Warburg spiega il potere psichico delle immagini, in grado di guarire e di ferire, riferendosi a una sua spedizione presso gli indiani Pueblo-Moki, nel Nuovo Messico.

I serpenti magici dei Pueblo e quello guaritore di Mosè si sovrappongono nella sua formidabile intuizione. È possibile che nel Nuovo Messico l’autore abbia ingerito qualche psichedelico naturale, prassi comune nei rituali dei nativi americani (“bottoni” del Cactus Peyote o Psilocibina, contenuta in alcuni funghi allucinogeni). Ma il fatto straordinario è che la conferenza dedicata al rituale dei Pueblo fu il saluto di addio, ai pazienti, e la dimostrazione, ai medici, della guarigione dal down nervoso che lo aveva portato al ricovero nella casa di cura di Kreuzlingen, in Svizzera.

Un genio assoluto. Suggeriamo la biografia che un altro peso massimo della storia dell’arte, Ernst Gombrich, gli ha dedicato: Aby Warburg – Una biografia intellettuale, edita da Abscondita.

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