A guardarli oggi il Canova e il Rosati, a Piazza del Popolo, fanno pensare a luoghi per turisti facoltosi, in questo tempo, in cui le ore d’oro durano ancor meno che in passato. Erano invece d’oro puro quando i due Caffè erano due punti nel centro del mondo («sono due ecosistemi che si guardano dagli estremi e si sfidano») e i demòni dostoevskijani del libro di Andrea Pomella, Vite nell’oro e nel blu, vivevano e conquistavano Roma. Angeli, Festa, Lo Savio e Schifano («Si fatica a trovare un nome che li identifichi. Qualcuno ha provato con “Nuova scuola romana”») sedevano a quei tavoli («Li trovi in piazza grande, come i vecchi del paese»). La loro ora d’oro l’hanno vista tutti: un lampo di luce accecante. Si sono presi ogni cosa: le donne e i palazzi più belli; la fama, anche oltreoceano; le parole più ambite dei critici («Emilio Villa ne dice meraviglie e chi se ne intende capisce subito che il ragazzo libico ha la stoffa per far saltare il banco dell’arte romana»). Hanno fatto il botto – un po’ tutti – con quel che ne consegue («Perché a Roma l’espressione fare il botto può avere due accezioni»), dopo aver frequentato l’Olimpo con Warhol, Ungaretti, gli Stones.

L’esplosione del talento, come la sfacciataggine della bellezza, è seguita – di frequente – dall’ora blu, quella che volge alla notte, e segue lo sfumato del crepuscolo fino a farsi nera. Pomella racconta una fiaba spietata dalla testa bifronte che guarda da un lato all’oro, dall’altro al blu: dalle terrazze diventate atelier e microcosmi, dagli amori e dai pericoli, dalle auto di lusso ridotte a rottami, ferraglia come la possibilità di inquadrarsi in un ruolo diverso in quella fetta di società in cui son caduti come cade un meteorite: facendo prima grande luce e impattandosi, poi, con uno schianto reboante («solo chi ha molta immaginazione riesce a rintracciare nella sua figura il puma sgattaiolante che un tempo ammaliava Roma»).

Un busto di Dante guarda, impolverato, la Roma presente dalla vetrina di un restauratore all’incrocio tra Via di Ripetta e Via del Vantaggio: svetta solenne – per quanto si possa restare solenni in simili condizioni – tra una Gioconda e un Gesù Cristo, su una mensola che sovrasta variopinte figure femminili e bassotti in ceramica. Si sente fantasma anche lui: malridotto, fuori contesto, o – forse – Dante non ha mai bisogno di contesti, è sempre un numero dieci, anche «meglio de Totti».

Come insegna un professore di una scuola romana lontana da quella vetrina un’ora di macchina («sopra l’ultima curva che la separa dal resto, indecisa se tuffarsi o meno nell’arteria che porta verso l’altro mondo, il centro del mondo, il mondo della Capitale»): è una distanza siderale, eppure è la stessa città.

La periferia

Solo un’altra faccia: la racconta Emiliano Sbaraglia, nel suo Leggere Dante a Tor Bella Monaca: Roma è una e trina e dalla vetrina alla scuola, si salta dal Paradiso all’Inferno. Lo sa chi ci vive e lo sa chi ci insegna che impara, col tempo, a comprendere e amare quel posto («Questa strada è fatta così, inferno e paradiso, inferno o paradiso»). Con passione, Sbaraglia racconta di come sia possibile muoversi con le parole («Questo è il bello, e questo si dovrebbe provare a insegnare agli studenti: il modo in cui la lettura può condurti verso qualcosa di sconosciuto che vale la pena conoscere, facendoti compagnia e aiutandoti a crescere meglio») e che la padronanza della lingua è, prima di ogni altra cosa, un dovere privato e individuale che tutto move.

I suoi ragazzi, in fondo, non è dato sapere se siano troppo diversi da quei giovani comunisti che guardavano in cagnesco la luce calda di una città che rifioriva dalle macerie di una guerra («Il valore sta nell’attimo, nella velocità. Se dipingo un minuto di più la pittura se fracica») che vivevano sin dall’infanzia («Vince il primo che arriva al traguardo di Piazza del Popolo con le ossa ancora intatte»). Non sono troppo diversi perché fra le tante vie – più o meno rette – che vedono di fronte a sé sanno che lo scarto è ridotto, forse spietato, e perlopiù si sta nel Purgatorio («Chi vorrebbe fare della sua vita un’opera d’arte e chi la prende come viene, come verrà, “tanto alla fine nun cambia niente”»).

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