Più antica della fondazione d’Italia è la produzione della pasta, che nell’Ottocento comincia a imporre il suo marchio nel mondo. È un made in Italy ante litteram che muove i suoi primi passi grazie a un’alleanza commerciale di terre lontane, che riuscivano a prosperare per mutua cooperazione. Come quella con Taganrog
Nei cieli della città ora ci sono esplosioni e scintille, missili e droni della guerra che si combatte tra russi e ucraini. Il nome del centro portuale nell’oblast’ di Rostov oggi nessuno se lo ricorda più, anche se tra le sue strade è passata la storia della cucina italiana. E anche quella dell’Italia intera. Quella città è Taganrog.
Il prodotto italiano, il più italiano di tutti – la pasta – e l’eroe italiano, il più italiano di tutti – Garibaldi – si sono incontrati tanto tempo fa in quella baia sul mar d’Azov, da sempre contesa e ancora oggi sotto fuoco.
Pasta preunitaria
Più antica della fondazione d’Italia è la produzione della pasta, che nell’Ottocento comincia a imporre il suo marchio nel mondo. È un made in Italy ante litteram che muove i suoi primi passi grazie a un’alleanza commerciale di terre lontane, che riuscivano a prosperare per mutua cooperazione. La pastificazione italiana riusciva a eccellere soprattutto grazie a un cereale russo che arrivava coi piroscafi, attraverso il mar Nero, fino alle coste meridionali dello Stivale.
Ne erano convinti già i borbonici che non si poteva fare pasta prelibata senza grano degli zar, che, nella storia della nostra cucina, non è un intruso, una comparsa casuale: piuttosto è componente primario, collante. Il 70 per cento (per altre fonti, oltre l’80 per cento) del grano usato dai pastai dell’epoca era proprio quello delle spighe slave seminate al freddo, coltivate al gelo, poi lavorate al sole italiano. Ovunque, ma specialmente nelle capitali napoletane della pasta, Torre Annunziata e Gragnano, cominciarono a chiamare quel particolare tipo di frumento duro come la città da cui veniva: taganrog.
Impareggiabile per economicità, resistenza, qualità, sapore e capacità di conservazione: è l’oro panslavo che gli italiani sanno far diventare prelibatezza. Tagliati in lunghi fili, poi stesi su pali di legno per essere essiccati e trasportati su bastimenti verso altre coste che cominciavano a inebriarsi di quel gusto, gli spaghetti cominciano a trasformarsi in quegli anni nelle colonne sottilissime di una leggenda duratura, a diventare i migliori ambasciatori del paese nel mondo. Senza taganrog, non sarebbe lievitato da un oceano all’altro il mito della pasta italiana; senza Taganrog – si può scrivere esagerando, perché non sappiamo come sarebbe andata altrimenti – non ci sarebbe stata nemmeno l’Italia. Letteralmente.
Il filo di questa storia è lungo. Taganrog, città natale di Anton Chekhov, è stata assediata durante la Guerra di Crimea nel 1855; è diventata capitale temporanea della repubblica sovietica d’Ucraina nel 1918; nel 1941, quando la svastica impera nella Seconda guerra mondiale, viene occupata dai nazisti.
Prima ancora – molto prima, nel XIII secolo – c’erano già arrivati i pisani a fondare una colonia nella zona dove Pietro il grande, lo zar innamorato dell’Europa e delle flotte, fondò nel 1698 la prima base navale del suo impero. Taganrog è una superstite, ma di quelle martiri dimenticate e relegate nell’oblio anche dai manuali scolastici. Però ai russi piace terribilmente rivendicare che ha cambiato la storia della pasta, una pasta che ha fatto anche l’Italia unita. «Sapevi che l’unificazione d’Italia ha avuto inizio sull’Azov?» è scritto in tutte le guide, articoli e reportage che riguardano Taganrog.
Il soggiorno di Garibaldi
Come la pasta, all’epoca, viaggiava Garibaldi ed è in quell’angolo dell’impero russo che si innamora dell’idea di una sola Italia. Tra arrembaggi e cabotaggi, nel 1833 il capitano si ammala: con la sua goletta Clorinda, carica di arance, è costretto a una tappa imprevista nel golfo d’Azov, dove certi italiani abitavano da un pezzo. Alcuni perché commercianti, altri perché fuggiaschi, perseguitati politici.
È ancora solo uomo di mare e non d’azione, quando si siede al tavolo di una locanda di Taganrog e incontra quello che nei suoi diari chiama solo “Il Credente” (gli storici credono si tratti di Giovanni Battista Cuneo). Guarisce dal suo malore, ma viene contagiato dalle idee mazziniane e si converte alla causa della Giovine Italia. Tra quei chicchi di grano viene piantato il seme dell’idea che fiorirà nella testa dell’eroe riccioluto, sempre pronto a gettarsi tra le onde e tra le fauci delle rivoluzioni.
Quell’incontro a Taganrog gli cambia per sempre la vita: «Certo non provò Colombo tanta soddisfazione alla scoperta dell’America» ha scritto nelle sue memorie l’eroe dei due mondi che il suo Nuovo Mondo – che all’epoca nemmeno esisteva – lo immaginò per la prima volta lì, nel porto del grano amato dai pastai. È lì che si accende l’iskra, la scintilla, che porterà quel rivoluzionario ancora dilettante a organizzare poi la Spedizione dei Mille.
Oggi nella città una statua di Garibaldi sorge proprio nel punto dove aveva ormeggiato il suo veliero. A inaugurare il monumento sono stati i sovietici nel 1961 per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia, in piena Guerra fredda. Spiega la targa sul marmo: «Mentre si trovava a Taganrog, Garibaldi giurò di consacrare la sua vita alla causa della liberazione e riunificazione della patria».
La fine del commercio
Ieri c’era la cortina di ferro, oggi c’è una cortina di sanzioni contro la Russia per l’aggressione all’Ucraina. Quella a cui abbiamo assistito negli ultimi anni non è la prima guerra del grano che blocca il cereale che, dalle coste slave, da sempre naviga verso molteplici sud. Le guerre gli stomaci li svuotano da sempre; ma grano e pasta, acrobati delle rotte, hanno sempre trovato un modo per saper finire in tavola.
I traffici di taganrog da Taganrog verso le coste del meridione italiano si interromperanno più o meno quando in Russia arriva Lenin, esplode la rivoluzione rossa nelle strade, carestia nelle cucine di Mosca e dintorni, carenza nei depositi dei pastai napoletani. Il mare diventa fermo, l’orizzonte piatto. Campania e provincia sono lasciate a secco dal mar d’Azov. La pasta comincerà a partire e tornare per altri porti e direzioni, ma quegli scambi commerciali e culturali qualcosa sulle sponde del popolo che parla e scrive in cirillico l’hanno lasciato per sempre.
Se gli italiani il grano lo chiamavano proprio come la città russa da cui arrivava, i russi, da allora, la pasta (di tutti i tipi) la cominciarono a chiamare con una parola italiana: makarony, maccheroni. Una delle ricette più sovietiche di tutte, che trovi poco nei ristoranti e mense, ma in abbondanza nei ricordi e nelle cucine delle case, è makarony po flotsky, “pasta alla marina militare”.
Un giorno i marinai della corazzata Gangut, dopo aver faticato un’intera giornata, nel piatto si ritrovarono kasha (cereale simile all’orzo) e non gli anelati makarony e per questo si ammutinarono. Era il 1915, la terra russa era una pentola a pressione che stava per esplodere di rivolte. Anche se questa leggenda è vaga quanto la declinazione della ricetta po flotsky – che comprende sempre gli stessi ingredienti (pasta, carne, cipolla, pepe) – testimonia comunque che non è solo la storia a fare la pasta, ma anche la pasta a volte a fare la storia. E che, da una latitudine all’altra, le rivoluzioni sono spesso finite sul fondo di un piatto che è meglio non lasciar vuoto di spaghetti.
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