Non è stato un incidente, come hanno scritto tutti.

Mi ci sono buttato. Mi ci sono buttato volontariamente.

Mia moglie stava morendo.

Sempre insieme: gioia, dolore, salute, malattia.

Avrei fatto qualsiasi cosa per salvarla.

Quella che i giornali italiani e stranieri hanno pubblicato il 20 agosto del 2018 è solo una parte della storia.

Questa… questa è la verità.

Strada sbarrata

1970, Roccalbegna (Grosseto).

Il bambino che, pantaloncini corti, esce di casa e scappa in mezzo ai campi sono io. L’uomo che, cinta in mano, lo insegue imprecando è mio padre. Non ricordo, di preciso, il motivo per cui quel giorno ce l’avesse con me. Ogni volta ne trovava uno diverso ma il finale era sempre lo stesso: mi riempiva di botte.

Grosseto, tre anni dopo.

Stesso ragazzino, che piange disperato davanti ai quadri con i risultati dell’esame di terza media.

Stessi pantaloncini corti, ora molto più lisi e corti.

Madri dei compagni che si avvicinano, convinte di dovermi consolare per una bocciatura, accanto al mio nome leggono “Eccellente”. Nella mia classe solo io e il figlio del notaio abbiamo avuto quel giudizio. Gli altri ragazzini parlano delle vacanze… mare, montagna, viaggi all’estero… e della scuola che li accoglierà al ritorno: liceo classico, scientifico, «non ho voglia di studiare, mi sono iscritto alle professionali».

Io che, invece, sui libri vorrei passarci ancora anni e che, pur di studiare, sarei disposto a iscrivermi a qualsiasi tipo di scuola superiore, purtroppo mi troverò la strada sbarrata da mio padre.

«Ora che ci siamo levati dalle palle anche la scuola media, hai finito con la vita da signorino che il governo, porco e ladro, fino ad oggi mi ha obbligato a farti fare. Da domani ti alzi anche tu alle cinque di mattina e vieni con me in campagna a lavorare!».

Fuggire

1975. 15 anni.

Quella che, spaventato ma determinato, vedo scorrere nel finestrino non so se è ancora Toscana o già Emilia Romagna. Alla stazione di Grosseto sono salito sul primo treno per Milano.

Morta mia madre (e con lei il bisogno di rimanere a casa per proteggerla dagli insulti e dalle botte di mio padre), non ho più nessun motivo di restare a Roccalbegna. Jeans, scarpe da tennis e giubbotto, nello zainetto una sciarpa, due paia di calzini e due mutande.

Qualsiasi cosa sarà meglio di quello che mi lascio dietro.

Sesto San Giovanni (MI).

Lui è Pasquale, napoletano di Forcella, emigrato nel 1959 a Sesto per non fare da manovale alla camorra.

Quindici anni alla catena di montaggio. La sera lavapiatti in una trattoria. Stipendio mandato a casa ogni mese con il vaglia. In tasca soldi contati per cibo e sigarette. I doveri coniugali espletati unicamente ad agosto. Un figlio ogni due anni, sette in tutto.

Il sogno di aprire una pizzeria. Il sogno di farsi raggiungere dalla moglie e dai bambini.

La nostalgia che fa fare i conti con le dita: tot per l’affitto del locale, tot per comprare un forno a legna, tot per sedie e tavoli spaiati (ricomprati da uno che chiudeva), tot per un appartamento di due camere e cucina. Sogni finalmente realizzati.

All’inizio ho vagabondato intorno alla stazione, tentando – senza esserne capace – anche un paio di borseggi, dormendo per terra, sopravvivendo con gli avanzi dei banchi di frutta e verdura dei mercati generali.

Poi ho cominciato a entrare in ristoranti o pizzerie, chiedendo se potevo pulire i vetri o il pavimento in cambio di qualcosa da mangiare.

Il 12 settembre la pizzeria in cui sono entrato è quella di Pasquale.

«Guagliò, come ti chiami, quanti anni tieni?».

«Pietro, 15 anni».

«Mado’, tiene la stessa età di Salvo nostro ed è secco la metà. Pasquale, sbrigati. Fagli una margherita!».

Così Rosa e Pasquale hanno concepito il loro ottavo figlio.

In quella pizzeria ho portato la legna e i sacchi di farina, lavato i piatti e i pavimenti. In quella pizzeria ho pure dormito, sdraiato a fianco al forno che – fino alle quattro di mattina – rimaneva caldo.

Nuova vita

1978.

Seduto a prendere il tè con la madre superiora e circondato da altre venti suore, che portano crostate e ciambelloni fatti in casa, mi regalano immaginette di Santa Brigida e rosari benedetti, accarezzano i capelli di Lucia ricordando quanto fosse brava e intelligente da bambina. Mi sento sotto esame e non riesco a dire una parola.

È stata la mia fidanzata a portarmi nella tana delle tonache. Orfana allevata nel convento, quella è la sua famiglia e, ora che stiamo pensando di sposarci, me la vuole presentare. Lucia l’ho conosciuta perché avevo bisogno di far rivoltare il colletto a una camicia. Lavorava come apprendista sarta in un laboratorio della zona.

Magra e senza trucco, sempre gonna a pieghe e camicetta abbottonata fino al collo, mi aveva incuriosito.

2016, Roccalbegna.

Alla morte di mio padre ho ereditato il casolare in cui sono cresciuto e abbiamo deciso di venirci ad abitare.

Sapevo che affrontare i brutti ricordi non sarebbe stato facile (quel bastardo picchiava con la cinta me e mia madre, si divertiva ogni giorno a farci piangere) ma ero sicuro che, con Lucia accanto, ci sarei riuscito.

Due anni di vita tranquilla e felice.

Poi Lucia comincia a non star bene.

Malattia

Analisi del sangue, visite mediche, risonanze, PET.

Glioblastoma Mitocondriale. La forma più grave di cancro al cervello.

Operazione.

Radio e chemioterapia.

La vedo prima dimagrire e poi gonfiarsi per il cortisone.

Cerco in rete dei consigli. Trovo terapie sperimentali che sembrano efficaci: una fiala a settimana, ogni fiala più di cento euro. Tutti i risparmi li abbiamo investiti nella ristrutturazione del casale. Devo trovare in fretta i soldi.

Potrei farmi investire da una macchina e riscuotere l’assicurazione, ma è rischioso: se io muoio o mi faccio molto male, chi accudirà Lucia quando starà peggio?

Scale, ponteggi, buche, semafori: il mio cervello esamina il mondo in chiave infortunistica.

Le cause di possibili incidenti sono illimitate, a frenarmi è però il fatto che non avrei il pieno controllo della situazione.

Passo altre settimane illeso, ma sempre più disperato.

Lucia, da sempre devota alla Madonna di Fatima, mi propone un pellegrinaggio.

Durante il volo verso il Portogallo, sfogliando la rivista di bordo, vedo la foto di quel buco.

È perfetto. Esattamente quello che stavo cercando.

Diametro un metro e ottanta, profondità due metri e mezzo: posso rompermi una gamba, un braccio oppure tutt’e due ma – se sto attento a come cado – di certo non resterò paralizzato. Minimo danno, massimo profitto: decine di migliaia di euro di indennizzo da investire nelle cure di Lucia.

La soluzione ai nostri problemi è un’opera dell’artista britannico Anish Kapoor, che si intitola Discesa nel limbo. Si tratta di un grosso buco al centro del pavimento, in una sala del Museo Serralves di Porto (meno di duecento chilometri da Fatima).

A Lucia non dico niente del mio piano. So che non approverebbe.

Fatima: accendiamo candele, recitiamo rosari, percorriamo in ginocchio i cento metri del piazzale.

Dopo tre giorni di preghiera, convinco Lucia a prendercene uno di vacanza.

Porto è bellissima: i musei, il vecchio borgo medievale, i ristorantini sul mare, la Cattedrale dell’Assunta, c’è una Madonna antica e venerata anche lì dentro, non possiamo non andarci.

Museo Serralves

Il fatto che intorno all’opera non ci siano protezioni è una grave e colpevole omissione che rafforza la mia speranza di un congruo risarcimento.

Lascio agli altri visitatori il tempo di ammirare l’opera.

Solo quando si dirigono verso la sala successiva i miei piedi si avvicinano ai bordi.

Devo essere veloce, per evitare che gli addetti provino a fermarmi, ma al tempo stesso non apparire troppo determinato per fugare, agli occhi delle quattro videocamere, eventuali sospetti di premeditazione.

Prendo un respiro. La punta delle mie scarpe è già in bilico nel vuoto.

Altro respiro. Un altro ancora. Mentre penso alla posizione da assumere durante la caduta: inclinato su un fianco, facendo attenzione a non sbattere la testa.

Ultimo respiro. Cado nel buco.

Dall’assicurazione del museo ho ottenuto un indennizzo di 40mila euro.

I soldi, però, non sono serviti a molto.

Mi manchi, amore mio.

Lucia Colombo

Milano, 6 dicembre 1963 - Roccalbegna (GR), 2 febbraio 2022.

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