È il 1985 quando, in Indiana, quattro ragazzine suonano il campanello di un’anziana signora, un’insegnante di Bibbia. Entrano, con la scusa di voler chiedere alcune informazioni sui suoi corsi e poi escono lasciandola morta nella sua abitazione.

Paula Cooper – ha 15 anni, è ancora una bambina – sale a cavalcioni sulla povera Ruth Pelke e, senza alcun motivo, affonda dentro il suo corpo, per trenta volte, un coltello da macellaio. La signora riesce ancora a parlare, le sussurra «Se lo farai, te ne pentirai», è una donna di chiesa.

Le coltellate

Paula è esausta, ma vuole che Ruth muoia, soprattutto desidera che quell’omicidio, quel gioco, sigilli un patto tra lei e le sue amiche. Chiede a Denise, che di anni ne ha solo 14, di continuare l’opera, «tieni il coltello» le ordina, ma la bambina non se la sente. Sarà Karen, che di anni ne ha 16, a sferrare il colpo finale.

Prima prende un asciugamano e la posa sul viso della signora, non riesce a guardarla; quindi, cancellato lo sguardo moribondo che tormenta la sua coscienza (se ne ha una), si siede sulle sue gambe e affonda la lama. È un momento che racconta, con grande crudezza, la scrittrice Alex Mar nel suo libro Settanta volte sette (Il pellegrino, 2024), quando scrive che «Karen era rimasta accovacciata sulla signora Pelke, tenendo in mano la lama.

Erano passati circa quindici minuti, quando decise di provare se si potesse spingerla più a fondo. La premette verso il basso, attraverso il petto della donna, finché la punta non uscì dall’altra parte, dalla schiena... Fece oscillare il manico del coltello da un lato all’altro, notando che la punta risultava ben fissa. Ruth era inchiodata sul pavimento della sala da pranzo come una farfalla appuntata su una tela».

Le altre due ragazze, April e Denise, non pugnalano, ma sono complici: ingannano, guardano, frugano, rubano, rovesciano le foto dei nipoti di Ruth. Il coltello non lo maneggiano solo per mancanza di coraggio, non è la pena a fermarle.

Le confessioni

Tutte e quattro sono sempre delle bambine quando vengono arrestate. Che siano loro le colpevoli non v’è alcun dubbio: una di loro ha perduto una ricetta medica sulla scena del crimine, viene il coltello con cui è stato tramortita la signora Pelke e, soprattutto, le ragazze confessano, nessuna ha la forza di tenersi dentro quell’orrore.

Il sentimento che prevale in loro non è la colpa, ma la paura, la rabbia, a volte la vergogna.

Una volta in carcere, Paula indirizza a una guardia queste parole: «Sì, ho accoltellato una vecchia. Lo farei di nuovo, a quella puttana. Colpirei anche la tua nonna del cazzo». Mentre il mondo intero discute sull’opportunità della sua condanna a morte, Paula urla: «Datemi la sedia elettrica, datemi quella scossa. Voglio morire». Durante l’interrogatorio, racconta ogni cosa, chiede solo di non essere osservata mentre parla, lo sguardo di chi l’ascolta renderebbe vero ciò che ha fatto, materializzerebbe, di fronte ai suoi occhi, un’auto-immagine mostruosa che non ha il coraggio di guardare sino in fondo.

Anche Karen, a suo modo, compie la stessa operazione. Lei si mostra, ma con le parole costruisce una realtà più accettabile, un’immagine più morbida di sé e della propria furia.

Alla domanda dei detective «Hai colpito la signora dopo aver afferrato il coltello?» risponde «No. L’ho solo spinto un po’ dentro», come se ridurre la sua azione a uno “spingere” tra le carni sia, in fondo, più decente e tollerabile dell’ammettere un ineluttabile colpo a morte. Cambiano le parole, non i fatti, cambia il modo in cui vengono nominate le cose e Karen ci tiene a quella sua più docile narrazione.

«Perché hai spinto il coltello?», la incalza il detective. Karen risponde: «Per vedere fino a che punto sarebbe penetrato». E quando chi interroga fa un ulteriore tentativo per portare la ragazza ad ammettere che tra il colpo sferzato dal suo polso e la morte della vittima vi è un innegabile nesso, lei, di nuovo, replica come se i propri atti e le loro conseguenze siano una sfilza casuale – non causale – di eventi: l’ho tenuto dentro per una decina-quindicina di minuti, poi è morta. Ho visto che il suo stomaco non si muoveva più.

La condanna a morte

Perché?, è la domanda di una comunità che non riesce a spiegarsi quell’abominio. Si parla di una rapina, eppure è la gratuità a rappresentare il fatto più agghiacciante di questa storia: le piccole assassine rubano qualcosa, dieci dollari, la berlina con cui si allontanano di poco, ma nel dito della vittima rimane, incastonato, un anello con diamante, è la prova di una cattiveria che eccede il rigore dettato dalla fame e dal bisogno.

Per un delitto del genere, nell’Indiana, era prevista la condanna a morte. Condannare a morte quattro minorenni avrebbe rappresentato un precedente storico, eppure così disponeva la legge. La questione faceva discutere, in molti si chiedevano perché il loro fosse l’unico paese che “giustizia i bambini”. Se lo domandavano anche i giudici.

Ad April e Denise è fatta salva la vita per il ruolo marginale che hanno avuto nel delitto. Anche Karen, nonostante abbia sferrato l’interminabile colpo fatale, non viene condannata a morte; i giudici ritengono abbia agito sotto l’influenza di Paula. Paula, invece, non suscita nessun senso di indulgenza e il suo processo si chiude con una pronuncia storica: è la persona più giovane ad essere condannata a morte.

Aveva provato, con la sua solita rabbia, a far cambiare idea al giudice; nel libro di Alex Mar, che ha esaminato tutti gli atti e ha intervistato ogni persona si sia prestata, si leggono le sue parole: «Lei non si è mai preso del tempo per capire. La prima cosa che ha detto, quando mi hanno rinchiusa, è stata “morte”. Questo è quello che ha detto. Ha detto morte. Ma è giusto? È giusto che lei mi tolga la vita? E se io togliessi la vita a lei?».

Prima Paula implora, poi, trovandosi di fronte all’inesorabile, accetta la condanna. Quando il suo avvocato le telefona, lei gli chiede, con una quiete sconcertante: «Verrai ad assistere alla mia esecuzione?».

Il perdono

Il mondo, però, non ci sta e si mobilita per la sua salvezza.

È così che Paula Cooper, l’assassina-bambina, diviene un’icona della lotta contro la pena di morte, sino a che la Corte Suprema stabilisce che i minori di di 18 anni non potranno essere uccisi dallo stato e la sua condanna viene commutata con sessant’anni di prigione.

Questa non è soltanto una vicenda giuridica e politica, ma è anche la storia di un perdono, pubblico e privato.

Il primo perdono è quello concesso dalla Corte, il secondo è di Bill Pelke, il nipote della vittima, che – come scrive Alex Mar in Settanta volte sette – «Prega che Dio gli faccia amare Paula Cooper, che lo inondi di questo amore. E aspetta», sino a quando un giorno, sinceramente, la perdona.

Chi non ha mai perdonato sé stessa, invece, è proprio Paula Cooper, morta suicida il 26 maggio del 2015 quando, davanti all’uscio di casa, assaporando i primi momenti della sua ritrovata libertà, si spara alla testa un colpo di rivoltella.


Anna Giurickovic Dato, insieme a Ginevra Lamberti, sarà martedì 28 maggio a Francoforte, per rappresentare l’Italia all’anteprima della Buchmesse.

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