A leggere la biografia di Tobias “Tobi” Lütke, il fondatore e ceo di Shopify, la più grande piattaforma per vendite online del mondo, non è sorprendente immaginare che a lui Trump stia un filo sui coglioni. Intanto è tedesco; o meglio tedesco-canadese (e non si riesce a immaginare due paesi più lontani dagli Stati Uniti, soprattutto rispetto alla formazione dei loro virgulti). È un tardo genxers o un vecchio millennial, sta lì, sul confine. Nasce nel 1981 e comincia a smanettare con i computer a sei anni, che palle sti geni tech precoci.

Arriva presto in Canada, si trasferisce a Toronto dove vive la donna che sposerà, conosciuta sulle piste da sci. A Toronto Lütke fonda Snowdevil, uno shop online che vende snowboarding gears (attrezzi che usano quelli fighi che sciano sulla tavola). Romantico. Immagino lui e la moglie progettare la venture al 38esimo piano di un grattacielo, con i vetri ghiacciati e musica islandese in sottofondo. Mentre si moltiplica – ha tre figli – si accorge di non essere per nulla contento della piattaforma che usa per il suo shop online. E siccome il do-it-yourself lui ce l’ha nel dna, se ne fa una da solo. La chiama Shopify. È il 2004. Due anni dopo, nel 2006, Shopify è nel mondo.

La svolta definitiva arriva nel 2015 quando Amazon chiude i suoi webstore e invita tutti i suoi clienti a migrare su Shopify. Lui ricambia il favore nel 2017 quando la sua piattaforma viene a sua volta integrata su Amazon, da quel giorno i suoi “venditori” – Shopify è piuttosto variegato, da Trump alla signora che fa i centrini, fino agli startupper tecnologici che possono facilmente mettere sul mercato le loro diavolerie per vedere se funzionano – sono presenti anche sui canali Amazon.

Ha aperto uno spazio fisico a Los Angeles, ha permesso la vendita della cannabis e derivati sulla sua piattaforma in Ontario e ha appena lanciato gli Shopify studios: stanno iniziando, come tutti, anche a produrre contenuti. È partner del progetto Libra (la moneta virtuale di Facebook) e già l’11 Marzo 2019 ha deciso di far lavorare i suoi 5.000 dipendenti da remoto, alle prime avvisaglie della pandemia, che, tra l’altro, ha giovato in maniera non indifferente all’azienda canadese, per ovvi motivi. Insomma, funziona.

Ciononostante Lütke sembra leggermente più umano rispetto ai suoi simili; ha sempre una coppoletta sbarazzina in testa e porta occhiali non totalmente nerd. Oggi la sua azienda ha numeri piuttosto rilevanti; è quotata in Borsa (sia alla Borsa di Toronto che alla Nyse), ha avuto un volume d’affari di più di 61 miliardi di dollari nel 2019, la piattaforma è usata da più di tre milioni di venditori in 175 paesi. È il 680esimo uomo più ricco del mondo, con un patrimonio personale di più di dieci miliardi di dollari. La fonte è Forbes, la lettura preferita di Trump. Destino crudele, per il fascista biondo piscio; i miliardari lo odiano e la plebe vestita da Freddy Flinstone, che lui detesta, è pronta a immolarsi per lui.

Tobias Lütke (©SPORTSFILE)

Niente gadget

Naturalmente la potente macchina da soldi che è il merchandising trumpiano non avrebbe potuto fare a meno di Shopify e infatti tutti i suoi shop onine si appoggiano a esso. O meglio si appoggiavano. Un minuto dopo che Zuck chiudesse le porte al presidente unfit, e prima di Twitter, Lütke gli chiude gli shop. Tuttavia oggi, se provate ad andarci, non troverete la scritta «chiuso per istigazione alla violenza» ma un più ottimistico e totalmente falso «In questo momento abbiamo un eccesso di volume di traffico, riprovate più tardi». Che in realtà sarà mai. Niente più cappellini “Make America great again”, niente più action figure raffiguranti il presidente iracondo e virilissimo, niente dolcissimi braccialettini MAga 2020 – so last year!

Peraltro Shopify ha un doloroso precedente rispetto al tema: nel 2017 subì un hashtag-attacco dal battagliero e definitivo nome di #deleteshopify; il motivo di tanta rabbia era semplice: su Shopify c’era il canale vendita merchandising di Breitbart News, il noto sito neofascista della alt-right americana, guidato da Steve Bannon. Tre anni fa Lütke fu più comprensivo: lo lascio aperto dicendo che «rifiutare di fare affari con Breitbart avrebbe significato violare il principio della libertà d’espressione». Non possiamo certo chiedere conto a Lütke, personaggio minore della tragicommedia, del fatto che anche quello ha determinato l’assalto a Capitol Hill.

Il tema del merchandising trumpiano non è infatti per nulla nuovo. Dare simboli chiari, anti americani nella sostanza ma americanissimi nella forma e nella superficie del messaggio è stato di certo uno degli strumenti più efficaci del marketing trumpiano. E a quale dei suoi seguaci importava che la gestione dell’intera parafernalia era certamente sospetta, come più volte raccontato da varie fonti? Ad esempio l’opacità sulle revenues (Cnbc arriva a stimarle al di sopra dei 400 milioni di dollari); la prova che molti dei prodotti fossero realizzati fuori dagli Usa nonostante il grido “buy American” e il fatto che Trump stesso usasse i profitti non solo per la sua attività politica ma anche personalmente, tutto questo non ha avuto alcun effetto sulle vendite.

Un granello di sabbia nel preciso ingranaggio capital-autoritario dello (s)pregiudicato miliardario, non abbastanza ruvido da fermarlo. È ormai chiaro che con l’affare presidenza Trump abbia fatto un sacco di soldi. Che li spenda in avvocati, almeno, come si augurano molti e come alcuni sostengono fosse nei piani. Alla fine dei cappellini se ne gioverà Giuliani, ammesso che non si perda mentre va alla Corte suprema o dove diavolo sarà, semmai davvero dovessero riuscire a incriminare Trump di qualcosa.

Non posso vendere cose?

Tra i più raffinati detrattori di Trump, alla notizia che Shopify gli avesse chiuso bottega, si è immediatamente propagato grande entusiasmo. Nonostante l’ostracismo dei social (e mai parola ha ritrovato significato più adeguato a più di duemila anni da quando è stata usata la prima volta) Trump potrà ancora parlare, ma impedirgli di vendere, quello sì, è diabolico.

Usare le stesse ragioni dei social per bloccare i suoi shop deve averlo fatto incazzare di molto; viene difficile pensare che il presidente abbia sviluppato una sensibilità sul tema e, se si può sperare che, benché avversandola, possa aver compreso o per lo meno essersi aspettato la chiusura dei suoi canali social, non poter più smerciare cappellini da baseball deve averlo fatto sentire davvero sconfitto. Le parole del portavoce di Shopify somigliano molto a quelle usate da Zuckerberg e Dorsey: «Shopify non tollera azioni che incitano alla violenza. In seguito agli eventi recenti abbiamo deciso che le azioni del presidente Trump violano le nostre regole che proibiscono a chi usa nostri servizi di supportare organizzazioni o persone che minacciano o usano violenza. Per questo abbiamo “terminato” gli stores affiliati al presidente Trump». Ma come? Non posso nemmeno più vendere? Sì, per un attimo, solo un attimo, si è sentito sconfitto.

Poi è passato, nonostante anche eBay, un minuto dopo Shopify, abbia iniziato il faticoso lavoro di rimozione del merchandising “violento” dalla sua piattaforma. E infatti la maglietta “MAga Civil War” non si trova quasi più. E come se non bastasse un altro duro colpo al mondo fatato dei remunerativi giochetti del bimbo biondo è arrivato dal Pga, il più importante circuito di golf professionistico americano, che ha cancellato la tappa 2021 prevista in uno dei golf resort club di Trump. Sempre per gli stessi motivi: violenza, buuuh, vergogna, non rappresenta i nostri valori. Insomma, lo stanno toccando dove fa male. Il cazzeggio da miliardario. Ma perché lo facessero ci è voluto un assalto a Capitol Hill e i morti. Prima andava tutto bene. That’s America.

Perfetto per giocare a golf

Tuttavia non serve l’FBI per scoprire che i cappellini sono invece ancora in giro. Se infatti si scrive MAga nella ricerca di Amazon il primo risultato è proprio lui, il cappellino. In vendita, in diversi colori, a 19 euro circa. I tempi di spedizione sono quelli che sono, arriverà tra il 27 febbraio e il 25 marzo. Il traduttore automatico così illustra lo scopo dell’acquisto: «Fai una dichiarazione: se stai cercando cappelli freschi e patriottici da indossare tutti i giorni, allora ti copriremo. Presentiamo con orgoglio questo fantastico cappello Donald Trump. Rinnova l'America semplicemente indossandola!».

Fantastico. Come fantastici sono i commenti degli acquirenti: si va dal meraviglioso «arrivato in tempo per Halloween, lo brucerò subito dopo» – che è sorprendentemente il secondo commento che si trova sulla pagina – al mio preferito di tutti i tempi, anonimo italiano: «Anche se la qualità è piuttosto scadente, l’impatto emotivo è notevole. L’ho indossato sul campo da golf durante una partita suscitando la curiosità degli amici. Tutto ok!» Meraviglia.

Ma chi lo vende? Se clicchi sui dettagli viene fuori questo: “Nome azienda: Shandongguangdugangtiemaoyiyouxiangongsi”. Giuro. Altro che deep web. L’indirizzo è Taishanqulingshandajiehuaqiaochengshangyeyoulunlu3-317hao, Shandongsheng, Cina. Al solito vincono loro, i cinesi; è cosa nota che parte del merchandising trumpiano alimentava l’export cinese proprio mentre il presidente combatteva la sua battaglia commerciale contro la stessa Cina.

Alcune di queste aziende, secondo il Financial Times, nell’ultima campagna hanno prodotto indifferentemente merchandising pro e anti Trump. Esilarante l’intervista nella quale un imprenditore della provincia dello Zhejiang scopre grazie all’intervistatore che in effetti oltre alla bandiera “God, Guns&Trump” suo bestseller, produceva anche magliette con la scritta “Impeach Trump”. Imbarazzo e un commento sommario: se conviene lo facciamo. Il commercio, nonostante Trump, non conosce confini né politica. Va dove ci sono i soldi e basta.

La principale fabbrica dei MAga hats si trova a Los Angeles. Più dell’80 per cento dei suoi dipendenti è composta da latinos. Uno di essi alla domanda se non gli desse fastidio lavorare (manualmente) sui cappellini del presidente del muro antimigranti, rispose, solo due anni fa, di no. Più lavoro, più soldi, disse. E quando lo sente parlare? Cerco di ignorarlo, rispose. Forse in America lo hanno ignorato in troppi, anche chi avrebbe potuto permettersi di non farlo.

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