Il professor Trozzi stava spiegando che a lui piaceva assegnare subito una prova di scrittura, come una sorta d’esame d’ingresso che mettesse a nudo i corsisti, mostrasse il loro reale livello.

«Così la classe potrà trarne le conseguenze», concluse Trozzi. «E uno di voi dovrà abbandonare il corso». 

I volti dei corsisti sbiancarono, nessuno aveva mai preso in considerazione anche solo l’eventualità di dover abbandonare quel corso di scrittura prima del suo effettivo inizio.

Il professor Trozzi proferì: «La scrittura è spietata ragazzi, se mai qualcuno di voi avesse pensato anche solo lontanamente che la scrittura si può imparare, allora si è sbagliato di grosso. Il talento c’è o non c’è, e questo è tutto».

Proprio in quel momento, quasi a sottolineare la solennità delle parole del professore, un ramo della quercia secolare posizionata al centro del giardino della scuola grattò sulla finestra. Nell’aula il silenzio si fece quasi palpabile, prima che Trozzi scandisse con voce stentorea la traccia della prova scritta: un racconto di tre cartelle con una trama obbligata, uguale per tutti.

«Ci siamo capiti? Siete pronti?», domandò infine Trozzi, ora con una voce incalzante, quasi sovraeccitata.

Le teste dei corsisti annuirono e subito si chinarono sui rispettivi fogli bianchi per i successivi centoventi minuti.

Il grande paradosso

Trozzi, come di consueto, ingannò l’attesa andando a fumare in corridoio, dove incontrò Felici, un giovane professore alle prime armi. Gli fece un cenno svogliato col capo, che l’altro scambiò come un invito a fermarsi e scambiare due chiacchierare.

«Nuovo corso in partenza?», gli chiese Felici.

«Già».

«Pronto a vivere per l’ennesima volta nel grande paradosso?».

«Quale grande paradosso?».

«Insegnare ciò che non è possibile apprendere».

Trozzi sghignazzò. «Finché ci pagano».

«Eppure io a questi corsi di scrittura ci credo, sai? Una delle mie più grandi gioie – intendo proprio una soddisfazione piena e squillante che perdura nel tempo – è riuscire a migliorare i racconti dei miei corsisti. La maggior parte dei lavori che mi capita di leggere non sono abbastanza buoni per essere sensibilmente migliorati, s’incagliano e muoiono “prima”, su problemi che sono nelle fondamenta di un racconto. Tuttavia in ogni corso ci sono almeno un paio di racconti potenzialmente buoni, che hanno bisogno soltanto di una dritta da parte mia. A volte si tratta di anticipare o posticipare alcune scene, rimodulando l’intero sviluppo drammatico, altre volte i personaggi non sono messi bene a fuoco, mentre in altri casi ancora a zoppicare è il rapporto che la storia dovrebbe intrattenere con lo spazio o il tempo. Insomma è una vera gioia migliorare un racconto fino a vederlo funzionare, è una cosa tangibile, è il motivo che ogni volta mi fa anche dire che insegnare scrittura può davvero servire a qualcosa. Per questo motivo alla fine ringrazio sempre tutti, geni e brocchi».

Trozzi se ne stupì. «Davvero li ringrazi? Quanto entusiasmo ragazzo mio!».

«Non è naturale che sia così?».

«Io ho un modo di procedere un po’ diverso».

«Sarebbe?».

«L’entusiasmo eccita gli animi, e animi eccitati possono perdere di vista l’obiettivo primario di una scuola, che in buona sostanza si basa sullo svolgimento di alcuni esercizi».

«Tu dai gli esercizi e i tuoi corsisti li svolgono. Tutto qui?».

«La scuola non è la vita».

«Neppure una scuola che ha la pretesa di insegnare a scrivere?».

«“Insegnare scrittura” mi suona troppo romantico. Mi limito a fornire dei modelli».

Felici si schiarì la voce. «Sai cosa disse Maupassant in una delle rare lettere che indirizzò a un giovane principiante? Disse una cosa terribile e vera, che io metterei come premessa a qualsiasi scuola di scrittura: “Per primeggiare nella letteratura non bisogna ammirare nessuno”».

La natura delle cose

Trozzi rientrò in aula contrariato e si mise a osservare dalla finestra i possenti rami della quercia, quel miracolo divino che diceva con chiarezza e precisione una cosa sola, anche e soprattutto riguardo a quel corso di scrittura: non si può cambiare la natura delle cose.

Al termine dei centoventi minuti, gli elaborati vennero letti uno alla volta, ad alta voce. Trozzi, che era una specie d’istituzione nel campo dell’insegnamento della scrittura creativa, sapeva già che la maggior parte della classe avrebbe prodotto un compitino scolastico senza infamia e senza lode. 

I picchi negativi furono prodotti da tal Fabrizio Novai, il fidanzato di una potente editor che si vantava delle conoscenze che aveva in questa o quella casa editrice, e tal Giulia Spatola, una figlia di papà che all’attivo aveva già un chick lit, che però lei faceva di tutto per spacciare come un grande romanzo d’amore esistenzialista.

Inaspettatamente però quella tornata aveva prodotto anche un testo di valore inconsueto e perfino eccezionale, un racconto breve come Trozzi non ne leggeva da anni, e non solo nell’aula del suo corso, bensì nelle antologie e nelle raccolte che uscivano in libreria. L’autore si chiamava Sebastiano Racca ed era un giovane che durante il momento delle auto-presentazioni aveva fatto scena muta, balbettando che non aveva mai pubblicato niente, e che quel corso per lui sarebbe stato un tentativo di mettere la testa fuori dal guscio.

«Benissimo», disse Trozzi, dopo un lungo sospiro, alla fine della lettura di tutti gli elaborati. «Per me la situazione è fin troppo chiara, ma sarà la classe a decidere chi dovrà abbandonare il corso, chi non è degno di partecipare. Siete pronti?».

Le teste ancora una volta annuirono all’unisono, terrorizzate.

«Al mio tre non dovrete fare altro che indicare chi volete che abbandoni quest’aula, senza più la possibilità di rimetterci piede, neanche per sbaglio. Uno… due… tre!».

Immediatamente tutti gli indici della classe puntarono la stessa persona: Sebastiano Racca.

Trozzi increspò le labbra in un ghigno indecifrabile: «Racca, per favore, abbandoni subito l’aula».

«Ma io…».

«Ha sentito che cosa ho detto? Ci lasci lavorare».

Sebastiano Racca, non senza un evidente stupore, rimise dentro lo zainetto la sua roba, e sparì nel corridoio della scuola.

«Bene ragazzi», si limitò a dire Trozzi. «La vostra scelta non mi stupisce affatto, e dimostra che siete una classe molto consapevole. Adesso possiamo lavorare con serenità».

Al tramonto, Trozzi uscì in giardino insieme alla sua nuova classe e vide cos’era successo. Assorbiti dalla lezione non si erano neppure accorti del viavai e della sirena dell’ambulanza: il corpo di Sebastiano Racca penzolava ancora dalla quercia. 

«Non riusciamo a tirarlo giù», disse uno dei soccorritori. «Non sappiamo come abbia fatto a salire fin laggiù, a impiccarsi a un ramo così alto».

«Ogni tanto capita anche questo», disse con una punta infinitesimale di dispiacere Trozzi, rivolgendosi soprattutto a Fabrizio Novai e Giulia Spatola. «Gli scrittori sono insicuri, sono dubbiosi. Non sono come voi».

Questo racconto è un estratto dal libro di Luca Ricci, Gli estivi (La nave di Teseo, 2020).

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