«A Berlino ci son stato con Bonetti, cantava Lucio Dalla, era un po’ triste e molto grande.» Io ci sono stato tre volte negli ultimi giorni, leggendo tre romanzi di tre scrittor* italian* quarantenn*: Niente di vero di Veronica Raimo (Einaudi), Spatriati di Mario Desiati (pure Einaudi) e Le perfezioni di Vincenzo Latronico (Bompiani).

In tutti e tre questi romanzi i protagonisti a un certo punto vanno a Berlino. Non per visitarla, come Bonetti e Dalla, bensì proprio a viverci. In tutti e tre i casi, si parla di trentenni, o poco meno. In tutti e tre i casi, a Berlino trovano la loro dimensione, o almeno un’alternativa plausibile alla vita in Italia. 

Veronica (Raimo), per esempio, da anni vive tra Berlino e Roma, o meglio ha «vissuto a Roma continuando a passare dei mesi a Berlino e rimpiangendo il fatto di non viverci. Non c’è alcun motivo reale perché non mi trasferisca a Berlino, ma se mi trasferissi, smetterei di avere un solido rimpianto che mi tiene in vita tutti i giorni».

Claudia (Desiati), già trasferitasi a Milano da Martina Franca per studiare e poi lavorare, risolve un momento di crisi personale trasferendosi di nuovo, «verso un nord ancora più a nord di dov’era stata tutti questi anni, dove sciamavano i nuovi italiani di ventura: Berlino. E anche se fosse stata Atlantide, l’isola dei Feaci o Marte, io non avrei mai smesso di inseguirla» – e l’io in questione è Francesco, che infatti la raggiungerà qualche anno dopo, per vivere finalmente la vita che non osava vivere a casa sua.

Anna e Tom (Latronico), giovani creativi, sono volati in Germania dopo la laurea, e le cose paiono andare piuttosto bene: «Berlino era a tutti gli effetti la loro attività principale: osservarla, capirla, sentirsene parte. In un certo senso li definiva più della professione […]. Il lavoro gli era capitato. Berlino l’avevano scelta».

Perché tutti a Berlino?

Impronte di mani impresse sul muro di Berlino (Markus Schreiber, AP)

Ora, il bisogno di sprovincializzarsi con l’equivalente millennial della gita a Chiasso di arbasiniana memoria è comprensibile e, anzi, lodevole. L’Erasmus, le low cost, il traffico dati in roaming e Google Maps danno una bella mano sul lato pratico. La giovinezza è, evidentemente, il momento in cui ci si cerca – e di solito ci si trova andandosene lontani da casa (non necessariamente in senso geografico, ma può aiutare). Resta da capire perché tutti a Berlino.

Per ragioni, si sarebbe detto un tempo, strutturali, innanzitutto. «Triste e molto grande», in termini di real estate, significa economica, molto economica – anche se negli ultimi anni le quotazioni sono aumentate (ci ritorneremo). «La libertà era diventata abbondanza. I lotti non edificati e i casamenti deserti parlavano di abitazioni enormi a basso prezzo. […] Era per inseguire quell’abbondanza che erano lì», (Latronico).

Ma anche per ragioni sovrastrutturali: i club, le start-up, le droghe, l’arte contemporanea, il sesso. Veronica ha abitato in «uno squat di gay maschi vegani […] o in uno studiolo di un’artista che aveva tutte le pareti dipinte di nero con affisse le sue opere, ovvero tute da meccanico trafitte da un’ascia». La prima sera a Berlino Claudia porta Francesco al mitico KitKat: «Un antro oscuro dove la musica scuoteva il pavimento, e una umanità camuffata – divise della polizia, camici bianchi, pellicce sintetiche con code di volpe, musi di cavalli o cani, corpi insaccati in corde strette – ballava senza sosta nel fumo colorato. Nella piscina, uomini nudi gridavano, nuotando tra enormi draghi gonfiabili».

Ragioni non nuove. «Nei primi anni Ottanta», dice Pier Vittorio Tondelli, riferimento letterario per tutti e tre i romanzi in questione, «il mito di Berlino, del suo punk, delle case occupate di Kreuzberg, dei suoi teatri e della drammaturgia, di un modo di vivere disinibito e “facile” appariva come il più radicato presso le giovani generazioni. In tanti siamo andati a Berlino, in quegli anni». E in questi anni, pure di più. 

Infine, il sospetto sorge spontaneo, anche solo per un certo conformismo – non da parte degli scrittori, sia chiaro, i quali evidentemente hanno ben poca colpa se i loro personaggi vanno a Berlino in ordinata coorte e non pensano più che Londra o Parigi siano the place to be. Se questo è lo zeitgeist, c’è poco da fare. 

La scelta di Veronica (Raimo) non viene granché discussa e non ci dà particolari lumi sulle sue ragioni, se non strettamente personali. Claudia e Francesco (Desiati) si muovono invece su una traiettoria piuttosto chiara di bildungsroman in cui il nord sempre più nord di Berlino si contrappone binariamente al sud troppo sud di Martina Franca: al nord si può vivere la propria complessa, ambigua, bruciante sessualità – al sud si è ingabbiati negli sguardi e le voci del paese e non si può nemmeno divorziare; al nord la vita è fatta delle tue scelte, giuste o sbagliate che siano – al sud è fatta del posto che ti è stato assegnato nella società familiare e paesana; e così via. Siamo ampiamente nel campo di una mitologia berlinese che risale, appunto, ai primi anni Ottanta e prosegue fino a oggi.

La gentrificazione

Foto Unsplash

Anche in Latronico ritroviamo tutta questa mitologia, ma qui è sottoposta a uno sguardo critico abbastanza micidiale. Le perfezioni svolge con i mezzi della narrativa – e non a caso, si tratta di un esplicito omaggio a Le cose di Georges Perec – un’indagine critica del dispositivo sociologico (desideri, capitali, ideologie, tecnologie) di cui è preda la generazione dei trenta-quarantenni – cioè, appunto, tenta una risposta alla domanda: «Che ci fanno Anna e Tom a Berlino?»

Il romanzo è abbastanza micidiale perché questa risposta non si trova nelle personali predilezioni, e nemmeno nella freccia evolutiva che, da un contesto retrivo, porta il giovane a sbocciare (salvandosi dallo stress e dell’azione cattolica). Latronico non perde mai di vista – e non ci permette mai di dimenticare – che Anna e Tom, così preziosamente e orgogliosamente impegnati a costruirsi una esistenza secondo i loro personali gusti, seguono in modo quasi deterministico le ferree leggi del conformismo digitale e della gentrificazione galoppante – che non ha affatto risparmiato la Berlino dei terreni dismessi e dei palazzoni in rovina.

Come si passa dalle case occupate e dai club underground alle foto dei giochi di luce sulle piante d’appartamento e ai «vassoi di stagno o vetro brunito, colmi di insalate arricchite da semi e frutti, quinoa e cicerchie, o arrosti di radici stagionali profumate di zenzero e sommacco»? Anzi, come è possibile avere tutte e due le cose, non rinunciare né alle mitologie ribelli né alle perfezioni instagrammabili? Pare aiuti molto vivere a Berlino.

Si capisce che la cosa sia affascinante. Ma, come in tutte le cose troppo belle per essere vere, c’è qualcosa sotto. Quel qualcosa è la gentrificazione delle nostre vite. Dice, scusa, che cos’è la gentrificazione delle nostre vite? 

Ora, il pezzo è già abbastanza lungo così. Facciamo che, dopo aver letto Le perfezioni, vi procurate anche un breve saggio di Latronico, appena apparso nel numero 13 dei Quanti Einaudi, lodevole iniziativa editoriale in formato digitale (disponibile su tutti gli store di ebook) – vi prometto che ne vale la pena, il ragionamento è importante e svolto con grande efficacia, narrativa e argomentativa. Soprattutto, a questo punto, vi potrebbe essere di conforto sapere che non parla di Berlino, ma parte dal quartiere Isola di Milano per arrivare a descrivere meccanismi che non sono solo economici, sociologici, al limite politici, ma proprio esistenziali. Per invogliarvi, una brevissima citazione: «La gentrificazione è un processo di disincanto, cioè di sparizione delle unicità a favore di un orizzonte più vasto di alternative che si equivalgono. Questo è anche ciò che accade con l’espansione di internet; è anche invecchiare».

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