Underdog è parola resa nota ai più, in questo paese, dalla nostra premier attuale. Sarebbe lo sfavorito, quello che da pronostici non vincerebbe mai, e invece. L’altra espressione possibile, con accezione forse un poco più positiva, è dark horse. Cioè quello di cui si sa poco, di certo non si conoscono le abilità; e poi, in una gara vera o immaginaria, dimostra di saper tagliare il nastro d’arrivo. Ecco, The White Lotus è l’underdog, il dark horse, chiamatelo come volete, delle ultime due stagioni televisive. La produzione Hbo destinata a un pubblico di nicchia (qui direbbero: ai radical chic), senza grandi nomi, quella tv di qualità (cit. Franca Ciampi) che probabilmente piacerà ai critici, ma chissà se se ne accorgeranno mai. Nelle stesse ultime due stagioni televisive, The White Lotus ha vinto tutto il vincibile, dagli Emmy agli ultimi Golden Globe (e mancano ancora i Sag, i premi del sindacato attori, e quelli degli sceneggiatori, e via awardizzando).

La prova del suo essere underdog, o dark horse che dir si voglia, sta nel discorso dello showrunner/regista Mike White proprio agli Emmy, in cui citava il sé stesso che aveva partecipato a Survivor (l’Isola dei famosi americano, per capirci): «Ho fatto Survivor. E a Survivor resti in gioco solo se abbassi il livello di rischio. Ora sento di averlo alzato, il livello di rischio, e in questo gioco voglio starci comunque».

L’altro merito di The White Lotus, oltre al fatto di averci confermato che gli ultimi saranno i primi (tema che, per la verità, non ho mai trovato così avvincente), è aver dimostrato che bastano (si fa per dire) un’ottima scrittura, ottima recitazione, ottimo senso del racconto (preferite usare la parola storytelling? va bene, ve lo concedo), e si può fare una grande storia. Una volta il cinema – e le serie: ma non sono ormai la stessa cosa? – stava tutto lì: in buone battute date a bravi attori che sapessero enunciarle (poi, come spiega il bellissimo saggio di David Thomson La formula perfetta, pubblicato di recente da Adelphi, sono arrivati gli “autori”: una volta il regista era quello che si limitava a mettere per immagini le parole degli scrittori). Oggi, tra schermi grandi e piccoli, sembra che servano sempre chissà che distopie, chissà che geneologie di draghi, chissà che multiversi, altrimenti non se ne fa niente.

La crisi sconfessata

The White Lotus, e Mike White, è tornato, diciamo così, alle origini del mezzo, ha sconfessato qualsivoglia crisi degli sceneggiatori a Hollywood (grande alibi degli ultimi due decenni) e ha riportato scrittura e recitazione al centro di tutto (e anche la regia, perché, da ex attore, si vede che oggi ci tiene a fare l’auteur: ma glielo perdoniamo).

Di più: ha dimostrato che, se ci sono quelle premesse, non servono grandi mezzi e grandi location; si può chiudere tutto dentro un solo luogo (nella fattispecie, un resort di lusso) e il risultato sarà comunque esplosivo. Come nei Kammerspiel di una volta.

Dunque, perché oggi si parla tanto di The White Lotus? Al di là, dico, dei premi, che valgono sempre quel che valgono. Perché è diventato un meme, ha generato un piccolo culto sempre più pop, è penetrato nell’immaginario, e nel lessico, e persino – letteralmente – nelle orecchie? (il tema, coltissimo, scritto da Cristobal Tapia de Veer come sigla della serie è una musichetta irresistibile che ora titilla pure i tiktoker). Le ragioni sarebbero molte; la principale, mi verrebbe da dire, è una: il paradosso per cui la cosa più vecchia del mondo – ripeto: buoni dialoghi, buone performance, buona messinscena – sembri oggi una grande novità.

La seconda, ma non troppo, è quest’altra: la satira sociale – a volte pure facile facile – in cui guardarsi come dentro uno specchio fa sempre presa, soprattutto in tempi in cui nessuno o quasi pare più in grado di raccontare la contemporaneità.

Mike White ha preso i più classici degli scontri sociali – ricchi contro poveri, bianchi contro neri, uomini contro donne – e ci ha costruito attorno un racconto di personaggi. Che siamo noi tutti – anche se, certamente, con molti soldi in meno sul conto corrente.

L’altra furbata (belvata?) di White è aver risposto al bisogno di icone ­– icone immediatamente comprensibili, icone social, icone prêt-à-porter – di quest’epoca Instagram. Ha preso una caratterista consumata (in tutti i sensi) del cinema pop (American Pie, La rivincita delle bionde, e una sfilza di altri titoli) e l’ha trasformata in una diva. Addirittura, per stessa ammissione della diretta interessata, in una sorta di Monica Vitti.

Jennifer Coolidge, di cui in questi giorni girano i numeri che ha fatto sul palco dei Golden Globe (ne ha vinto uno anche lei, dopo l’Emmy), è il nome scelto da White come perno simbolico attorno cui incardinare il suo nuovo immaginario. È il genio tragicomico che riscatta generazioni di attrici e attori di seconda fila. È l’underdog, il dark horse.

Scontro di religione

Poi, certo, c’è la storia. Dopo la lotta di classe e di etnia della prima stagione, ambientata alle Hawaii, quella tra i sessi della seconda, girata al San Domenico Palace di Taormina, ha intrigato e polarizzato il pubblico in misura pure maggiore, anche se pareva partita più in sordina. «Lasciamo da parte “il Discorso”, per favore” dice Portia (Haley Lu Richardson), la vessatissima assistente della ricca Tanya/Jennifer Coolidge.

Il riferimento è al dibattito in corso fuori e dentro ai social (soprattutto dentro): il nuovo femminismo, il nuovo ruolo dei maschi, e tutto quel nuovo che si reclama, a volte sacrosantamente a volte forzatamente. Mike White invece nel Discorso ci entra con astuzia e con gioia.

E sceglie apposta la Sicilia come sfondo di questa commedia umana popolata da uomini eternamente bavosi contro ragazzi di ultima generazione che fanno di tutto per rispettare l’altro sesso; donne represse e altre che saranno sempre e per sempre puttane; gay avidi e cattivi e lesbiche che non sanno (o non vogliono) trovare il loro posto; in generale, gente ossessionata dal sesso da una parte e dall’altra, che quel sesso lo si faccia oppure no, basta anche solo immaginarlo, o invidiare quello degli altri, o usarlo come arma o moneta o semplice baratto. (Gli italiani, per fortuna, hanno dimostrato di essere per una volta un popolo adulto: nessuno, o quantomeno pochissimi, si è risentito per certi cliché usati a scopo narrativo; anche se non tutti avranno colto i riferimenti all’Avventura di Antonioni, almeno non hanno fatto gli offesi sui loro profili social, e di questi tempi è già tantissimo.)

Oggi tutti parlano di The White Lotus, anche quelli che all’inizio non sembravano destinati a diventarne spettatori, ed è questa la vittoria, il nastro d’arrivo tagliato. Dalla fiction, la serie è diventata un corpo che vive per sé stesso. I fenomeni veri sono quelli che arrivano a tutti, anche a quelli che quel prodotto (oggi si usa questa bruttissima parola) non l’hanno fruito (altra bruttissima parola).

Oggi chiunque ha visto almeno un video, un meme, una qualsivoglia fotina di Jennifer Coolidge. Chiunque sa che c’è stata una serie di successo ambientata a Taormina, con conseguente boom di prenotazioni da tutto il mondo (e giubilo, immagino, della nostra neoministra al Turismo).

Chiunque, in Italia e no, oggi riconosce Sabrina Impacciatore, altra caratterista consumata (o chiamatela, anche lei, underdog, dark horse) oggi diventata la star che si merita di essere: la sua ospitata da Jimmy Kimmel è una delle pagine di televisione più belle, come si diceva una volta, di questa stagione. Mike White (e con lui Hbo) ha già annunciato, ovviamente, The White Lotus 3.

Dopo le Hawaii e la Sicilia, dice che sta pensando all’Asia, e a una lotta di classe e di società che, stavolta, riguarderà la religione. Vai, dark horse: la corsa sarà ancora tua.

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