Uno degli argomenti più hot della psicologia divulgativa, quella che affolla i blog e i post su Instagram, e che spesso vede protagonisti schemini variopinti e persone che indicano nel vuoto in direzione di vignette, è quello delle “persone tossiche”.

Se digitiamo su Google “persone tossiche”, queste sono le quattro domande che appaiono come le più cliccate: come capire se una persona è tossica? Come comportarsi con le persone tossiche? Come allontanarsi da una persona tossica? Quali sono le persone da evitare?

Una serpe velenosa

I quesiti in questione trattano la cosiddetta “persona tossica” come una serpe velenosa che si presume riconoscibile da lontano, e dunque evitabile, e che per essere allontanata esige un preciso rituale, come lo richiederebbe esorcizzare da una presenza demoniaca.

Insomma, come spesso accade quando cose serie diventano pop, sfumando i contorni in semplificazioni da spiaggia, la “persona tossica” diventa un essere mitologico, in colori fluo, che ti aspetteresti di incontrare in un fumetto della Marvel.

Altri titoli che spopolano su Internet: “Sei tipi di persone tossiche” (come dire, sei tipi di risotto), ma in alcuni siti sono otto e in altri dieci. Abbiamo il vittimista, l’egocentrico, il manipolatore, e a me vengono in mente i Puffi: Puffo vanitoso, Puffo quattr’occhi, Grande Puffo. Si addice infatti più ad animaletti di un cartone animato ridurre le persone a una delle loro caratteristiche.

Costellazioni diverse

Nella vita reale, ogni persona è una costellazione di tratti caratteriali, di difese, di reattività legate al proprio passato o alla propria indole. Lo stesso concetto di “io” è ormai, giustamente, sotto esame: basti pensare a come alcune sostanze, come psilocibina e Lsd, alterino la percezione di sè e del mondo per comprendere come le nostre illusioni storico-filosofiche sulla solidità dell’identità siano obsolete, e dunque quanto più lo è ridurci a un solo aggettivo!

Secondo Internet, le persone tossiche si riconoscono dal fatto che si lamentano sempre, dall’atteggiamento nervoso, e dall’uso frequente del sarcasmo. In pratica, secondo questa definizione, quasi tutti noi persone stressate del 2022 saremmo persone tossiche.

Ma cosa sarebbe, questa fantomatica tossicità? Google risponde: «Le persone vengono definite tossiche quando hanno un impatto negativo sulla vita degli altri. Ovviamente, quando si utilizza questa espressione non si vuole mettere un’etichetta direttamente a quella persona ma piuttosto ai suoi comportamenti». Questa definizione è ovviamente contraddittoria. Quella inglese è più razionale e più ragionevole: «Una persona tossica è una persona il cui comportamento aggiunge negatività e turbamento alla vostra vita. Molto spesso le persone tossiche sono alle prese con i propri stress e traumi. A tal fine agiscono in modi che non li mettono in buona luce e di solito così facendo turbano gli altri lungo il percorso».

La banalità del male

Questa definizione è certamente più realistica. Non serve scomodare Hannah Arendt per comprendere che il male è decisamente banale, che non esistono demoni che vivono per esalare tossicità sugli altri.

Esistono piuttosto persone irrisolte che, a causa di queste loro narrazioni incomplete e dolenti, indirizzano più o meno volontariamente la propria capacità di nuocere su chi si trova a portata di mano o più spesso su chi rivolge loro interesse e attenzione, che in virtù di ciò è più prensile, più adatto a subire il massacro.

È una cosa vile, mediocre? Certamente. Ma non è l’incantesimo sinistro di una persona tossica venuta dall’inferno, solo il noioso e banale sfogo di chi non riuscendo ad agire in modi più luminosi e costruttivi sulla proprio realtà si diletta, più o meno consciamente, a distruggere quella altrui.

La definzione di “persona tossica” è un tantino riduzionista, quel tipo di riduzionismo che rischia di incasellare e dunque obliterare le persone anziché analizzarle, ovvero l’operazione contraria a quella di cui si fa carico la psicologia vera, quella messa in atto da professionisti, che al giudizio sulla persona preferiscono lo sforzo di comprenderla e lo slancio cooperativo di costruire insieme un percorso di miglioramento.

La “collusione”

Ne parlavo proprio con mia sorella Marta, che è psicoterapeuta sistemico-relazionale, mentre mangiavamo sul divano un gelato al pistacchio un po’ troppo artificiale, di un verde fosforescente che di certo non ha mai visto un albero.

Credo sia nato da lì il discorso: una delle due ha chiesto all’altra, scherzando, se pensasse che il gelato fosse tossico, e siamo finite a parlare delle famigerate “persone tossiche”. Le ho chiesto quale fosse il suo pensiero.

Mi ha risposto che un concetto chiave su cui bisognerebbe puntare l’attenzione, anziché accanirsi sul presunto aggressore, è la “collusione”, quel meccanismo psichico per cui la persona permette di essere intossicata.

Spesso infatti ci si lamenta dei comportamenti di qualcuno senza mai chiedersi perché da quel qualcuno non ci si è ancora sganciati, in che modo cioè la necessità della “persona tossica” di agire in quel modo si incastri con spinte inconsce di chi subisce.

Laing, quel genio che per primo nel suo L’io diviso teorizzò una psichiatria esistenziale e libera dallo stigma, sosteneva che la persona non desidera soltanto avere l’altro come gancio a cui appendere le proprie proiezioni, bensì si sforza di trovare nell’altro o indurre l’altro a diventare la vera incarnazione della persona la cui collaborazione è necessaria a completamento dell’identità particolare che essa si sente costretta a sostenere.

Spesso infatti si crea proprio questa “collaborazione”. Perché succede, perché collaborare? Per mille motivi. Magari un individuo mantiene un legame con la persona “tossica” per estromettere da sé le parti “cattive” e sentirsi “buono”. O forse per guarire o aggiustare questa fantomatica persona “tossica” e ricoprire un ruolo salvifico.

O ancora, a volte succede che si riattualizza la propria storia originaria, ovvero si ripete il copione appreso da mamma e papà, per cercare finalmente di capirla o nel disperato tentativo di riscriverne il finale.

Insomma, la chiave non sta certo nel puntare il dito sull’aggressore come fosse un villain dei cartoni animati: domandiamoci piuttosto perché abbiamo permesso a questa situazione di materializzarsi, e impariamo anche a guardare l’altro oltre il fumo tossico, nella sua realtà spesso sofferente che abbiamo invocato nella nostra vita.

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