Parlare di Petraio di Silvio Perrella, La nave di Teseo, obbliga a una premessa sostanziale. Questo scorcio di nuovo millennio, nuovo mondo, ha introdotto come tema dominante quello della digitalizzazione delle nostre vite, con tutte le ricadute linguistiche del caso. Andiamo sempre di più verso una meta realtà, dunque, una non realtà, in cui all’appiattimento dello spazio corrisponde un annichilimento delle parole e di tanti generi letterari.

In questo quadro generale, il Petraio di Perrella appare quasi eversivo. Eversivo perché materico e perché, udite udite, scritto in prose poetiche. Partiamo dal luogo. Petraio è un quartiere di Napoli vicina al Vomero, è il luogo da cui partono le esplorazioni, umane  e di strati della città, dell’autore, luogo amato per la sua natura eterogenea, sineddoche perfetta di una città che attrae come poche altre.

Pietre ammassate

Silvio Perrella sulla destra /Foto LaPresse

Il titolo, però, fa riferimento anche ad altro, almeno si crede. Il petraio è quella zona dove le forti piogge ammassano pietre e ciottoli portati via altrove. Questa, pare, la definizione più calzante per avvicinarsi a questo libro. Un album di pietre strappate via dalla terra, momenti di rivelazione, di malinconia, di incontri con presenze e assenze che si muovono dentro la realtà, di riflessioni lanciate all’inseguimento di ombre, profili che cambiano con l’andare del tempo.

A tutto questa stratigrafia di significati si aggiunga il riferimento dantesco. Nella Commedia, infatti, il poeta utilizza questa parola per descrivere l’ascensione, a scatti, mai semplice, delle anime del purgatorio verso il paradiso.

Oltre le intenzioni, come sempre quando si parla di letteratura, quel che fa la differenza è la lingua, la scrittura. La prosa poetica di Perrella è plastica, asciutta, scommette tutto sulla visione, in questo senso più poetica che prosastica. Fa un poco di nostalgia leggere questi quadri magrittiani, il pensiero corre a quanti nel Novecento scommettessero su questo genere così meravigliosamente ibrido. Uno su tutti, Camillo Sbarbaro. È forse questa la fratellanza più grande.

Il Trucioli sbarbariano e il Petraio di Perrella si somigliano, per la stessa attenzione al dettaglio, per l’attrazione verso la materia, spesso microscopica, del mondo. La pietra non è tutta uguale, come gli esseri umani.

Da qui le tre sezioni che compongono il libro: Tufo, Calcare e Pomice. Come dire: a materia corrisponde durezza, friabilità, fragilità.

Tra prosa e poesia

Il libro finisce con una sorpresa, come se l’autore, dopo aver tastato una a una le sue pietre, sentisse il bisogno di uno scarto, che diventa inevitabilmente scelta tra le due lingue del libro: la prosa e la poesia. E se parliamo di ascesa, una sola è la lingua sommità, quella che sa farsi lirica, e Perrella ne offre un esempio davvero mirabile, atto d’amore per il mondo e la sua unità di misura più oscura e al tempo stesso disponibile.

Le pietre sono reduci da mondi/impervi rotolanti da millenni/arse di silenzi occhi rasoterra/cecità a millimetri del già visto/Ti chiedono udienze mute/nuvole mutevoli arazzi uncinati/diffidano del parlottio infimo/vorrebbero essere colte come fiori/Le pietre non sono mai tetre/spumeggiano di figure rare/imprigionano fiumi cascate/mareggiate assolate laghi e aghi/Non ti chiedono nulla sono/semmai arsenali assiderati/di macchie lunari tinteggiano/la mente d’ipotesi ardite/le pietre sono di chiunque/non appartengono a nessuno/se le lanci ricordati di andarle/a riprendere come fanno i cani.

La copertina del libro

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