Sono tempi in cui si parla spesso di fascismo: fascismo eterno, fascismo strisciante, fascismo edulcorato, fascismo dimenticato.

Mentre questo dibattito persiste – ormai un basso continuo – un film di animazione fa precipitare Mussolini nella nostra favola più amata, nel piccolo borgo antico della Toscana in cui Pinocchio nasce, ricordandoci che la Storia con la S maiuscola non è dei libri né degli eroi, né solo delle città, da Roma a Fiume: Mussolini è anche sulle pareti dei borghi d’Italia: “Credere, obbedire, combattere” campeggia sul muro di una casa, dove di solito stanno i manifesti delle sagre.

Ma soprattutto: il fascismo è di tutti, anche dei piccoli; riguarda anche i bambini che vorrebbero anzitutto giocare. Il Pinocchio di Guillermo del Toro (disponibile su Netflix) ci ricorda che i regimi non risparmiano nessuno, non sono un fatto di adulti, ma un fatto globale.

In nome di una disciplina che non ha sfumature e che sottopone tutto al principio di obbedienza, Pinocchio, come gli altri bambini, come anche il figlio del Podestà fascista, deve farsi soldato: deve regalare il suo tempo alla Patria, che qui è sinonimo di Guerra; deve rinunciare alla paura – difesa salvifica di ogni infanzia; deve maneggiare fucili e bombe a mano, e a poco vale esercitarsi con armi e bombe giocattolo: quando la guerra imperversa davvero, il bravo soldato fascista deve eseguire la violenza e obbedire.

La paura è il rischio più grande e, seppur bambini, questi ideali soldatini fascisti devono essere fieri e coraggiosi (non è apprezzato il coraggio di dire no, che invece un Lucignolo ormai conquistato dalle verità sincere di Pinocchio sbatte in faccia al padre gerarca).

Il ribaltamento

In questo mondo di disciplina, violenza e certezze, si consuma il ribaltamento più straordinario del Pinocchio di Del Toro: Pinocchio è sincero e le menzogne stanno dalla parte del regime, dalla parte di un Fascismo che impone ai bambini un «progetto militare elitario per una gioventù patriottica»: bugia per eccellenza, che spaccia per vantaggio d’élite e per amor di patria una guerra che fa paura e che appare in tutta la sua insensatezza.

Le favole si sa, sono spesso universi ribaltati, dove gli animali parlano e imparano meglio e più degli uomini. Ma qui avviene di più: Pinocchio, burattino per eccellenza, è serio, impegnato, sensibile e per lo più sincero, mentre il burattino, i burattini, sono chiaramente i fascisti, che bugiardi, finiscono per muoversi a scatto più delle marionette nel loro saluto a braccio teso, che obbediscono senza volerlo, che non capiscono ma reagiscono: il re-Mussolini è nudo, nello spettacolo finale di Pinocchio che lo dileggia, e a smascherarlo con la verità (“Mussolini-Cacca”) è il burattino che ha la sincerità e l’irriverenza dell’infanzia.

È una specie di triplo salto metamorfico quello che il film propone: dagli umani ai burattini (da Geppetto a Pinocchio) ma poi dai burattini agli umani meccanici (da Pinocchio ai fascisti).

Su questo il film di del Toro costruisce il suo diverso Pinocchio, ed è per questo che il fascismo non è solo un elemento di sfondo, o un posticcio elemento di polemica memoriale à la page, in epoca di fascismi eterni, ma un elemento strutturante della nuova favola.

Se Pinocchio è stato da sempre il racconto di un burattino bugiardo che si fa bambino, il Pinocchio di del Toro è il racconto di adulti bugiardi che si fanno burattini: meccanici soldatini senza testa e senza cuore, mossi da un burattinaio su cui la Storia ha già espresso il suo giudizio, ma su cui manca la più umana e sincera delle reazioni: il riso del ridicolo.

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