Tre album usciti nei mesi scorsi segnalano l’eterno ritorno del post-punk inglese, inteso come genere «fissato nella sua struttura come il blues» secondo una definizione del critico Simon Reynolds. Blues bianco, benché una delle fonti del post-punk originario anni ’80 stesse nello scambio con la cultura giamaicana del dub e nell’attesa Rasta dell’apocalisse che gli inglesi si erano ritrovati in casa, immigrata.

Decisamente Brexit blues oggi, elaborazione di un trauma politico analogo all’effetto che l’elezione di Thatcher ebbe sulla musica di allora - attraversata non a caso da lampi distopici, sadomaso, guerriglieri. Il post-punk originario si sparse grigio e nero fino all’ultima provincia d’Europa, mettendo radici solide nell’Est post-sovietico che aveva del resto ispirato l’estetica di Manchester - i Joy Division e l’etichetta Factory.

Difficile dire se quella di oggi è ancora una retromania - sarebbe la seconda volta che il post-punk viene recuperato dopo i tempi di Franz Ferdinand e Strokes, forse la messa in salvo di quel che resta dell’antica scena indie o cos’altro. Reynolds, inventore del termine, propende per una reazione a «una paese stagnante e bloccato»: «L’anima della nazione - ha scritto di recente a questo proposito - brontola, piagnucola, si lamenta, reclama».

Introspezione e sarcasmo

I dischi, dunque. Skinty Fia dei Fontaines Dc riporta l’introspezione e il romanticismo maschile nella cornice del suono di Manchester anni ’80-’90, cupo e cavernoso come le fabbriche vuote. Cita Joy Division, The Smiths, arriva agli anni di Stone Roses e Verve. Meno che trentenni, irlandesi trasferiti a Londra (Dc è l’abbreviazione di Dublin City), sui loro testi aleggia una nostalgia da espatriati dove convivono Joyce e lampi di lingua gaelica. I suoni sono familiari a più di una generazione di ascoltatori che perciò li accolgono riconoscenti, come un’ancora di salvezza nel tempo marziano della trap e dei talent show.

Nel frattempo le Wet Leg, duo di ragazze nate nell’Isola di Wight, rimettono in scena il punk sarcastico delle prime girl-band: X Ray Spes, Slits. Più geometrico di allora, temperato dalla voga ironica del cosiddetto hyperpop. Il loro album omonimo ha raggiunto la vetta delle classifiche inglese. Era stato annunciato mesi fa dal singolo Chaise Longue in cui rovesciando il cliché le Wet Leg chiedevano al ragazzo in prima fila di venire sul retro a provare «chaise longue e birra calda».

La verità parziale

Su un altro piano, più adulto, c’è The Line Is a Curve di Kae Tempest, poet* e drammaturg* non binary, performer magnetica che arriva dal giro dell’hip-hop e della slam poetry. Al quinto album Kae cerca la via di un nuova connessione col mondo, fuori dalla “verità parziale” dei social. «Ogni volta che ci guardiamo allo specchio, ci mettiamo in posa», avverte nel suo saggio Connessioni tradotto in Italia da e/o, dove si cita il Libro Rosso di Jung e ci si appella alla capacità della parola in scena di creare comunità e empatia.

Un percorso che tocca evidentemente da vicino anche il suo recente coming out. Londinese, trentenne, una laurea in letteratura, nei suoi versi senti la poesia civile e visionaria di Joe Strummer, John Cooper Clarke, Linton Kwesi Johnson. L’anno scorso ha vinto il Leone d’Argento alla Biennale Teatro di Venezia per la produzione drammatica, off e arrabbiata nel pieno della tradizione inglese: atti unici sulle vite di homeless e carcerati; la più recente riscrittura della mitologia greca culminata con un Filottete abbandonato su un’isola di profughi in attesa, messo in scena la scorsa estate a Londra da una compagnia di sole donne-soldato.

The Line is a Curve si apre con un riff di sintetizzatore che sarebbe tranquillamente potuto appartenere ai primi Depeche Mode o agli Yazoo. «Si fa tutto per un nome/ la fama, se stessi in vendita/ un’identità nuova di zecca - recita Kae in Priority Boredom - Non puoi costruire granché sopra una verità parziale». Per frammenti, illuminazioni momentanee, tutto l’album pesca nella lontana memoria dell’elettropop inglese, declinazione particolare del postpunk, genere attraverso il quale è passata la pubblica educazione al sesso e all’identità collettiva di più di una generazione.

«All dressed up and nowhere to go», recita ancora citando un antico slogan della rivista Time Out, tra i versi dedicati all’amore/odio per l’Inghilterra con le sue «coste di sale/ e vecchi fantasmi». Particolari troppo precisi per essere casuali nelle scelte di Dan Carey, autore delle musiche, collaboratore di lunga data di Tempest e produttore dei suoi album, nonché musicista che l’accompagna sul palco nei concerti dal vivo.

Il suono analogico

Fatto interessante, Carey è il produttore di tutte e tre gli album: Wet Leg, Fontaines Dc, Kae Tempest. Cinquantatré anni, figura capace di ricucire la memoria storica della musica indipendente inglese, Carey ha iniziato a muoversi negli anni ’80 nel giro del dub giamaicano a Notting Hill, prima di passare a produrre rap e house music. Da quella prima esperienza deriva la sua etica di cultore del suono analogico, difensore dello spazio reale dello studio contro la smaterializzazione digitale.

Da Lee “Scratch” Perry, uno degli inventori del dub, ha imparato la magia dei circuiti e dei nastri magnetici. Dal guru Rick Rubin, che ha collaborato a questo disco di Kae Tempest e pure al precente The Book of Traps and Lesson, l’arte di costruire situazioni creative. A Londra, con la sua etichetta Speedy Wunderground, Carey aveva lavorato a progetti quasi concettuali, alla Brian Eno, imponendosi la regola di evitare il più possibile sovraincisioni e ripensamenti. Sono passate dal suo studio altre band inglesi ancor più radicali nella rilettura dell’eredità post-punk: Yard Act, Squid, Black Country New Road, e i londinesi black midi, che mescolano post-punk e cabaret nel loro terzo album in uscita il mese prossimo Hellfire.

Parola viva e nuda 

Il post-punk e la sua memoria sono legati fortemente alla “spazialità” del suono. Nell’eco cavernoso dei Joy Division c’era la vuotezza delle rovine industriali e sociali dell’epoca. È ancora più interessante rileggere in questa chiave l’appassionante appello di Kae Tempest alla forza della parola viva e nuda sulla scena. Come se il riverbero dei luoghi reali potesse amplificare l’effetto magico del respiro. I 12 brani di The Line is a curve sono stati registrati in una sola take, sul palco di un teatro, ripetuti per tre volte. La prima volta tra il pubblico c’erano alcuni ragazzini, la seconda volta l’amica poetessa Bridget Minamore, la terza un signore di 78 anni. «Tutto il corpo e la voce rispondono a chi è presente nella comunicazione reale», ha spiegato poi Kae. Per la cronaca è stata usata quasi tutta la seconda take, dove Bridget Minamore «ha sorriso tutto il tempo».

Più del solito i versi di Kae Tempest sono personali. Tirano in ballo gli attacchi di panico, lo smarrimento da lockdown, il coming out, le relazioni d’amore, le litigate. Sono il tentativo quasi sciamanico di darsi senz’altre difese nel percorso di transizione da «lesbica, grassa, maschiaccio, poco femminile e per niente virile, ansiosa, piena di vergogna e a disagio per la disforia».

Come il teatro, la poesia e la sua musica vivono nel suono e nella presenza. «Il canto e la storia - scrive con l’esperienza e la generosità di chi ha improvvisato versi a ogni angolo di strada, sui camion delle manifestazioni, nei teatri - ci mettono in contatto con il meglio e il peggio della nostra natura, ci consentono di identificarci con l’esperienza altrui e aumentano il nostro tasso di compassione». Kae è capace di farci ascoltare il rap - uno dei linguaggi dominanti nel pop degli ultimi trent’anni - come fosse nuovo e insieme antichissimo.

Jay Z che l'ha incontrat* durante la registrazione dell’album precedente nello studio di Rick Rubin ha detto di aver avuto improvvisamente la sensazione di essere stato sempre molto “pigro” nello scrivere rime. Rap nella scia delle poesia visionaria di William Blake, degli slogan incendiari di Joe Strummer. Traccia di un’esperienza collettiva, prima che esibizione ossessiva di sé.

I Fontaines Dc suonano l’8 giugno a Milano e il 16 agosto a Padova. Kae Tempest il 18 giugno al Torino Jazz Festival. Tornerà in Italia l’1 dicembre a Milano, il 2 dicembre a Roma, il 3 dicembre a Bologna. Gli Yard Act suoneranno a Palermo il 5 agosto, a Torino il 28 agosto. Gli Squid il 27 agosto a Torino. Le Wet Leg sono invece attese a Milano il 25 ottobre.

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