La grazia sovversiva del logos: cosa significa la scrittura

Claudio Piersanti con La finestra sul porto, Gramma Feltrinelli, ha vinto la sezione narrativa della prima edizione del Premio Maria Corti - Parole al centro. Ivano Fossati vince il Premio Corti alla carriera e Lino Leonardi con Razza, Il Mulino, alla saggistica. La cerimonia di premiazione si terrà venerdì 7 novembre alle 18 nell’Aula Magna dell’Università di Pavia. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia e l’Università degli Studi di Pavia, con il patrocinio del Comune di Pavia e il supporto del Collegio Ghislieri. La Fondazione Maria Corti, costituita dall’Università di Pavia il 18 ottobre 2007 per dar seguito alla volontà della grande studiosa, ha la missione di promuovere la ricerca, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, sostenendo le attività del Centro Manoscritti. La prima maestra che ho avuto è stata mia madre: per accompagnarmi nel sonno mi raccontava antiche fiabe, ma adorava anche leggermi i libri che amava. I miei primi ricordi sono legati alla sua lettura di Ben-Hur. Adoravo ascoltarla e lei, forse senza rendersene conto, mi introduceva nel mondo della scrittura indicandomi con l’indice le parole che andava leggendo. Anche per l’argomento, il libro parlava delle Giudea e di Gesù, ho collegato precocemente la parola a qualcosa di profondamente religioso – o magico, come avrei detto allora. Magico perché l’indice di mia madre mi ha insegnato a leggere e a scrivere, e nessuno, me compreso, ha mai saputo spiegare come sia successo. Vivevo in una famiglia dal reddito modesto, e in casa c’erano pochissimi libri. Tre enormi volumi della Sacra Bibbia, marroncini e tremendamente pesanti, il codice civile e quello penale di mio padre militare, I promessi sposi, il libro Cuore, Pinocchio, L’incompreso e pochissimi altri che non ricordo. Stavano tutti su un unico scaffale in sala da pranzo. Leggere e scrivere mi permetteva di accedere a mondi sconosciuti che mi sorprendevano di continuo senza annoiarmi mai. A volte la comprensione di quel che leggevo era difficile e allora rileggevo e rileggevo, perché questa è la prima regola che mi sono autoimposto: mai procedere se non hai capito. Dovevo capire ogni singola parola senza eccezione alcuna. Eco, Calvino e l’arte del riassunto: ma con Leopardi non funziona Il Divino Ma il mio adolescenziale apprendimento entusiasta si è subito scontrato con l’autorità paterna, che purtroppo considerava la lettura una sorta di perversione. Bisognava studiare quel che si doveva studiare per la scuola ma comprare libri di “stupidaggini” (letteratura, poesia) era da malati. Anche quel mio chiudermi nello sgabuzzino che avevo trasformato in studio non era affatto sano. Così, quando si scopriva che avevo acquistato un libro o l’ennesima penna stilografica utilizzando il conto aperto che avevamo nella cartoleria venivo punito severamente. Più crescevo più questa mia perversione peggiorava. Cosa diavolo facevo in quello sgabuzzino? Scrivevo, spesso copiando quel che leggevo, senza sapere che un vero scrittore ottocentesco l’aveva fatto prima di me: Robert Louis Stevenson. Copiai con una delle mie stilografiche da due soldi tutta L’isola del tesoro! Mi piaceva trascrivere e ascoltare il suono delle carte leggere che usavo (“veline” rubate nell’ufficio di mio padre). Quando l’inchiostro si asciugava scricchiolavano producendo una musica affascinante. Ma non copiavo soltanto. In prima media scrissi anche un romanzetto marinaro, senza essere mai salito su una barca più grande di un moscone. E anche lui scricchiolava, moltissimo. Lessi I promessi sposi, che avrei dovuto leggere in tre anni, e anche la Divina commedia. E anche l’Orlando furioso. Non ero affatto un secchione, anzi a scuola andavo molto male e malvolentieri, e le punizioni si sprecavano. Vero, sapevo scrivere senza errori e i miei temi erano buoni ma in generale ero un disastro. Il mio piccolo, inspiegabile talento letterario (che si estendeva solo a un’altra materia, la storia) veniva guardato con diffidenza, tanto che fui destinato a pessime scuole superiori, che peraltro frequentai saltuariamente, diventando anarchico all’età di quattordici anni. Una professoressa che era stata esclusa dalla sua scuola naturale (avrebbe dovuto insegnare latino e greco in un liceo) mi fece leggere privatamente tutta la tragedia greca, della quale mi innamorai. Il poco greco che riuscii a imparare mi affascinava: la parola “logos” in particolare, che scrivevo dovunque: λόγος. In principio era il logos – il verbo (Agostino), la parola. Il logos non è un attributo del Divino, è il Divino stesso. Ricordo che da adolescente rimasi sconvolto dalla voce di frère Roger Schutz che intonava in una chiesa ammantata di neve «La Parole s’est faite chair… Alleluia!» Ecco che le mie primissime letture tornavano, Ben-Hur, Gesù!, il cerchio si chiudeva. Non avevo la più pallida idea di cosa fosse uno scrittore ma avevo già deciso di esserlo. Solo i veri scrittori sanno scrivere racconti All’università Giunto in qualche modo all’università, e approdato alla mia amata Bologna, cominciai a studiare di più, ma i miei maestri non erano soltanto i professori della facoltà di Filosofia: quelli più importanti erano gli scrittori, i filosofi e i poeti che frequentavo. Uno in realtà era astrofisico, con una cultura umanistica straordinaria. Si chiamava Roberto Bergamini. Ogni libro citato da lui lo acquistavo e lo leggevo. E lo leggevo dalla prima all’ultima riga incluse le note. E poi ne parlavo con lui, o con Scalia, o con Celati, o Guido Neri. A loro, ma anche a Enzo Collotti e a Gianfranco Minguzzi, devo tutto quello che so. Avevo una doppia vita, come sempre. Facendo parte del movimento bolognese del ’77 ne ho combinate di tutti i colori, ma la sera, cascasse il mondo, sentivo il bisogno di leggere. Nel marzo del 1977 quasi tutti quelli che conoscevo erano in prigione, ma io la notte leggevo la Recherche fino all’alba. In francese, con la traduzione Einaudi accanto. Ero pieno di denunce e non mi importava. Mi sentivo molto più sovversivo come letterato che come anarchico. A ventitré anni cessai ogni attività politica e diventai sovversivo a tempo pieno. Solo i veri scrittori sanno scrivere racconti Attesa Finì in penombra Kropotkin e sprofondai nello Zibaldone di Leopardi. Il mio ultimo Maestro (e caro amico) fu anche il più importante: nella tarda giovinezza incontrai Romano Bilenchi. Conobbi anche altri scrittori e poeti ma con lui ebbi un rapporto speciale. Un’amicizia durata dieci anni, fino alla sua morte. Abbiamo parlato per giorni e giorni, immersi in una eterna nube di fumo. Di Vasilij Grossman, che eravamo in pochi a conoscere, di Tolstoj, del grande Meaulnes e del giovane Thibault, di Luzi, di Caterina da Siena, del Castello interiore di Teresa d’Avila che avevo comprato da Roversi, di san Giovanni della Croce e del Pellegrino cherubico di Angelus Silesius, e anche di politica, di Togliatti, che lui aveva conosciuto e che io detestavo con tutte le mie forze, di gatti, di ragazze, di figli. E della sua cara amica Maria Corti, che lui amava come persona, come scrittrice e come studiosa. Non era banale essere amati da lui. Romano era uomo di conflitti, era uno scrittore vero, e chi gli chiedeva un parere lo faceva a suo rischio e pericolo. Lui non “lisciava” il pelo ai lettori, non cercava di piacere, scriveva soltanto l’essenziale, e poteva aspettare per anni prima di scrivere cento pagine nuove. La scrittura è anche attesa, questo mi ha insegnato. Sapere che mi è stato assegnato il premio che porta il nome della sua amica Maria Corti mi ha commosso. Quando morì Romano lei mi chiamò per chiedermi le sue lettere, che non le consegnai. Le spedii però il mio primo libro con sue correzioni autografe. Romano aveva cancellato tutti gli avverbi di modo, sostituendoli con parole più aggraziate. Non si scrivono a caso, le parole, bisogna pensarle e ripensarle, perché hanno qualcosa di divino e non appartengono a noi soltanto. Piccoli brividi di piacere, quel gelato di Marcel Proust