Per capire che sta arrivando l’autunno non ho più bisogno di guardare il calendario, immalinconirmi per le giornate che si accorciano, comporre romantici haiku alle prime foglie che ingialliscono. Mi basta guardare il feed dei social (d’altronde abbiamo scelta? Possiamo sottrarci a questa cura Ludovico autoimposta?) e osservare le pubblicità sponsorizzate che si alternano a tweet e post: almeno nel mio caso, in questi giorni è tutto un fioccare di agende, agende giornaliere, settimanali, planner, quaderni, bullet journal, metodi giapponesi per pianificare i propri impegni, fino ai diari «creati per promuovere la felicità, sviluppare abitudini positive e nutrire menti curiose».

Che la situazione fosse grave l’ho capito quando mi proponevano un corso di «bullet journal creativo» che mi avrebbe permesso di creare da me «tutti i tipi di accessori per migliorare la gestione del tuo bullet journal, come inserti o segnalibri».

L’algoritmo ha messo insieme una mia passione (quello per la cartoleria), con una mia debolezza: il desiderio e l’incapacità di tenere traccia in maniera ordinata delle cose da fare, appuntarsi quelle fatte, memorizzare letture, visioni, segnarsi le spese e così via.

A ogni inizio anno, solare o scolastico, parto con le migliori intenzioni, e ogni volta dopo un paio di settimane tracollo e ammetto il fallimento. Non sono in grado non dico di tenere un diario, ma nemmeno una lista delle cose fatte.

Ho un amico che da più di vent’anni tiene un elenco di tutti i libri letti, film visti (e con chi), cene consumate, con chi le ha consumate e voto (non alla compagnia, mi ha rassicurato una volta che eravamo a cena insieme, ma al ristorante). A molti un comportamento simile creerà ansia: a me, che ne sono agli antipodi, molta invidia.

Tutte le app

Eppure l’imporsi del digitale, il fatto che viviamo in simbiosi con un computer dentro le nostre tasche, avrebbe dovuto risolvere un compito facile come quello di tenere traccia di un impegno o compilare una to-do list. Invece non solo non è così, ma ha aggravato il problema.

Non so quante app abbia provato negli anni, di certo abbastanza da scriverci un articolo (ma non vi tedierò su questo, tranquilli): Trello, Todoist, Remember the Milk, Things, Evernote, semplici file di testo, liste aggiornate attraverso Alexa, aggiungeteci lo sforzo per sincronizzarle con tutti i miei dispositivi, salvare i dati nel cloud e altro tempo perso dietro al tentativo di creare il “workflow” perfetto, l’ambiente cognitivo che mi permettesse di essere produttivo e felice.

Ma, ecco il punto: quando apriamo Word per scrivere un articolo o Powerpoint per preparare una presentazione, l’unica cosa che chiediamo al programma è di scrivere un testo o preparare delle slide, non di renderci felici.

Invece, in qualche modo, pensiamo che compilare una lista degli impegni sia già metà dell’impresa (spoiler: no), che mettere in ordine nelle cose da fare possa darci se non la felicità quantomeno un suo accettabilissimo surrogato: la serenità.

Ma il fatto stesso che esistano migliaia di app diverse e che decine ne nascano ogni mese, mentre di programmi (di massa) per scrivere o per le presentazioni ne esistono due o tre, dovrebbe metterci sull’attenti: forse stiamo esagerando a investire così tante aspettative di ordine, controllo e serenità nelle liste o nelle agende. Walter Chen e Rodrigo Guzman sono i fondatori di IDoneThis, un servizio che permette di creare check-list: quando lanciarono l’applicazione, nei primi anni dieci, notarono presto due strani fenomeni, opposti ma complementari.

La maggior parte degli utenti non completava i compiti che compilava, perché già verso altri lidi alla ricerca dell’impossibile to-do list perfetta. Mentre altri li completavano subito dopo averli scritti, quasi che il fine stesso di scrivere un impegno fosse poterlo subito segnare come “Fatto”. L’abbiamo fatto tutti, è vero: ma perché?

Missione compiuta 

Negli anni venti del novecento, la psicologa lituana Bluma Zeigarnik e il suo professore Kurt Lewin osservarono che il cameriere di un ristorante ricordava perfettamente le ordinazioni più complesse finché non portava i piatti in tavola per poi dimenticarsene subito dopo.

Con successivi esperimenti e ricerche, la psicologa teorizzò quello che da allora prese il nome di effetto Zeigarnik, cioè la tendenza del cervello umano a dimenticare i compiti portati a termine e, all’opposto, di ricordarsi quelli ancora in sospeso. Ecco perché ci calma e rasserena l’idea di cancellare un impegno da un lista: perché altrimenti non riusciamo a levarcelo dalla testa, a placare l’ansia.

Alla fine compilare una lista vuol dire decidere a quale compito dedicherò una parte piccola o grande dell’unica risorsa davvero non rinnovabile: il tempo che mi resta da vivere. Una questione – letteralmente – di vita o di morte. Ma a quanto ammonta questo capitale che sempre si intacca, questo gruzzoletto di tempo che ci viene dato alla nascita e che spendiamo un po’ ogni giorno?

Mettiamo che l’aspettativa media di vita per l’essere umano sia un’ottantina d’anni. Certo, sto generalizzando e togliendo dal piatto malattie, disgrazie, guerre e così via. Ma, anche così, quanto sono ottant’anni? Se siamo giovani, o anche solo di mezza età, sembra un tempo infinito o comunque molto ampio. Fenomeni come il cambiamento climatico e la pandemia, però, ci hanno insegnato che il cervello umano non è molto bravo a gestire grandezze numeriche e ancor di più temporali che esulano dalla sua esperienza immediata. Per questo forse dovremmo chiederci: quante settimane dura una vita umana? La settimana è una dimensione che sappiamo “visualizzare”, in qualche modo gestire. Ebbene ditemi, senza fare calcoli, di quante settimane è composta una vita? È la domanda che ha fatto lo scrittore Oliver Burkeman ricevendo le più varie risposte, anche che la vita di una persona è composta da più di centomila settimane.

Un’assurdità dato che 310.000 settimane è più o meno la durata di tutta la civiltà umana dai Sumeri a oggi. Invece quelle che ognuno di noi ha a disposizione sono solo quattromila settimane. Se vi sembrano tante provate a visualizzarle: basta un foglio di carta. Disegnate una griglia 52x80 e annerite una riga di quadratini per ogni anno che avete già consumato. Depressi?

Domare il tempo 

Burkeman, per molti anni autore di “Questa rubrica ti cambierà la vita” sul Guardian, ha scritto un libro, tra l’anti-self-help e l’indagine filosofica, dal titolo Four Thousand Weeks: Time Management for Mortals appena uscito nel Regno Unito. Fare i conti con quella che Heidegger chiamava finitudine a partire dai piccoli gesti di ogni giorno come compilare una lista o decidere a quale impegno dare la precedenza, conduce Burkeman innanzitutto a sbarazzarsi delle centinaia di libri che ci vendono il metodo definitivo per la produttività, tipo dividere ogni compito in micro-task di venti minuti come Jeff Bezos o chi per lui.

Stupidaggini (o meglio, astuzie di quella cultura della produttività che prova a vendere la cura ai mali che essa stessa ha creato), tanto «nessuno nella storia dell’umanità ha mai raggiunto l’equilibro vita-lavoro, qualsiasi cosa significhi, e di certo non ci riuscirai tu copiando “le sei cose che le persone di successo fanno prima delle sette di mattina”».

Così come la pratica che gli inglesi chiamano “clearing the decks”, cioè di finire tutti i compiti noiosi prima di dedicarsi alle cose importanti, o l’agognato “inbox zero”: questo perché «i compiti noiosi e stupidi sembrano riprodursi la notte e si possono sprecare anni in questo modo rimandando sistematicamente le cose a cui si tiene di più».

Quindi il consiglio numero uno è: smetti di provarci con tutto questo investimento emotivo e nervoso. Non sarai mai produttivo come ti chiedono di essere, né farai tutte le cose ti vengono offerte. Facci pace. «Una volta che capisci che tanto perderai comunque quasi tutte le esperienze che il mondo ha da offrire, il fatto che ce ne siano così tante che non hai ancora sperimentato smette di sembrare un problema».

Un insegnamento zen che dovrebbe ricordarci a affrontare il rientro dalle vacanze in maniera un po’ più rilassata: l’industria della produttività vende prima di tutto sé stessa, i buoni propositi di inizio anno creano più ansia di quanto possano placare, all’inbox zero non ci arriveremo mai perché le mail inutili saranno sempre e comunque di più. Impariamo a dire: va bene così.

PS: se ve lo state chiedendo, da qualche tempo uso i Task di google, un sistema per gestire to-do list direttamente all’interno di Gmail. Con me, funziona.

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