Hanno rubato tutti i vestiti del guardaroba. Tutto completamente svaligiato. Non ci sono più gli abiti da sera, mancano gli abiti da casa, i cappotti pesanti e i foulard colorati. Mancano i nastri per i capelli, quelli in velluto, e mancano gli indumenti intimi che sporchi giacevano nella cesta degli indumenti da lavare. Non c’è più niente. Niente! Anzi no, una cosa è rimasta. È appesa lugubre e solitaria nell’armadio, si tratta di una abaya nera, la veste che copre per intero le donne del golfo persico e che si è diffusa nel resto del mondo arabo-musulmano. Una abaya spessa e lunghissima. Rimasta lei sola in quel vuoto a indicare una minaccia imminente.

Questo è il contenuto del racconto Un guardaroba completamente vuoto di Layla Ibrahim Al-Ahaydib, editorialista e critica letteraria saudita. Il suo racconto, breve e intenso, è di fatto un urlo politico femminista lanciato dal centro stesso di uno dei paesi, l’Arabia Saudita, più ostili alle donne. Questo racconto sorprendente, che tanto ci ricorda il sorriso delle attiviste saudite (pensiamo solo alla coraggiosa Loujain al-Hathloul) che non smettono di lottare, si trova in un’antologia di recente pubblicazione Voci di scrittori arabi di oggi e di domani (Bompiani) curata da una delle arabiste più note del nostro paese, Isabella Camera d’Afflitto, e dalla collega anche lei nota arabista, ora docente all’Orientale di Napoli, Maria Avino. Entrambe hanno quella capacità naturale di farsi ponte tra culture diverse, mediatrici tra mondi e geografie.

Questa antologia nasce da un lavoro precedente, curato dalla sola Isabella Camera d’Afflitto, pubblicato nel 1994 con il titolo Voci di Scrittori arabi di ieri e di oggi (Bompiani). L’obiettivo allora era quello di far conoscere a un pubblico non accademico e di non addetti ai lavori cosa si stava muovendo nella letteratura araba, prendendo in esame un arco temporale lungo che andava dagli anni cinquanta fino a quel decennio dei novanta del secolo scorso che avrebbe portato al mondo arabofono amare sorprese.

Un’antologia che aveva quindi un fortissimo valore letterario, ma che allo stesso tempo era una fotografia politica e sociale di una galassia fatta di pianeti grandi e piccoli. Era un’operazione all’epoca necessaria perché le notizie da questo vasto mondo che andava da al-Muhit ilà al-Khaliji, ovvero dall’oceano Atlantico al golfo persico, in Italia arrivano quasi sempre in modo distorto, a volte addirittura menzognero. Di fatto ci si era affidati alla cronaca geopolitica dei nostri telegiornali più che a una lente culturale e artistica. Ed è stato così che nell’immaginario italico i vecchi pregiudizi si sono fusi con le nuove tossiche immagini inferiorizzanti e per questo il mondo arabo che in testa avevano molti italiani era tutto fatto di donne discinte, harem sensuali, terroristi feroci, uomini barbuti, spose bambine e in generale un universo femminile sottomesso al maschio di casa.

Luca Scarlini d’altronde lo aveva ben spiegato in quel suo piccolo gioiello di alcuni anni fa dal titolo La paura preferita. Islam: fascino e minaccia nella cultura italiana (Bruno Mondadori). In poche pagine Scarlini, con la sua consueta maestria, era riuscito a farci capire quanto questi stereotipi, diffusi un po’ dappertutto dalla letteratura alla tradizione operistica occidentale, avessero inquinato una relazione tra mondo arabo e Italia, anche dal punto di vista culturale. Infatti i nostri e le nostre intellettuali spesso ancora oggi non guardano al mondo arabo.

Per formarsi i modelli sono sempre stati altri: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la più vicina Francia. Sono pochi quelli che hanno guardato al vicino Marocco, alla vicina Tunisia, a quell’amalgama di terre tra Tigri ed Eufrate per ispirarsi.

A un passo da Tunisi

Il dibattito in Italia è ancora molto lontano dal suo Mediterraneo e proprio per questo le realtà del mondo arabo ci sembra lontanissima, quasi aliena. Ma la realtà geografica ci dice ben altro, come ci ricorda spesso la docente Leila el Houssi, attualmente docente di storia e istituzioni dell’Africa all’università La Sapienza, Roma è più vicina a Tunisi che a Parigi. Per andare in Tunisia dal centro Italia ci vogliono solo 50 minuti. Ma questa vicinanza viene spesso rimossa. E per sentirsi più europea e più bianca di tutti l’Italia, rifiutando la sua identità mediterranea e meticcia, ha abbandonato la strada dell’arabo e di questo mondo che le assomiglia più di quanto immagina.

Oggi il panorama è diverso. E lo era anche nel 1994 quando Isabella Camera D’Afflitto cura la sua antologia, destinata a diventare un pilastro per chiunque avesse avuto il desiderio di avvicinarsi al mondo letterario in lingua araba. L’idea di Camera D’Afflitto era quella di unire il passato, ovvero quel mondo arabo che si affacciava tra gli anni Cinquanta e i Sessanta alla decolonizzazione, alle indipendenze (pur avendo nel ventre la ferita della dispersione dei palestinesi) a un presente dove si cominciavano a intravedere quelle crepe che avrebbero portato ai disastri degli anni duemila.

I temi erano lì sul tappeto: la tensione già forte fra laicità e religione, la questione femminile e quella guerra del golfo che con il suo carico di insicurezze già aveva fatto irruzione sulla scena globale. I paesi arabi erano “infelici” per riprendere l’immagine che Samir Kassir (che come sappiamo è stato brutalmente assassinato da un’autobomba a Beirut nel 2005) aveva dato nel suo pamphlet L’infelicità araba (Einaudi), un mondo che ha descritto ancora alla mercé dei dittatori che non volevano mollare l’osso del potere.

E per far capire questo lungo periodo che andava dal panafricanismo di Nasser alla fine delle illusioni portate dalla morte di Muḥammad Anwar al-Sādāt, dalla guerra civile in Libano, fino alla prima guerra del golfo, Isabella Camera d’Afflitto si è affidata ad alcuni fuoriclasse della letteratura araba. Basti pensare a Peperoncino, una delle prime novelle del premio nobel Nagib Mahfuz, o il palestinese Ghassan Kanafani che ne La terra delle arance tristi, sviscera il dolore dell’esilio.

Nei racconti dell’antologia ci sono prostitute, figli di divorziati, contadini, coppie miste, drammi famigliari e sociali, mescolati insieme in un arabo classico impeccabile, dal retrogusto esistenzialista. Lo capiamo leggendo un racconto delicato come Lettera a Helen, che riprende in chiave positiva qualcosa che lo scrittore sudanese Al-Tayyib Salih aveva analizzato in Le stagioni della migrazione a Nord (Sellerio), dove non c’è scambio culturale come nel racconto, ma solo morte.

Allora i letterati e le letterate gravitavano intorno a riviste letterarie, come la libanese Al-Adab, e c’era anche nella forma breve la voglia di unire il Kana ma Kana, il c’era una volta, ovvero la tradizione della novella araba, con argomenti più contemporanei.

Rinascimento indotto

Ora leggendo quei racconti ci troviamo molti dei temi che ancora agitano il mondo arabo. Oggi gli esìli si sono moltiplicati, anche i conflitti sono aumentati e la dicotomia tra laicità e religione si è totalmente esacerbata. E da questo quadro in movimento è nato Voci di scrittori arabi di oggi e domani, che in fondo è figlia dell’antologia del ’94. Molte le similitudini con i decenni precedenti, ma anche molte differenze. Si sono affacciati nell’agorà letteraria araba paesi emergenti, quelli del golfo persico, che non solo hanno una scena creativa ricca, anche femminile, ma ormai sono diventati i nuovi centri della produzione letteraria araba. Paesi come Emirati, Qatar, Arabia Saudita e Oman sono il fulcro di una rivoluzione nel mondo della produzione editoriale.

Un “rinascimento” indotto dalla mole di denaro che ha portato le élite del golfo a investire ingenti somme nella comunicazione (pensiamo solo ai canali satellitari) e nella cultura mainstream, come l’apertura di sedi “sorelle” di noti musei occidentali. Anche questo di fatto è creazione di soft power o peggio il modo per nascondere le brutalità dei regimi al potere.

Comunque il soft power esiste. Basti pensare che un premio come il man Booker Prize International nel 2019 è stato assegnato all’omanita Jokha Alharthi, la prima scrittrice del suo paese tradotta in inglese. Il suo Celestial bodies tradotto dall’ottima Marilyn Booth è stato un grande successo nei paesi di lingua inglese (e presto lo troveremo anche nelle librerie italiane) e ha aperto in molte riviste letterarie americane approfondimenti sulla letteratura femminile dei paesi del golfo. La storia poi è di quelle che incuriosiscono non per la trama in sé, il romanzo racconta di tre sorelle di ceto medio-borghese nel villaggio omanita di Al Awafi, ma perché ci dà lo spaccato di una società ricca, piena di contraddizioni e di cui nel mondo occidentale, Italia compresa, non sappiamo niente. E queste letterature emergenti hanno avuto nell’antologia curata da D’Afflitto e Avino un posto sicuramente rilevante.

La saudita Umaya al-Khamis, nel racconto Una ragazza come si deve, senza peli sulla lingua racconta le disillusioni di una ragazza dopo il matrimonio, o l’omanita Mahmud al-Rahbi, in L’urlo di Munch, ci presenta la lotta di due fratelli, una sorta di Caino e Abele omanita. Insomma c’è da che sorprendersi.

Naturalmente l’antologia non è solo golfo. Ma ci sono anche molti siriani, che come i palestinesi (presenti anche in questa antologia), cercano di dare a sé stessi una spiegazione di quell’apocalisse di fuoco e morte che ha colpito l’amata Siria. Poi c’è il dramma della migrazione verso l’Europa, ma anche verso i ricchi paesi del golfo da parte di giovani maghrebini impoveriti dal un mondo che non li lascia respirare. E poi ci sono le onnipresenti prigioni. La repressione dopo le rivolte giovanili, l’eco dei gelsomini tunisini da una parte e di piazza Tahrir dall’altra. C’è tanto corpo e anche parecchi fantasmi in questi nuovi racconti. Tanto sesso. Soprattutto c’è il desiderio.

Le curatrici hanno puntato sulla complessità di questo mondo che parla e scrive in arabo, e sono andati a cercare i racconti da pubblicare non solo nelle riviste letterarie, ma anche nei blog e in piattaforme di scrittura creativa. E tra i tanti temi si affaccia per la prima volta la distopia, spesso in forma di horror o fantascienza. Gli autori e le autrici dell’antologia sono connessi con il mondo e portano la stessa lingua araba a contaminarsi.

L’arabo scritto è sempre stato quello classico, il fusha, i dialetti dei vari paesi (che poi più che dialetti sono lingue vere e proprie come il volgare italiano del Trecento) non erano considerati adatti alla scrittura, ma ora anche questo sta cambiando. L’arabo della letteratura di oggi si riempie di dialettismi, gergo, slang di strada. Insomma di vita. E il mondo arabo è più intrecciato che mai, con un’identità crocevia tra Asia, Africa ed Europa. Non è un caso che nel bel volume Arabpop: Arte e letteratura in rivolta dai paesi arabi (Mimesis) un volume di saggi curato di Chiara Comito e Silvia Moresi e che mette al centro la generazione dei giovani in rivolta, ci si chiede (proprio nel saggio di una delle curatrici Chiara Comito) se è il momento del romanzo arabo. La risposta è sì. E anche del racconto.


Isabella Camera D’Afflitto e Maria Avino sono le curatrici del libro Voci di scrittori arabi di oggi e di domani, edito da Bompiani

 

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