Gli italiani oggi anziani che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta hanno lavorato a Togliatti hanno tutti dei bellissimi ricordi.

Sulle prime mi dico che hanno semplicemente la memoria settata sul bene e hanno dimenticato il male. Intanto perché erano giovani – giovani veri, non i giovani brizzolati di oggi – ed era quasi sempre il primo viaggio della loro vita, la gran parte non era mai uscita non solo dall’Italia ma dal Piemonte. È come il servizio militare: non lo si rimpiange per la vita di caserma o per le marce, ma per i propri vent’anni. C’è questo, naturalmente; ma c’è anche, nei reduci, la sensazione di aver partecipato a un’impresa capitalistica buona. Si andava in Unione sovietica per dimostrare, per insegnare. E insegnare a gente che voleva imparare, che remava nella stessa direzione in cui remavano gli istruttori italiani.

Vendere s’era già venduto: ora bisognava costruire insieme, in uno sforzo concorde, e la costruzione della fabbrica, e quella parallela della città, oltre a rappresentare una sfida appassionante in sé, era avvolta da una retorica da corsa all’oro: «Sorsero sul Vaz le voci più inverosimili. Se ne parlava come di una specie di paradiso italiano, dove i salari, di entità simili a quelli occidentali, venivano corrisposti in busta paga ogni settimana» (Filippo Bucarelli, L’organizzazione scientifica del lavoro in URSS, Franco Angeli Editore, Milano 1979, p. 100).

Foto Giovanna Silva

Poi ovviamente non c’era nessun paradiso, anzi al contrario, un mucchio di fatica e di freddo, ma queste fantasie sono un pegno dello stato d’animo euforico con cui la gran parte dei giovani italiani e dei giovani sovietici deve aver vissuto la sua avventura a Togliatti. In qualsiasi esperienza conta soprattutto il lato umano, il modo in cui ci hanno trattato, le facce scure o – e sembra essere stato questo il caso – sorridenti che ci hanno accolto.

I disagi materiali si dimenticano, specie se si è giovani e si è abituati alla parsimonia, a una vita senza comodità, e la generazione dei nati con la guerra lo era. Per questo, quando domandavo se non si stancavano dei pasti sempre uguali, della frutta e della carne introvabili o cattive, dei cessi in comune, i miei interlocutori sorridevano. Sono cose che si superano, che si dimenticano.

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Togliatti per le donne

Per le donne era più dura. Le donne, le poche giovani mogli dei tecnici e dei dirigenti che avevano seguito i mariti a Togliatti, si trovavano catapultate in mezzo a quella steppa spesso senza avere mai viaggiato prima, senza sapere una parola di russo e senza granché da fare, chiuse in casa da sole col buio che arriva alle quattro del pomeriggio, e niente tv, niente club del libro, niente tè con le amiche, niente passeggiata sotto i portici perché ci sono trenta gradi sottozero e non ci sono portici, solo la noia sovietica e, il sabato, la cena con gli altri italiani, con il vitto che si riusciva a racimolare in una settimana di caccia e qualche rara bottiglia di vino o di vodka.

A queste mogli italiane deportate a Togliatti sono rimaste impresse soprattutto le altre donne, le donne sovietiche che incrociavano per strada, nei negozi.

«Eh sì – dice Anna Garesio, che mezzo secolo fa ha seguito il marito Giuseppe in quelle steppe – bisognava capirle, non erano amichevoli, non era facile per loro essere amichevoli. Noi avevamo quello che loro avrebbero voluto avere: vestiti, cibo, alcool, la possibilità di viaggiare, un appartamento tutto per noi, qualche soldo in tasca. L’invidia era naturale. Poi, col tempo capitava di conoscersi un po’ meglio. Ma naturalmente c’era l’ostacolo della lingua».

A differenza di quanto accadeva a Mirafiori, dove le operaie non arrivavano al 3 per cento della forza-lavoro, a Togliatti erano il 32 per cento. Si vedevano. E anche gli italiani si vedevano, in fabbrica e fuori. Tania arrivò a Togliatti da una cittadina degli Urali quando aveva diciott’anni.

«Ci sembrava di vivere un sogno. Per la prima volta ci aprivamo agli stranieri. Un po’ come al tempo di Pietro il Grande, che con Pietroburgo si apriva all’Europa… Appena arrivata, ci hanno dato subito la casa e il lavoro, io fui assegnata a un ufficio, con mansioni di ragioniere… E gli italiani erano dappertutto, negli uffici, in fabbrica: non si poteva non vederli» (testimonianza raccolta da Gian Piero Palombini, Togliatti(grad), l’utopia della città-fabbrica, in Historia Magistra 22 [2016], p. 137).

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Relazioni occasionali e matrimoni

Sesso? Ma certo. Solo che su questo, com’è logico aspettarsi, le testimonianze sono più divaganti, sia perché i nostri testimoni sono per lo più persone sposate sia perché parlare di sesso, per chi è nato nella prima metà del Novecento, è cattiva educazione, è l’ultima cosa che si fa con qualcuno che si è appena conosciuto e che si presenta a casa vostra con un taccuino in mano.

Ma intanto consideriamo gli attori in campo: (1) alcune centinaia di uomini italiani, parte sposati parte celibi, quasi tutti al primo lungo soggiorno all’estero della loro vita; (2) giovani donne sovietiche ancora meno esperte del mondo, povere o poverissime per gli standard occidentali, sedotte dallo straniero e in particolare dall’occidentale, e in particolare dall’occidentale proveniente dall’Italia, che proprio in quegli anni si era trionfalmente annunciata sotto forma di Modugno, Celentano, Festival di Sanremo; (3) autorità sovietiche risolutamente contrarie a interazioni tra (1) e (2), tanto nella forma di relazioni occasionali quanto nella forma di relazioni stabili, fidanzamenti, matrimoni, per ovvie ragioni di prestigio nazionale: se se ne vanno con gli italiani vuol dire che in Italia pensano di poter stare meglio che in Unione sovietica.

Date queste premesse, si è sviluppata tutta la gamma delle possibilità. Astinenza, nei più temperanti. Ma anche molti rapporti occasionali. «Gli italiani stavano all’hotel Zhigulì», ci dice un veterano russo con cui siamo riusciti a entrare un po’ in confidenza. «Usciti dallo Zhigulì, dove adesso c’è il parco centrale, una volta c’era un bosco, un boschetto, e dall’altra parte c’era l’hotel Volga, e lì c’erano le ragazze. Alcuni ci andavano, altri non ci andavano». Per chi non poteva o voleva andare in albergo, o ricevere in casa, c’erano ripari di fortuna anche bizzarri. I componenti delle presse arrivavano in enormi casse da imballaggio in legno. Anziché buttarle via, gli italiani le portavano nel bosco lungo il Volga, e lì si trovavano con le ragazze.

Un po’ di gentilezza, di romanticismo (molto apprezzato, perché non si può dire che sia una specialità sovietica), qualche regalino, la vodka. Don Galasso Andreoli, il cappellano della fabbrica, li vedeva rientrare in albergo la mattina dopo, rimuginando pensieri amari: «È mattino, e mentre sto nella hall a dire il breviario, vedo un gruppo dei nostri rientrare nell’albergo dopo una notte trascorsa dove è facile indovinare. Alzo il capo, li saluto e faccio finta di nulla, ma quanta pena c’è in me […]! Aveva ragione S. Paolo d’esortare i coniugi a non stare lontani l’uno dall’altro se non per un breve tempo. Sei mesi, a mio giudizio, sono troppi. E si fanno contratti che durano oltre un anno!» (Don Galasso Andreoli, Cappellano con la Fiat a Togliattigrad, La Casa di Matriona, Milano 1991, p. 36).

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E poi c’erano i rapporti più duraturi, quasi stabili, quasi fidanzamenti, che però sfumavano quando l’operaio italiano era richiamato a Torino, cosa che gettava nella costernazione sia il richiamato sia la fidanzata sovietica. «Aiè ’ncura ’n travai da fé» (‘C’è ancora un lavoro da fare’), obiettava il richiamato sperando che il caposquadra si convincesse a tenerlo ancora lì per qualche settimana. «Ma Irina a piura» (‘Ma Irina piange’), implorava il richiamato davanti al rifiuto del caposquadra. Ma gli toccava partire, e Irina trovava presto da consolarsi.

Infine, i matrimoni: una trentina tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando quasi tutti i dipendenti della Fiat sono tornati in patria. Quasi. Uno è rimasto a Togliatti, si chiamava Franco Albertone. Qualcuno dei togliattesi con cui parliamo l’ha sentito nominare, qualcuno l’ha anche conosciuto, frequentato, ma poi l’ha perso di vista; oppure lo confonde con un altro, prende il cognome per il nome, cita qualche dimenticato Alberto... L’unica traccia di Franco Albertone è riemersa per caso, sfogliando il mega-dossier sulla storia della fabbrica (Tempo e destino, 500 pagine in cirillico fitte) raccolto da Eugenia Yuchnovich. Una ventina d’anni fa il giornalista Michele Farina lo ha intervistato per Sette del Corriere della Sera. Ma il fuoco dell’intervista non era il suo destino di ultimo italiano a Togliatti bensì il fatto di essere stato compagno di scuola di Umberto Eco. Titolo (redazionale): Due o tre cose che non sapete dell’Umberto.

Alessandrino come lui, Albertone aveva fatto due anni di elementari col piccolo Eco, e poi se l’era ritrovato ai ritiri spirituali organizzati dai frati cappuccini di Tortona. Poi le strade si erano separate. Eco era diventato Eco, mentre Albertone era entrato alla Fiat, nel 1971 era partito per Togliatti, aveva incontrato Tatiana, aveva fatto un figlio che la moglie aveva voluto chiamare Marcello, in onore di Mastroianni. Un giorno aveva scritto al suo vecchio compagno di scuola per rievocare i vecchi tempi, ed Eco gli aveva spedito a Togliatti una copia della nuova edizione del Diario minimo. Albertone aveva apprezzato particolarmente la finta intervista a Pietro Micca.

Farina l’aveva raggiunto al telefono nel suo appartamento di tre stanze «in un casermone lungo e grigio», una finta pizzeria italiana al piano terra, e appeso alla parete lo spadone d’acciaio che all’AutoVAZ usa regalare ai dipendenti quando compiono sessant’anni: «Una daga romana così l’Umberto se la sogna» (virgolettato nell’articolo: ma qui strazio si aggiunge a strazio perché Farina, che ho raggiunto al telefono, si ricorda a malapena di quell’intervista, non ha idee del perché l’abbia fatta, e insomma Franco Albertone forse io solo so ancora che visse).

Tornare a Torino

Altri, davanti all’alternativa tra tornare in fabbrica a Torino e restare a Togliatti non scelsero, o meglio scelsero entrambe le opzioni. Si fecero un’amante, forse una famiglia, anche a Togliatti, ci tornarono periodicamente, vissero per anni due vite, a volte aprirono un piccolo commercio Italia-Russia, avendo imparato i rudimenti della lingua, avendo collezionato un po’ di contatti utili, sapendo come muoversi.

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Ma di solito le cose furono più semplici, e le mogli sovietiche seguirono i mariti in Italia.

Oggi queste mogli – se ancora vive – sono anziane, e non muoiono dalla voglia di ricordare la vita che facevano nel paese che hanno abbandonato per sempre mezzo secolo fa. Molte, poi, non sono più mogli, i loro matrimoni non sono durati, il che non è molto sorprendente se si pensa alle condizioni in cui questi amori sono nati. Le donne non sapevano l’italiano, gli uomini non sapevano il russo, si andava avanti a gesti e sorrisi, col dizionario aperto tra le mani, ripetendo poche frasi cortesi imparate a memoria.

Le sfumature erano abolite. Inoltre, gli uomini italiani, finché stavano a Togliatti, avevano l’aura dello straniero, e dello straniero ricco. Si trovavano allo Zhigulì in giacca e cravatta, invitavano al buffet dell’albergo ragazze che non erano mai state al ristorante in vita loro, le facevano ballare, le abbagliavano con quei poveri lussi anni Sessanta, mentre su un monitor passavano i nastri registrati di Canzonissima, dei quiz di Bongiorno, delle partite di calcio.

Ogni tanto arrivava dall’Italia anche qualche ospite canoro: Garesio mi ha mostrato una foto dell’orchestra di Nini Rosso nella hall dello Zhigulì, in mezzo a maschi anziani che avevano la metà dei miei anni, tutti con la sigaretta in bocca o in mano, e basette pazzesche. Poi, arrivati in Italia, il glamour si dissolveva, l’uomo del destino tornava a essere uno dei tanti operai specializzati con la villetta a schiera nella cintura di Torino e due genitori un po’ straniti da questa moglie d’oltrecortina. La vita tornava ad avere confini molto angusti, troppo.


Cinquant’anni fa venne inaugurato a Togliatti, mille chilometri a sud-est di Mosca, un gigantesco impianto automobilistico per la produzione delle Zhigulì. A costruirlo furono operai e tecnici della FIAT.

Claudio Giunta (testo) e Giovanna Silva (fotografie) hanno raccontato la storia di quell’impresa in un libro: Togliatti. La fabbrica della FIAT, Milano, Humboldt 2020.

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