Il mar Tirreno si incuneava nella penisola come una spada che trafigge dal basso. Apriva a metà le province di Terni e di Viterbo, fino all’altezza del lago di Bolsena, che da tre secoli era tornato a essere il cratere secco e brullo di un antico vulcano, come il lago di Vico, quello di Bracciano e molti altri. Il fiordo tiberino aveva creato una grossa penisola in quello che una volta era l’alto Lazio.

 A nord del golfo di Maremma Latina, la costa era coronata da isole di recente formazione. Il golfo frastagliato di Saturnia era un’altra delle rare riserve naturali italiche – una meraviglia di anfratti marini, spiagge tropicali, sorgenti termali e rovine etrusche congelate nei secoli – protetta al largo dall’isola Alberese, dall’isola di Santo Stefano e dalle isole del Leccio sul lato meridionale. A sud invece il golfo di Maremma Latina si chiudeva con due magnifiche insenature profonde, mete ambite dai gitanti di tutto il Paese: il seno di Tarquinia e il seno di Aurelia. Qui venivano a depositare le uova le tartarughe marine tropicali che avevano colonizzato il Mediterraneo, attratte dalle sterminate popolazioni di meduse di cui questi animali sono ghiotti.

Grand Tour Italia 

La corriera a idrogeno del Grand Tour dell’Italia dell’Antropotrasporcene stava quindi per avvicinarsi a una delle destinazioni più agognate dai protagonisti dei Grand Tour antichi: quella Roma eternamente decaduta, sempre memore di imperi crollati, di commovente bellezza e disperante ingovernabilità.

Nessuno nel gruppo però avrebbe mai previsto la scioccante realtà di una capitale dislocata, invasa dall’acqua nei secoli e salvata solo grazie a un megalomane progetto di sollevamento e spostamento di ampie porzioni dell’urbe romana. La città che vantava il più vasto territorio metropolitano d’Europa ne era stata privata quasi completamente. La terra non era più ferma. Roma, del resto, era nata anche su terreni di antichissima bonifica strappati al mare, che ora cercava vendetta.
Con infida lentezza le acque si erano fatte strada da Ostia e da Fiumicino in su. Nei primi decenni era stato strano vedere come gli antichi porti insabbiati fossero tornati a essere lambiti dal mare. Era successo anche ad Aquileia e a Ravenna. Poi però anche i vecchi porti erano stati sommersi. Sulle prime si era pensato a una grande muraglia a forma di arco, da Cerveteri ad Anzio, ma il fondale era troppo spugnoso e instabile, ben presto sarebbe stato permeato. Quando il Tevere si era gonfiato e aveva iniziato a lambire l’Eur e il Corviale, si era passati al piano più ambizioso: innalzare e sparpagliare Roma.
Il resto sarebbe diventato un insieme di quartieri palafitticoli, come a Verona, Bologna e Firenze. Era stato un processo lungo che aveva stravolto la regione, una corsa al rallentatore contro il tempo, che dava ragione al mare, al formarsi di voragini, di laghi e di lagune. La città che si pensava eterna venne gradualmente infiltrata e impregnata.
Il fiordo tiberino per un primo tratto settentrionale era molto
stretto. La strada correva spesso a strapiombo e le acque in certi pas saggi sembravano ancora quelle di un largo fiume. Ma non scorreva nulla perché era acqua di mare, nel bel mezzo dell’Italia. Dopo Ponzano Romano l’insenatura tiberina si allargava, voltava verso sud e diventava un vero e proprio mare interno tiberino. Nel frattempo era già cominciata la periferia romana, che si era espansa in tutte le direzioni possibili: sfiorava il lago di Bracciano a nord e Pomezia a sud, inoltrandosi fino a oltre Tivoli e Guidonia all’interno. Le due sponde del mare Tiberino erano quindi addensate di nuovi quartieri, distretti industriali, capannoni, centri direzionali che un paio di secoli prima dovevano esser sembrati avveniristici. Il traffico fluviale era intenso e frequenti tunnel sottomarini portavano da una parte all’altra merci e persone. 

La Roma del 2786 era una metropoli tropicale i cui nervi scorrevano sottoterra e sottacqua, protesa in scambi commerciali che la collegavano a tutto il resto del mondo.  Ecco cosa gli sembrava questa Italia, impero di bellezza decaduto, pensò Milordo: un formicaio brulicante, una società che alla velocità orizzontale ha aggiunto la stratificazione verticale, vuoi per carenza di spazio geografico vuoi per difesa contro un clima
ormai inclemente.

Adesso ricollegava tutto: le città palafitticole, le metropoli di montagna, le mostruose conurbazioni, i tunnel transappenninici come gallerie di insetti, la solare civiltà acquatica adriatica con i suoi treni sottomarini, i villaggi antisismici fatti di bioplastiche
degradabili; e adesso Roma, persino lei, avvinta dal ritmo universale del 2786, trasformatasi in una parvenza del passato che dialoga con un presente che ancora non si capisce cos’è, perché muta incessantemente.
La conferma arrivò dopo pochi minuti. A una trentina di chilometri a nord rispetto a dove un tempo c’era il Colosseo, dopo un’ampia curva dell’autostrada, a sinistra si spalancava uno scenario mozzafiato.  Milordo vide aprirsi un vasto mare interno, detto mare del Lazio, che si allungava a est nella baia di Tivoli. L’autista disse che con il binocolo si poteva vedere, affacciata sulla scogliera, la Villa di Adriano, completamente rifatta nel 2700 esattamente come l’aveva progettata l’imperatore, in un periodo in cui la prevalenza del kitsch transumanista aveva reso ammissibili certe imprese di archeologia ricostruttiva.
Di fronte, mentre i ponti scavalcavano insenature usate come
riparo per navi cisterna, si vedeva l’isola Sallustia, circondata da quartieri di palafitte e da montagnole artificiali sopra le quali erano distribuiti, con una logica non chiara, i grandi monumenti romani celebri in ogni angolo d el pianeta e imitati da qualsiasi urbanista e architetto neo-nostalgico.
 Le sommità dei sette colli non si distinguevano più, perché in parte sommerse dall’acqua e in parte sommerse dalle abitazioni. Era tutto un continuum di edificazioni e di movimenti, un via vai, un formicaio appunto.

Il museo sommerso

La guida si era attivata per mostrarci i pezzi forti, ma non era necessario, tanto spiccavano, sopraelevati scenograficamente. Cinecittà aveva conquistato
la città, la riproduzione l’originale. L’effetto cartapesta divenne ancora più fastidioso quando la corriera cominciò a rallentare facendo scendere ogni tanto i turisti per qualche foto. Il Colosseo, il Foro Romano, la Domus Aurea, l’Ara Pacis, San Pietro, Castel Sant’Angelo e tutto il resto erano veri, forse, o almeno sembravano proprio loro, fatti a pezzi e ricomposti, ma per interromperne il decadimento erano
stati spalmati, o chissà impregnati, di resine e di fissanti. La scelta sarà stata anche motivata da esigenze di conservazione, ma quelle superfici lucide, quasi laccate, e riflettenti, erano un pugno nell’occhio e andavano ben oltre la musealizzazione estrema. Un trionfo di artificialità estetica, ammesso che vi fosse ancora qualcosa che si potesse dire naturale in quel termitaio antropocenico.

Nei tre giorni seguenti la guida fece del suo meglio per riassettare il puzzle disordinato della città eterna, finché tutte le tessere principali non furono rimesse al loro posto, ovviamente solo nella memoria giacché quelle reali erano scompaginate sulla superficie liscia e placida del mare del Lazio.

Si concessero anche due extra molto graditi (oltre alle trattorie romane che erano rimaste sempre le stesse, ma le cui verande affacciavano adesso tutte sul mare): un tour con un battello dal fondo trasparente per vedere alcuni monumenti che la municipalità aveva deciso di lasciare dov’erano o non aveva fatto in tempo a far riemergere (e quelli sì che sembrarono veri, finalmente, con le loro incrostazioni, le alghe, i cirripedi e i molluschi, un patrimonio sommerso); e infine una gita a Castel Gandolfo, sulla cresta del lago Albano asciutto, dove risiedeva stabilmente il papa dopo la scomparsa sottacqua dell’intera Città del Vaticano.

Qui Milordo notò, in un angolo, la statua di un certo papa Francesco, il primo papa, poi dimenticato, a scrivere otto secoli prima un’enciclica sulla necessità di salvare il clima e il pianeta per le generazioni future. Milordo concluse tra sé e sé che, in fondo, i sentimenti di chi faceva il Grand Tour nel Settecento o nell’Ottocento alla ricerca di antichità ed esperienze esteticamente forti, ancorché talvolta conturbanti, non erano poi tanto diversi dai suoi.

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