Dopo diversi conciliaboli io e mia moglie stabilimmo che il mare era una vacanza da buzzurri e la montagna da vecchi. Per Ferragosto quindi ripiegammo su un grande classico: la città d’arte.

– Sarà bollente, – avvisai.

– Gireremo per musei, – ribatté mia moglie.

Per prima cosa andammo in hotel a posare i bagagli. La voce registrata dell’ascensore annunciò: “Quinto piano, siamo arrivati al quinto piano”. Era una voce femminile, suadente, e mi lasciai scappare un sorrisetto.

In camera mia moglie accese e spense più volte tutte le luci, incaponendosi sugli interruttori. Poi chiamò la reception per farsi venire a regolare l’aria condizionata.

Il ragazzo spiegò paziente le varie funzioni del telecomando, mentre mia moglie annuiva sorridente. Per un momento mi sembrarono una coppia credibile, molto più credibile di quanto lo fossimo noi. Per quale ragione lui e non io, tra qualche minuto, avrebbe dovuto sparire in corridoio? Successe proprio così, naturalmente. Io e mia moglie restammo di nuovo soli nella stanza. Mia moglie registrò un nuovo codice per la cassaforte. Io stavo seduto sul bordo del letto, assorto.

– Fuori si crepa dal caldo, – disse mia moglie.

– Era stata la mia prima obiezione a questo viaggio, ma tu avevi detto che i musei ci avrebbero salvato.

– Davvero ho detto così? Non ho nessuna voglia di visitare un museo.

Chissà di che cosa aveva voglia, chissà se aveva ancora voglia di qualcosa. Fuori, passeggiammo per un paio d’ore nel centro storico di questa città d’arte – ormai una valeva l’altra – devastato dalle rotte tracciate per i turisti. Il Ferragosto gli dava il colpo di grazia, finiva di estenuarlo: nella calura del meriggio sudavano anche le statue.

Noi ci mettevamo del nostro. Non salimmo su una famosa cupola solo per paura delle vertigini.

– Troppi gradini, è una scarpinata da pazzi, – disse mia moglie.

– Ho le gambe molli alla sola idea.

– È oggettivamente impegnativo.

– Hai i fiori di Bach in borsa?

– Fiori di Bach? Per tentarci dovrei prendermi almeno mezzo Xanax.

Ci mettemmo a lato della biglietteria, guardammo vergognosi la fila scorrere.

– Siamo così strani e problematici? – chiese mia moglie.

– C’è tanta di quella gente che…

– Ti pesa non prendere la macchina e viaggiare sempre in treno?

– Non mi pesa per nulla.

A volte credevo che fobie e attacchi di panico fossero dei limiti che le coppie sbagliate si autoimponevano come flagello supplementare alla mancanza d’iniziativa, d’avventura. Dov’era la vita? Lontano dalle coppie infelici e dal Ferragosto, poco ma sicuro.

Dov’è la vita?

Passammo davanti alla vetrina di un negozio Intimissimi e mi venne voglia di regalare un completino a mia moglie: un baby doll nero, trasparente.

Entrambi eravamo stati contenti di quel teatrino estemporaneo, la complicità, i sorrisi alla commessa, il pacchetto.

Si andò a cena con la speranza che quella sera ci saremmo divertiti. Ma poi mi fissai con il pensiero della mia amante, con cui avevo chiuso definitivamente soltanto poche settimane prima.

Lei mi chiedeva di lasciare mia moglie, io le scrivevo su WhatsApp dei sonetti di Shakespeare. Tra me e la mia amante era finita perché avevamo due visioni opposte dell’amore: lei funzionale, io mitico-simbolica. Per lei l’amore era una forma alata di sussistenza, per me l’amore non serviva a niente. E d’altronde agosto era l’ecatombe degli amori clandestini, poiché era il periodo dell’anno dedicato alle famiglie (con o senza figli, cambiava poco).

Ferragosto in questo senso andava visto come una ricorrenza cupa e drammatica, la celebrazione della caducità di chi non avrebbe mai potuto festeggiarlo insieme.

– Che hai? – mi chiese mia moglie, a un certo punto.

– È troppo caldo, il servizio troppo sbrigativo, il conto troppo salato.

– Un tempo ci saremmo passati sopra. – Dici?

– Sai benissimo che è così.

Rientrammo in albergo stanchi di noi ma potemmo facilmente incolpare Ferragosto.

– Diciamoci la verità, a Ferragosto qualsiasi meta è sbagliata, – sentenziai.

– Sì, Ferragosto è un orribile capodanno in mutande, – mi dette manforte mia moglie.

Unico piacere

Restammo entrambi sul letto, immobili uno accanto all’altro, con un unico piacere disponile: il getto fresco dell’aria condizionata (ora regolato alla perfezione).

Poi mia moglie sparì in bagno per un tempo indefinibile. Oltre la finestra saliva il rumore della notte: qualcuno si divertiva davvero là fuori? Non ero sicuro ma provai lo stesso uno strano sentimento, a metà strada tra invidia e nostalgia.

Quando mia moglie uscì dal bagno io mi ero addormentato già da un pezzo. Si trattava di un sonno nato da uno sfinimento esistenziale più che da una reale stanchezza.

Dormire in fondo era un modo abbastanza semplice per fuggire. Per questa ragione mi risvegliai di colpo.

Sentii mia moglie russare senza particolare stupore. Era un sibilo nasale a cui ero abituato, che riusciva insieme a rassicurarmi e infastidirmi.

Scivolai fuori dal letto e mi misi in ascolto dei rumori della strada. Doveva essere molto tardi, perché non volava più una mosca.

Girai la maniglia della finestra per lanciare uno sguardo di sotto e subito l’aria condizionata si bloccò. La notte mi afferrò la faccia. Era catrame colloso. Chi si amava si era già amato, pensai. Chiusi la finestra e l’aria condizionata ripartì all’istante. Avevo paura che quel caldo improvviso potesse risvegliare mia moglie, e in quel momento non avrei avuto voglia della sua compagnia.

Continuai a pensare per conto mio. C’era chi perdeva l’amore e diventava un vincente, chi non si lavava più, chi si dava alle cripto valute, chi smetteva di credere in Dio, chi si abbonava a Netflix, chi si trasformava in un hater, chi scopava come un riccio, chi lo ritrovava subito e chi mai più.

Poi c’era il desiderio. Il desiderio era ancora più alto di quella cupola che nel pomeriggio non avevamo avuto il coraggio di raggiungere. Proprio perché era una pulsione non composita, semplice, basilare, il desiderio non poteva essere razionalizzato, analizzato, parcellizzato in ragionamenti.

Il desiderio non obbediva a nessuno, tranne che a sé stesso. Ci si poteva rendere desiderabili, tutt’al più, ma non potevi obbligare qualcuno a desiderarti. Il desiderio desiderava chi gli pareva. Il mio sguardo cadde sul baby doll che avevo regalato a mia moglie, giaceva ancora impacchettato sul suo comodino. In un attimo capii quel che avrei voluto fare. Infilai accappatoio e ciabatte lasciati in dotazione dall’hotel e uscii sul corridoio così com’ero, praticamente mezzo nudo. Chiamai l’ascensore al piano e quando le porte automatiche si aprirono mi sentii avvolto da un brivido di piacere. Entrai nell’ascensore, sospirai e premetti il tasto per il piano terra. I meccanismi si misero in moto e dopo una manciata di secondi la voce registrata femminile disse: “Piano terra, siamo arrivati al piano terra”. Chiusi gli occhi e mi godetti ogni singola sillaba. Poi lasciai che le porte si richiudessero e premetti il tasto per il quinto piano. La voce poco dopo annunciò: “Quinto piano, siamo arrivati al quinto piano”. Cazzo, se ci sapeva fare. Era ammiccante e dolce insieme, mi eccitava e mi coccolava allo stesso tempo. Forse mi misi a piangere e poi ricominciai il giro.

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