Il termine democrazia compare per la prima volta in Erodoto e sta per dire, traducendo letteralmente dal greco, potere (kratos) del popolo (demos). Ma dal III secolo a.C. al XIX secolo “democrazia” ha subito una lunga eclisse. L’esperienza delle democrazie antiche fu relativamente breve ed ebbe un decorso degenerativo. Aristotele classificò la democrazia tra le cattive forme di governo, e la parola democrazia divenne per oltre duemila anni una parola negativa, derogatoria.

Per millenni il regime politico ottimale venne detto “repubblica” (res publica, cosa di tutti), non democrazia. Kant ripeteva una comune opinione quando scriveva, nel 1795, che la democrazia «è necessariamente un dispotismo»; e dello stesso avviso erano i padri costituenti degli Stati Uniti. Nel Federalista Hamilton parla sempre di «repubblica rappresentativa», mai di democrazia (salvo che per condannarla). Anche la Rivoluzione francese si richiamava all’ideale repubblicano, e solo Robespierre, nel 1794, usò “democrazia” in senso elogiativo, assicurando così la cattiva reputazione della parola per un altro mezzo secolo.

Com’è che d’un tratto, dalla metà del XIX secolo in poi, la parola torna in auge e man mano acquista un significato apprezzativo?

Liberal-democrazia

La risposta – vedremo – è che la democrazia dei moderni, la democrazia che pratichiamo oggi, non è quella degli antichi. Oggi “democrazia” è un’abbreviazione che sta per liberal-democrazia. E mentre il discorso sulla democrazia degli antichi è relativamente semplice, il discorso sulla democrazia dei moderni è complesso.

Separiamone tre aspetti. Per un primo rispetto la democrazia un principio di legittimità. Per un secondo, la democrazia è un sistema politico chiamato a risolvere problemi di esercizio (non soltanto di titolarità) del potere. Per un terzo, la democrazia è un ideale.

1. La democrazia come principio di legittimità è anche l’elemento di continuità che collega il nome greco con la realtà del XX secolo. La legittimità democratica postula che il potere deriva dal demos, dal popolo, e che si fonda sul consenso “verificato” (non presunto) dei cittadini. La democrazia non accetta auto-investiture, e tantomeno accetta che il potere derivi dalla forza. Nelle democrazie il potere è legittimato (nonché condizionato e revocato) da libere e ricorrenti elezioni. Fin qui, peraltro, abbiamo stabilito soltanto che il popolo è titolare del potere. E il problema del potere non è soltanto di titolarità; è soprattutto di esercizio.

2. Finché un’esperienza democratica si applica a una collettività concreta, di presenti, di persone che interagiscono faccia a faccia, fino a quel momento titolarità ed esercizio del potere possono restare congiunti. In tal caso la democrazia è davvero autogoverno. Ma in quanti ci possiamo davvero autogovernare? Gli Ateniesi che deliberavano in piazza si aggiravano, si stima, tra i mille e i duemila. Ma se e quando il popolo diventa di decine o anche di centinaia di milioni di persone, qual è l’autogoverno che ne può risultare? È il problema risollevato, negli anni Sessanta, dal rilancio della formula della democrazia “partecipativa”. Il cittadino partecipante è il cittadino che esercita in proprio, per la quota che gli spetta, il potere di cui è titolare. L’esigenza di stimolare la partecipazione del cittadino è sacrosanta. La domanda resta: quanto grande, o quanto piccola, è la quota di esercizio del potere che spetta al cittadino che si autogoverna? Un quarantamilionesimo? Un centomilionesimo?

John Stuart Mill esattamente osservava che l’autogoverno in questione non è, in concreto, «il governo di ciascuno su di sé, ma il governo su ciascuno da parte di tutti gli altri», e ne ricavava che il problema non era più – nella democrazia estesa ai grandi numeri – di autogoverno, sebbene di limitazione e controllo sul governo. Inutile illudersi: la democrazia “in grande” non può che essere una democrazia rappresentativa che disgiunge la titolarità dall’esercizio per poi ricollegarli a mezzo dei meccanismi rappresentativi di trasmissione del potere. L’aggiunta di taluni istituti di democrazia diretta – quali il referendum e l’iniziativa popolare delle leggi – non toglie che le nostre siano democrazie indirette governate da rappresentanti.

3. A questa constatazione si può rispondere che la democrazia come è (nel fatto) non è la democrazia come dovrebbe essere, e che la democrazia è, prima di tutto e sopra tutto, un ideale. Tale è, in larga misura, la democrazia come autogoverno, come governo del popolo in persona propria su sé stesso. Tale è la democrazia egualitaria, e cioè ricondotta a un ideale generalizzato di sempre maggiore eguaglianza. Un elemento ideale o normativo è davvero costitutivo della democrazia: senza tensione ideale una democrazia non nasce e, una volta nata, rapidamente si affloscia. Più di qualsiasi altro regime politico la democrazia va controcorrente, contro le leggi inerziali che governano gli aggregati umani. Le monocrazie, le autocrazie, le dittature, sono facili, ci cascano addosso da sole; le democrazie sono difficili, debbono essere promosse e “credute”.

Posto che senza democrazia ideale non vi sarebbe democrazia reale, il problema diventa: com’è che gli ideali si rapportano alla realtà, com’è che un dover essere si converte in essere? Gran parte del dibattito sulla democrazia verte, più o meno consapevolmente, su questa domanda. Se fosse realizzato, un ideale non sarebbe più tale. E tanto più una democrazia si democratizza, tanto più la posta sale. Ma fino a che punto può essere alzata? L’esperienza storica insegna che a ideali smisurati corrispondono sempre catastrofi pratiche.

Le “due democrazie”

Comunque sia, in nessun caso la democrazia così com’è (definita descrittivamente) coincide, né coinciderà mai, con la democrazia per come vorremmo che fosse (definita prescrittivamente). La distinzione testé menzionata tra democrazia in senso descrittivo e democrazia in senso prescrittivo è importante non solo perché centra il dibattito sulla democrazia, ma anche perché ci aiuta a impostarlo correttamente.

Dopo la Seconda guerra mondiale si è sostenuto che le democrazie sono due, che al tipo occidentale si contrapponeva una democrazia “popolare” più autentica. L’autodeflagrazione, tra il 1989-1991, dei sistemi comunisti dell’est europeo e dello stesso regime sovietico ha risolto la questione: la cosiddetta democrazia “reale” (comunista) tale non era. Ma è pur sempre importante capire com’è che la tesi delle “due democrazie” sia stata dimostrata e creduta. Una corretta impostazione avrebbe richiesto un confronto tra i due casi condotto – giusta la distinzione tra prescrizioni e descrizioni – due volte: una volta tra gli ideali, e una volta tra i fatti. Ma i sostenitori della democrazia comunista hanno invece incrociato le accoppiate, paragonando gli ideali (non realizzati) del comunismo con i fatti (e i misfatti) delle democrazie liberali. In questo modo si vince sempre; ma solo sulla carta. La democrazia alternativa dell’est era un ideale senza realtà. La sola democrazia che esiste e che merita questo nome è la democrazia liberale.


Questo testo è tratto da Democrazia, Treccani libri

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