15 ottobre 2017: Alyssa Milano, attrice, twitta «if you’ve been sexually harassed or assaulted write me too as a reply to this tweet». Alla fine della giornata i tweet che contengono la parola “me too” sono 200.000, dopo due giorni 500.000. In ventiquattro ore, l’hashtag su Facebook viene utilizzato in 12 milioni di post. Le donne parlano dando voce a quello che è stato, fino a quel momento, solo un lunghissimo silenzio: in tutto il mondo si moltiplicano i racconti di abusi e violenze subite.

Quando il MeToo esplode, Kate Elizabeth Russell ha 33 anni, un dottorato di ricerca presso l’Università del Kansas e sta ultimando il suo primo romanzo, che ha iniziato a scrivere quando ne aveva 16 (nella casa in cui è cresciuta, sulla riva di un lago nel Maine, conserva montagne di diari che le sono stati molto utili durante la stesura del libro).

Kate scorre i tweet e inizia a sentirsi spaccata in due, tanto che dichiarerà: «Tutto ciò che potevamo fare l’una per l’altra era rispondere cliccando sul cuoricino. In un certo senso, sembrava solo evidenziare la nostra impotenza.

Con l’evoluzione del movimento, il modo in cui tutti questi traumi venivano sfornati attraverso la macchina dei contenuti di internet ha iniziato a sembrarmi perverso. Ho finito per sentirmi piuttosto alienata dal MeToo nel suo insieme nonostante fosse direttamente collegato al mio romanzo, al lavoro della mia vita, e ho usato quel senso di alienazione per modellare il conflitto centrale del libro».

Kate Elizabeth Russell

«Mia Vanessa bruna»

Il lavoro della sua vita si intitola My dark Vanessa, come un verso preso da Fuoco pallido di Vladimir Nabokov, lo scrittore che la ossessiona da quando ha 14 anni: «Vieni, lasciati adorare, accarezzare, mia Vanessa bruna».

La storia del suo romanzo si potrebbe facilmente riassumere in uno di quei tweet che stanno rimbalzando ovunque: una relazione sessuale tra una studentessa di 15 anni, Vanessa Wye, e il suo professore di 42 anni, Jacob Strane, in un libro che esplora il tema della coercizione e dell’abuso di potere, ma anche dell’amore.

All’arrivo nel dormitorio della scuola dove Vanessa incontrerà Strane, una professoressa dà a tutte le ragazze un fischietto antiaggressione definendolo «uno strumento di sicurezza in più». Vanessa domanda se anche i maschi li riceveranno, e le sue compagne alzano gli occhi al cielo.

Vanessa fa questa domanda non perché sia stupida, ma semplicemente perché non ha ancora contemplato che, nel mondo in cui si muove, è necessario per una donna difendersi dal potere degli uomini.

«In qualche modo intuivo già cosa mi aspettava. Quale ragazza non lo intuisce in realtà? Incombe su di noi la minaccia della violenza. Ti inculcano un senso di pericolo finché non inizia a sembrarti inevitabile. Cresci chiedendoti quando alla fine ti accadrà per davvero».

Intanto, molte donne a cui è successo per davvero hanno denunciato il produttore cinematografico Harvey Weinstein, il processo è in corso e Kate racconterà in un’intervista a Marie Claire: «Gli uomini di cui si parlava nelle storie che leggevo, e in particolare Weinstein, erano così mostruosi e grottescamente orribili. Sembrava diverso da quello che stavo scrivendo. L’abuso che Strane infligge a Vanessa è molto più simile a quello di una rana che viene lentamente bollita a morte in una pentola».

Nel 2018 l’agente di Kate presenta agli editori il romanzo e lei, che fino a quel momento fatica a pagare l’affitto, firma un contratto a sette cifre. Ben prima dell’uscita, la stampa definisce My dark Vanessa il «Lolita dell’era post #MeToo».

Gillian Flynn grida al miracolo e si scomoda persino Stephen King che lo descrive come: «A well-constructed package of dynamite». A gennaio del 2020 My dark Vanessa finalmente è in libreria e schizza subito nelle classifiche del New York Times e del Sunday Times. Tutti parlano di questo romanzo di finzione che però sembra così vero.

Nella nota di apertura al libro, Kate scrive di essere cresciuta e di aver frequentato le scuole nel Maine, di essersi iscritta in prima e seconda superiore in un istituto privato da cui si è ritirata per motivi personali. E prosegue: «So che le analogie tra questi dati biografici e alcuni elementi presenti nel romanzo potrebbero indurre i lettori a pensare che questa sia la storia segreta del mio passato. Non è così: la mia è un’opera di fantasia e personaggi e ambientazioni sono interamente immaginari. Questa non è la storia della mia vita».

Il confine tra vita e romanzo

Kate, dunque, traccia un confine chiaro tra la sua vita e il romanzo con cui ci fa precipitare all’inferno. Intanto, siamo arrivati alle battute finali del processo Weinstein: una giurata rischia di venire espulsa perché ha letto e recensito il libro, violando l’ordine del tribunale di non commentare temi attinenti al focus del processo.

Kate è improvvisamente ricca, ricchissima: tutto va bene, lei e il marito non vivono più con l’incubo di finire travolti dai debiti. Il motivo del successo del libro è contenuto già nella dedica iniziale alle «vere Dolores Haze e Vanessa Wye, le cui storie non sono ancora state ascoltate, credute o capite», perché Russell fa proprio questo: prova a capire ponendoci davanti al dubbio, ci fa indagare l’ossessione utilizzando la compassione per vittime e carnefici, problematizza il concetto di responsabilità.

La storia di My dark Vanessa copre un arco temporale di diciassette anni: dal 2000, quando i due protagonisti si incontrano, al 2017, quando a Strane piombano addosso le prime accuse, non ancora verificate, di abusi sessuali da altre ex allieve. I due non hanno più rapporti fisici da un pezzo perché lui la rifiuta: è diventata troppo vecchia.

Dunque, nel paradosso di sentirsi lei decrepita, Vanessa si ritrova a pietire quello che prima, a volte, la disgustava: «Ogni volta che lo contatto cerco di riportarlo indietro nel tempo, gli chiedo di raccontarmi ancora una volta cos’è successo. Di aiutarmi a capire. Perché io sono ancora bloccata qui. Andare avanti, per me, è impossibile».

Strane teme che un’eventuale dichiarazione di Vanessa sarebbe la sua pietra tombale: il licenziamento, un processo, il carcere, ma Vanessa non vuole denunciarlo, a lei interessa solo avere la certezza di essere stata l’unica. Così è lei a interrogare morbosamente le altre: «Ti ha solo toccato il ginocchio? Ti ha palpata?». La cosa importante è sapere che a lei Strane ha fatto di più, marcare una differenza.

Quando siamo più o meno a metà del libro dubitiamo di tutto, anche della definizione di mostro che pensavamo di avere chiara. E le parole di Vanessa ci fanno vacillare: «Anche se a volte la uso anch’io, la parola “abusi”, per descrivere alcune cose che mi sono state fatte, mi sembra che sulla bocca degli altri diventi orribile e assoluta. Inghiotte tutta la storia. Inghiotte me e tutte le volte che sono stata io a volerlo, a chiederlo».

Quando in un’intervista le domandano se pensa di aver scritto una storia d’amore, Russell dà una risposta che scortica: «Ho sempre cercato di camminare su questa linea, tra oh, questo è romantico o è qualcosa di più oscuro? Da adolescente e anche da giovane donna, non avrei mai usato la parola abusiva per descrivere la relazione tra i miei personaggi. La mia comprensione di cos’era una storia d’amore lasciava molto spazio all’ossessione e persino alla violenza, come in Wuthering Eights o in Jane Eyre. Il mio cambiamento è avvenuto nel corso degli anni in cui ho lavorato a questo romanzo e al mio sviluppo come persona e come donna».

Alfabeti amorosi

Mentre leggo queste parole di Kate, porto senza pensarci la mano al collo, e mi accarezzo un tatuaggio fatto a 15 anni. Ho scelto di farmi scrivere Heathcliff sulla pelle. All’epoca ho finto di avere un fidanzato che si chiamava così e ho detto a tutti che era morto in un incidente in moto perché lo trovavo più romantico (almeno a questo giro nessuna Catherine finiva sottoterra per lui).

Ho costruito il mio alfabeto amoroso su Cime tempestose di Emily Brontë: mi sono formata dunque per diventare una vittima consenziente? Anche io confondo l’amore con l’abuso?

My Dark Vanessa viene inserito nei titoli dell’Oprah’s Book Club, molti lettori dicono di essere rimasti spiazzati dalla protagonista: non è simpatica, non è buona, non prova empatia e si rifiuta di solidarizzare con le altre vittime, perché lei non si considera tale. Intanto, nonostante la nota introduttiva di Russell, parte il gioco delle analogie e delle speculazioni sulle infinite corrispondenze con il suo passato, mentre qualche critico domanda se è possibile o (meglio) corretto scrivere un libro di fiction che parli di abusi.

Sempre a gennaio, in questo mondo modellato a colpi di tweet, la scrittrice Wendy C. Ortiz, californiana di origini messicane, cinguetta di essere rimasta «impressionata» dalle somiglianze tra My dark Vanessa e il suo libro Excavation, uscito nel 2014.

Ortiz ha accumulato anni di rifiuti editoriali prima di trovare qualcuno disposto a pubblicare il suo memoir definito «troppo duro»: genitori alcolizzati e disperazioni varie che culminano in una relazione sessuale tra lei tredicenne e il suo insegnante. Una storia che prosegue per cinque anni, la devasta per molto tempo, e nel momento in cui parte alla carica contro Russell con il tweet al vetriolo, vede quell’insegnante registrato come molestatore sessuale.

Insomma, nessun contratto milionario per Ortiz, nessun cambiamento di vita. Poi arriva Kate, una bianca che finge di aver vissuto quello che lei ha vissuto (sue parole: «A book that sounds like a fictional take on a reality I lived»), la quale dichiara persino di aver letto il suo libro come documentazione insieme a molti altri titoli e studi clinici sugli abusi sessuali e la pedofilia, e voilà: il mondo si inchina.

Così Ortiz scrive il suo tweet d’accusa. L’aria inizia a cambiare. In molti adesso suggeriscono che ciò che ha messo in scena Russell sia semplice vampirizzazione delle vite degli altri. Kate tenta una via conciliatoria: scrive a Wendy una mail, le propone di inviarle una copia del suo libro (che Ortiz ammette di non aver letto), ma non riceve alcuna risposta. Poi Ortiz dichiara in un’intervista: «Non voglio leggere My dark Vanessa e non ho alcun interesse per quella storia, romanzata, sensazionalizzata». L’Oprah’s Book Club elimina il libro dalla sua selezione per evitare polemiche.

A questo punto arriva il vero colpo di scena. Kate si cancella da Twitter e decide di pubblicare una dichiarazione rivolta ai lettori, sul suo sito. In questa lettera rivela che sì, in realtà tutto quello che viene raccontato in My dark Vanessa lei lo ha vissuto per davvero, ma non voleva dirlo perché mettere una distanza tra la sua vita privata e un testo letterario, mandare la sua storia in giro per il mondo come una vicenda di finzione, l’avrebbe protetta da una violenza che non era in grado di rivivere. E invece, così, Wendy C. Ortiz e l’opinione pubblica l’hanno costretta a «giustificarsi» dal momento che: «Se non vivi un abuso non sei legittimata a raccontarlo».

A questo punto Kate aggiunge: «Non credo che dovremmo obbligare le vittime a condividere i dettagli del loro trauma personale con il pubblico. La decisione se farsi avanti o meno dovrebbe sempre essere una scelta personale».

Con questa lettera le polemiche vengono spazzate via, come se Kate avesse riguadagnato sul campo il diritto a raccontare la stessa storia.

Sarebbe accaduto lo stesso processo alle intenzioni, se si fosse trattato di un uomo? Kate ha provato a raccontare un trauma senza dover passare per l’autocertificazione delle proprie ferite, non glielo hanno permesso. È questo, credo, il fuoco di tutto: chi può raccontare cosa?

La memoria esperienziale diretta è l’unica fonte di autenticità? Uno scrittore come Stephen King ha raccontato per esempio di donne abusate come forse molte donne abusate non avrebbero potuto o saputo. Le sue Dolores, Carrie, Wendy, Bev sono ragazzine e donne spaventose, perché non vogliono più essere spaventate.

E King restituisce loro, in mezzo al sangue e all’orrore, la forza di un riscatto che spesso, nella vita vera, non c’è. Quindi, un uomo che non è stato abusato ha potuto raccontare in prima persona fingendosi donna violata perché la narrazione prende il ricordo e lo trasforma in memoria, e anche il dolore non vissuto può essere compreso, raccontato e pianto.

Il narratore parte da un punto per arrivare a occupare uno spazio dove, finalmente, tutto può essere compreso, anche la realtà che non parte da un’esperienza diretta. Penso che Kate abbia ragione quando dice: «Puoi decidere quanto di te vuoi condividere».

E quello che lei ha voluto condividere con noi è la storia raccontata, questa volta, dalla sua Dolores Haze, mentre Humbert Humbert si fa da parte. In Mia inquieta Vanessa (questo il titolo del libro pubblicato in Italia da Mondadori), Strane regala a Vanessa una copia di Lolita e i due riscrivono così tanto la relazione di Dolores e Humbert che, a un certo punto, Vanessa non ricorda più se è Strane a regalarle un pigiamino con le fragole per la loro prima notte, o se lo ha letto nel libro di Nabokov.

Kate è Vanessa, Vanessa è Britney Spears che canta «Baby, non c’è niente che io non farei», Britney è Lolita che in questo gioco di specchi si trasforma di nuovo in Kate: nel suo profilo Instagram, aperto da poco, ecco una sua foto con gli occhiali rossi, a forma di cuore: «They’re for my book tour», recita la didascalia.

Anche tutte le altre foto scelte da Kate sono recenti. Indietro non si torna. Rinascere a 36 anni. Tra una Kate nel reparto surgelati del supermercato abbracciata a una confezione di burritos, il suo cane nei boschi e il marito avvinghiato alla statua di un orso bianco, scorro le foto del poster di Lolita, Britney Spears adolescente a letto con un Teletubbie (didascalia: «I just love her so much»), fotogrammi de Le vergini suicide e poi l’immagine di una pesca succosa e addentata, lasciata lì a raccontare quello che rimane quando ti mordono via la polpa.

Unica concessione, l’immagine profilo. Lì Kate si è scelta bambina: bocca a cuore imbronciata, nasino, occhi chiari, tanti capelli e una mollettina bianca in testa. Prima che tutto accadesse.

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