Gioia, solitudine e stanchezza: la maternità che non si racconta sui social

«Sono grata che mia figlia sia venuta al mondo», dice al telefono Lara Tomasetta, giornalista e autrice di Quello che le madri non dicono (ed. People Storie), chiedendomi di scriverlo, perché sia evidente che la maternità è tante cose – stanchezza, solitudine, fatica – ma che nel suo tentativo di costruire una narrazione alternativa a quella dominante (sei madre e quindi devi essere felice) non venga cancellata la gioia. Questo inizio è per la piccola Nives Amal, tutto il resto è per le neo-mamme che si sentono sole: sorella, non lo sei. Una gravidanza desiderata ma considerata impossibile a causa dell’endometriosi, un algoritmo che propone video di mamme super performanti che riescono a fare tutto nonostante i neonati (l’autrice ironizza: «Parliamo di una narrazione esasperata. Sono addirittura arrivata a chiedermi se i bimbi in questione fossero stati narcotizzati»), un sistema sanitario pubblico che non risponde alle esigenze minime e un’idea di maternità naturale e serena molto distante dalla realtà. In mezzo: pianti pieni di vergogna, giudizi mascherati da consigli, una vita da ridisegnare e un corpo che non sembra più il proprio. Lara Tomasetta, in 140 pagine di esperienze private, dati, ricerche e alcuni consigli, restituisce un racconto onesto di cosa significa essere madre oggi, in Italia. Quello stesso paese dove, spiega l’autrice, «il governo non aiuta le mamme a fare le mamme, anche se ci vogliono madri a tutti i costi. Per anni sono stata dall’altra parte della barricata: ho sofferto per non poter avere figli ma ho difeso il diritto all’aborto e alla libera scelta, il solo pensiero che una donna venga costretta ad ascoltare il battito del feto è una violenza che non ha nulla a che fare con la lotta alla denatalità. Servono assistenza, servizi e più asili». Abbandonate Un tempo c’erano grandi famiglie, con amiche, zie e nonne che sostenevano le neo-mamme: un microcosmo femminile rappresentativo di quel villaggio che, secondo il famoso proverbio africano, serve per far crescere un bambino. Oggi, tra l’aumento dell’età in cui si fanno figli, le migrazioni, l’individualismo e il capitalismo, molto spesso le madri sono abbandonate a loro stesse. [Missing Caption][Missing Credit] Lara Tomasetta scrive: «Arrivava la sera e io ero sempre lì, seduta sul letto con la bimba in braccio e la maglietta perennemente sporca di galattorea (cioè la secrezione del latte). Non ero riuscita a fare nulla, tutti i bisogni primari erano ridotti ai minimi termini. Mi chiedevo: ma capita soltanto a me? Come è possibile che sia passata pure questa giornata? Perché la bimba non dorme? Sono una cattiva madre? In realtà, l’ultima frase veniva formulata più come un’affermazione che una domanda». Seduta su quel letto, Lara Tomasetta è tutte noi: schiacciate dalle aspettative sociali, dai giudizi, dalla promessa che un naturale istinto ci avrebbe guidate – perché io non ce l’ho? – a lottare con la stanchezza, gli ormoni e il desidero che quella creaturina si senta amata e al sicuro. «C’è una dicotomia: o si è felici o stanche. Questo ci porta a pensare di dover corrispondere a un modello prestabilito perché nessuno ti spiega che dopo il parto hai un crollo fisiologico – baby blues –, che puoi piangere e che è normale. Che si perde lucidità, che si può chiedere aiuto». La maternità, spiega l’autrice, non è un istinto ma un percorso. Quello che manca, in Italia, è un sistema di supporto: in paesi come la Danimarca, che viene citata nel libro, esiste un’app che connette le mamme dello stesso quartiere per creare una piccola comunità. Frequentare altre mamme serve a costruire una rete di solidarietà tra pari e a sconfiggere la solitudine. Inoltre, sempre in Nord Europa, per diversi mesi è prevista l’assistenza di un’ostetrica a domicilio, che accompagna nel percorso di scoperta e crescita sia la mamma che il bebè. «Qui, quando il bambino nasce, la madre scompare. Letteralmente, quando incontro qualcuno per strada non saluta me ma mia figlia. Nessuno chiede alla madre come sta. Anche questo contribuisce a creare situazioni pericolose: ci si sente abbandonate, sia come persone che come madri». Ci vogliono tutte madri felici e non vedono la depressione Il lavoro Poi c’è il dopo. Cosa succede quando si decide ti tornare al lavoro? Secondo il report Le Equilibriste, la maternità in Italia nel 2025 a cura di Save The Children, citato dall’autrice nel libro, diventare madre ha un impatto molto forte sulla carriera lavorativa e contribuisce al 60 per cento della differenza occupazionale tra i generi. Con la maternità, tante donne hanno un calo del reddito del 33 per cento – definito child penality – e sempre secondo il report, solo il 68 per cento delle madri lavora a tempo pieno, contro il 72 per cento di chi non lo è, mentre la richiesta di part time è del 36 per cento per chi ha figli e del 22 per cento per chi non ne ha. Una soluzione sarebbe aumentare i servizi per l’infanzia e abbatterne i costi: «Se consideriamo ancora la nascita come un evento fondamentale per tutta la società, diventa evidente che la cura di ogni nuovo nato non possa gravare unicamente sul singolo, ma debba diventare collettiva», scrive Lara Tomasetta. Mentre cerchiamo di capire come gestire i tempi di vita e di lavoro, ci sono anche quelli di famiglia e coppia, di donna, madre e moglie. Anche qua, di naturale sembra esserci solo il senso di colpa: «La narrazione dominante – alimentata dalla cultura e amplificata dai social – dipinge la genitorialità come una fase meravigliosa, fatta di amore incondizionato e felicità. Poco spazio viene lasciato alla frustrazione, al risentimento, alla solitudine che spesso emergono nel privato e che, proprio perché non previsti, vengono vissuti con senso di colpa e smarrimento». Tormenti e vulnerabilità di genitori imperfetti Le contraddizioni In Quello che le madri non dicono l’autrice fa emergere le fatiche e le contraddizioni della maternità, molte di queste generate da aspettative sociali e da un modello culturale patriarcale da cui è difficile non essere influenzate ma, al contempo, si percepisce l’infinito amore che prova per la figlia, di come tutte le emozioni negative che attraversa non abbiano nulla a che vedere con lei ma con un sistema sociale che è necessario trasformare. Torniamo all’inizio, a quel «sono grata che mia figlia sia venuta al mondo» e alla faticosa conquista della consapevolezza che la maternità è tante cose: felicità e stanchezza, solitudine e gioia, senso di impotenza e divertimento. Ed è così che dovrebbe essere raccontata. «Le donne sono stanche»: così la scarsità di tempo produce e propaga il gender gap