Tutti i film di finzione sulle black panther cominciano allo stesso modo: con le immagini vere dei rivoluzionari più spettacolari d'ogni tempo. I baschi, le giacche di pelle nera, gli occhiali scuri. I volti corrucciati e i fucili. Le coreografie paramilitari. Il rap dei comizi.

Quando nel 1968 il vecchio regista di noir Jules Dassin gira Uptight!, cruda parabola di un infiltrato in un collettivo nero a Cleveland, mette sui titoli le immagini del funerale di Martin Luther King e la musica di Booker T. & Mg’s. (grande inizio). Nel 1995 Panther di Mario Van Peebles è preceduto da un montage di pantere, Luther King e Malcolm x sulla musica di James Brown, I feel good. L'ultimo Judas and the Black Messiah, uscito negli Usa su Hbo Max, sull'assassinio da parte dell'Fbi del presidente della sezione del black panther party di Chicago Fred Hampton, non fa eccezione. Prima di cominciare il regista Shaka King monta due minuti ancora con King, i ghetti in fiamme e, tripudio cinefilo, le immagini delle pantere girate da Agnes Varda nel 1968 a Oakland, i colori taglienti e bruciati di un 16 mm d'epoca. In sottofondo un coro d'epoca: «Revolution is the only solution».

È quasi un artificio retorico. Di fronte alla potenza iperrealista di quelle immagini ridiventiamo gli stessi radical-chic originali spiati dallo scrittore Tom Wolfe durante un leggendario party a casa del maestro Leonard Bernstein, in onore delle pantere. Free Huey Newton. Brothers and sisters. Come quando Marlon Brando, finanziatore nemmeno tanto segreto del partito, nell'aprile del 1968 partecipa al funerale della pantera Bob Hutton ucciso a diciassette anni in uno scontro con la polizia: «Non starò qui a fare un discorso – dice in cima al cassone di un camion – sono 400 anni che ascoltate uomini bianchi». Poi continua, sta tutto su youtube. Anche le immagini del “ministro dell'informazione” Eldridge Cleaver in esilio ad Algeri per il timore di essere ammazzato in galera. «Se ti interessa tanto la politica – dice in una lunga intervista del 1970 al fotografo-regista William Klein – allora molla la macchina da presa e prendi un fucile». Ha una maglietta gialla, il badge di Huey Newton sul petto, in galera con l'accusa di aver ucciso un poliziotto. I badge tondi con sopra gli slogan erano parte dell'outfit.

Dal punto di vista di Giuda

Le pantere nere erano già cinema, musical, teatro di strada. Vestiti uguali per nascondere l'identità di ognuno, con addosso il giaccone verde dell'esercito, una dichiarazione di guerra alla guerra, e di eleganza. Una specie di arte totale, da mettere in conto alle ortodossie e agli azzardi del Novecento.

Non a caso in Judas and Black Messiah per il ruolo di Fred Hampton è stato scelto l'anglo-ugandese Daniel Kaluuya, uno dei migliori attori della sua generazione, protagonista dell'horror antirazzista Get Out!, aiutante di T'challa in Black Panther.

La performance, sui luoghi e con le parole dell'azione reale, Chicago, sul set di fronte al figlio e alla moglie di Hampton che hanno approvato il film, ha un risvolto di trance agonistica. Come nella grande scena del comizio rap «I'm a revolutionary» («Puoi ammazzare un rivoluzionario/ma non puoi ammazzare la rivoluzione»), fedelmente riprodotto dalle registrazioni originale in una sala di fronte a qualche centinaio di comparse e attori, con il botta-e-risposta e il ritmo delle congas («fatemi sentire il ritmo del popolo!»).

Judas and the Black Messiah è un buon indicatore dei nuovi rapporti di forza a Hollywood. Dovrebbe quasi di sicuro partecipare alla serata degli Oscar. Uscito per la Warner bros, la produzione esecutiva all black di Ryan Coogler regista di Black Panther (la franchise Marvel, uno dei massimi incassi nella storia del cinema) attualmente al lavoro su un sequel e una serie tv dal fumetto.

Idea e soggetto vengono dai Lucas Bros., notevole coppia di comici gemelli laureati in filosofia (di loro si trova ancora un vecchio special su Netflix). L'idea è quella di raccontare la storia dal punto di vista di un infiltrato, Bill O'Neil (l'attore Lakeith Stanfield), un ladruncolo di macchine ingaggiato dall'Fbi. Nel pitch si citavano come modelli The Departed di Scorsese e Il conformista di Bertolucci. Va da sé l'eco biblica del tutto. Ma l'infiltrato è esistito davvero e il suo destino raddoppia l'amarezza della storia.

Ricattato con la minaccia della galera, indottrinato dall'agente Roy Mitchell (Jesse Plemons, grande faccia del nuovo cinema Usa) sull'equivalenza tra il Ku Klux Klan e le pantere, entrambi “violenti” proprio come Trump diceva di Black Lives Matters, infine Giuda travolto dal rimorso di aver contribuito all'operazione in cui fu ucciso Hampton. Nel 1989 O'Neil decise infine di svelare la sua vicenda alle telecamere di un documentario televisivo (Eyes on the prize, tutto su youtube, nel film viene mostrato qualche frammento). Pochi giorni dopo la messa in onda morì investito da un auto su una superstrada, ubriaco forse suicida.

Nemici pubblici

Le black panther erano state dichiarate nemici pubblici numero uno dal capo dell'Fbi Edgar J. Hoover, nel film un cameo notevole di Martin Sheen. Bersagli del famigerato programma Cointelpro, furono cancellate in pochi anni usando ogni metodo quasi sempre illecito. Il programma Cointelpro è uno dei grandi complotti degli anni Settanta. Come l'operazione Chaos, come il programma Blue moon: i movimenti rivoluzionari vennero messi a tacere rompendo segretamente tutte le regole, inondando infine le piazze con l'eroina.

Prima arrestato con l'accusa di aver rubato del gelato per i bambini dei breakfast program, le mense popolari gestite dalle pantere nei loro quartieri, poi liberato, Fred Hampton venne ucciso durante un vero e proprio raid dei federali. Solo un tribunale civile americano ammise con fatica l'evidenza – novanta colpi sparati dalle armi degli agenti – assegnando un risarcimento ai familiari. Hampton aveva solo 21 anni, una moglie e un figlio in arrivo.

Per la seconda volta in questa stagione compare in un film: in Chicago 7 è l'attore Kelvin Harrison jr., che entra brevemente in una scena a consigliare il leader delle pantere Bobby Seale sul banco degli imputati. Hampton era maoista, socialista, terzomondista. Nella sua oratoria provata e riprovata sui dischi di Malcolm X voleva «morire per il popolo, perché per il popolo ho vissuto».

Per questo qualcuno è rimasto male di fronte a un'affermazione del regista: «Anche se non te frega niente delle black panther, guardalo perché ti è piaciuto The Departed». Ma Shaka King (un tipo da Sundance, amante della commedia, non certo da film militanti) ha spiegato bene e con grande realismo, che passare per la lente del “genere” o del “crime” come si dice oggi è stato un modo per fare il film e bypassare il razzismo endemico del cinema americano.

In Judas and Black Messiah la politica se c'è è ridotta al minimo. Non è detto che sia un male: le panther furono anche preda delle proprie contraddizioni umane e ideologiche. Il lavoro di Hampton per formare una rainbow coalition con le bande di spacciatori latinos e i rivoluzionari bianchi della città è l'occasione per una scena (bella) alla West Side Story/Michael Jackson. La scuola e la cura per i bambini del quartiere, assieme all'idea di difendere la propria comunità (anche con le armi, come da Costituzione americana) ci appare anche oggi in tempi di pandemia uno di quei fiumi carsici della sinistra che uniscono luoghi e generazioni.

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