Tra le caratteristiche più paurose delle già di per sé inquietanti case del mare, di sicuro c’è il gabbiotto in giardino, quella casetta di legno o di pietra adibita a raccogliere gli oggetti più vari e disparati, quelli che non sono ben accetti nella costruzione principale.

Il gabbiotto è sempre pieno - straripa - di vecchie biciclette con le ruote sgonfie e relative pompe che non gonfiano più, con le valvole rotte; palloni di ogni foggia (su tutti due tipologie evergreen: il tango dei vecchi malati di pallone e il supertele, una sfera semi leggera che non serve propriamente per giocare a niente, ma è per tutti il pallone dell’estate); materassini bucati o impossibili da rimettere in acqua; braccioli, maschere pinne e boccagli inutilizzati da secoli che nessuno ha il coraggio di buttare; creme doposole stantie e confezioni di zampirone marcite; giornaletti muffi e libri improbabili letti e riletti (si va dai gialli di Agatha Christie, tipica lettura da ombrellone, alla critica di Hegel di Soren Kierkegaard, evidente testo scolastico di riparazione); attrezzi da lavoro di ogni tipo, e in particolare da giardinaggio, falciatrici e rastrelli buttati alla rinfusa.

Come se non bastasse, è notorio che in quella confusione prosperano i peggiori insetti del circondario, quali ragni, vespe, mosconi e perfino qualche biscia o serpententello marino. Oltre alla fauna anche la flora è pessima, spesso le mura sono infestate da erbacce senza nome o classificazione, dal pavimento spaccato o dalle crepe del soffitto escono o penzolano ciuffi di gramigna.

Le cose che finiscono nel gabbiotto sono spacciate e la loro dismissione chiama a sé la tenebra, come una maledizione che è il vero genius loci di ogni gabbiotto che si rispetti, a partire dall’odore, un tanfo inconfondibile di gomma bruciata e resina salmastra e cartone umido.

Una luce nel buio

Anche Cesare ne era sempre stato terrorizzato. Dal suo gabbiotto una volta era uscito un pipistrello, e durante una notte di San Lorenzo in cui era rimasto sveglio a guardare il cielo dalla sua camera, l’aveva visto accendersi come un’assurda lanterna maledetta, una zucca di Halloween del Ferragosto. Chi o che cosa nel cuore della notte aveva potuto accendere la luce del gabbiotto? Il fenomeno era durato una manciata di secondi, ma da quella sera Cesare aveva trovato qualsiasi scusa per non mettere più piede nel gabbiotto.

Se gli chiedevano di aprirlo per prendere questo o quell’attrezzo, tergiversava o semplicemente spariva, andando in spiaggia o rintanandosi nella sua cameretta (due posti senz’altro molto più sicuri di quell’antro oscuro, forse un portale per chissà quale universo parallelo, o se non altro il pericoloso sfintere del giardino).

Il gabbiotto maledetto

Cesare continuava a temere il gabbiotto anche adesso, che ormai era cresciuto e stava diventando «quasi grande», come era solito dire con il suo gruppo d’amici per non stare a circoscrivere troppo il problema dell’impazienza nell’età puberale. Fatto sta che se qualcuno dei suoi familiari gli chiedeva di andare nel gabbiotto lui proseguiva con le sue tattiche per svicolare. Aveva affinato una tecnica in particolare che si basava su una contro proposta.

«Cesare andresti nel gabbiotto a prendere le cesoie?», gli domandavano.

E lui: «Vado in pineta a buttare la spazzatura».

Era sempre viva nella memoria la luce del gabbiotto che si accendeva inspiegabilmente nel cuore della notte e, come se non bastasse, aveva trovato nel nonno un alleato in quei suoi timori.

«Bisogna girare alla larga dal gabbiotto», era solito dire il nonno, fumando il suo mezzo toscano dopo la cena. «Mai metterci piede. Là dentro ci sono troppi ricordi, troppa memoria delle estati passate. È una polveriera di nostalgie, chi ci entra rischia di saltare per aria».

L’amore rende coraggiosi

E così passarono le estati e Cesare crebbe ancora un po’ e allacciò una relazione con tal Sabrina. I juke boxe erano stati sostituiti dagli smartphone e i due passavano le giornate al tavolo di un bar vista mare, dividendo una sola cuffietta, un auricolare a testa, sospirando sulle stesse canzoni d’amore.  L’amore estivo che non fa male ma che non è meno ossessivo, e che porta con sé un desiderio che sia per Cesare che per Sabrina era improvvisamente diventato possibile, concretizzabile. Ma dove? Nessuno dei due aveva ancora la macchina, e come se non bastasse erano in vacanza con i genitori.

«Possiamo provare stanotte da me», azzardò Cesare. «I miei vanno a letto abbastanza presto e il giardino è grande».

«Sei sicuro?»

«Proviamo, la situazione dovrebbe essere tranquilla, e non abbiamo niente da perdere».

Il frigorifero è l’antigabbiotto

Giunse l’ora fatidica, il giardino della casa di Cesare era immerso nel buio di una notte senza luna, quando Sabrina fece capolino dal cancello. Il suo vestito leggero di cotone bianco spiccava nell’oscurità e scatenava il desiderio di Cesare. C’era un silenzio perfetto che nemmeno le cicale, di solito molto moleste d’agosto, osavano disturbare. I due ragazzi si baciarono sul divano esterno, ma a tutti e due fu chiaro che lì non avrebbero potuto spingersi oltre, perché quel salottino esterno dava proprio sulla finestra della camera dei genitori di Cesare, al primo piano.

«Proviamo a entrare in casa?», propose ingenuamente Sabrina.

Cesare accettò di fare il tentativo, ben sapendo che pochi gradini separavano la zona giorno dalla zona notte, e quella rampa esigua non li avrebbe protetti a dovere. Si misero comunque su una poltrona interna, lei sopra di lui, ma davvero il rumore era troppo forte, presto qualcuno da sopra si sarebbe affacciato.

«Beviamo qualcosa?», propose Cesare, per rendere meno amaro quel tentativo infruttuoso.

Sabrina annuì e in un battibaleno furono in cucina. Il frigorifero illuminò l’ambiente come un forziere magico. Nei ripiani le bibite analcoliche gasate sembravano pozioni della felicità, e le plastiche e i metalli colorati delle loro confezioni rifrangevano la luce in un rassicurante effetto stroboscopico.

Poco importava se quelle sbobbe zuccherose, se quei liquidi pastosi, dessero soltanto una illusione di refrigerio, se un attimo dopo il primo sorso si trasformassero in veleni gassosi che dilatavano gli stomaci, distruggevano cistifellee, otturavano pilori. Ecco, al contrario del gabbiotto che era una specie di tomba, il frigorifero era una discoteca piena di vita!

Mistero svelato

Dopo quel breve e illusorio ristoro in cucina Cesare capì che c’era un’unica soluzione: andare nel gabbiotto. Nel gabbiotto sarebbero stati al riparo da occhi indiscreti e al contempo liberi di fare tutto quello di cui avevano voglia.

«Ho un’idea», annunciò Cesare, con un timore nella voce che tentò di nascondere. «Il gabbiotto esterno sarà un nascondiglio perfetto».

Prese la famigerata chiave che non toccava da anni, e con il cuore che batteva aprì la piccola porta che introduceva allo stanzino malefico. Era una bizzarra soffitta in giardino, un grottesco sgabuzzino fuori dalla casa. E ancora per un istante Cesare fu sopraffatto da un terrore che adesso però non lo paralizzava più. Forse perché, senza capirlo appieno, intuiva che quella paura era quasi dolce, apparteneva a qualcosa che non sarebbe tornato più: la sua infanzia.

«È pieno di cianfrusaglie qui», si lamentò Sabrina. «E non si vede un bel niente». 

Cesare a quel punto avrebbe dovuto farsi largo tra le bici con le ruote sgonfie e i ricordi ingombranti delle estati passate. Ci riuscì, ma per farlo accese la luce per una manciata di secondi, lì dentro al gabbiotto. Solo allora pensò che sua sorella maggiore, in quella spaventosa notte di San Lorenzo di molti anni prima, doveva aver fatto la stessa identica cosa. Cesare buttò per terra un vecchio materassino che avrebbe fatto da alcova, e la paura del gabbiotto venne sostituita da una paura diversa, ancora più grande.

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