Ai ragazzi il carnevale non interessava neanche un po’: avevano girato tutto il giorno per calli e campi, restando stupefatti a ogni scorcio di quello strano pesce di caranto chiamato Venezia.

- Mi fanno male i piedi, - si lagnò la ragazza.

- Sono stremato anch’io, - confermò il ragazzo.

Per il pernotto avevano evitato le carissime stanzette di quindici metri quadri che si affacciano su Canal Grande - trappole per turisti - optando per una più comoda sistemazione sul Lido. Lasciarono piazza San Marco che il giovedì grasso impazzava, si tiravano stelle filanti e si rincorrevano piccioni. Raggiunsero il Lido all’imbrunire, ipnotizzati dallo sciabordio dell’acqua, come se si trovassero dentro L’isola dei morti di Arnold Böcklin.

Arlecchino e la maschera

L’albergo non distava molto dalla stazione dei vaporetti ma, non appena entrati, i ragazzi vennero travolti dalla musica sfrenata di un’orchestrina. Sembrava proprio che a Venezia non si potesse evitare il carnevale.

- Lasciate i bagagli alla reception e spassatevela, - suggerì un inserviente.

- Noi siamo sfiniti, vorremmo solo andare in camera, - disse il ragazzo.

- Viene servita una cena a buffet, è tutto compreso per chi dorme qui, - rilanciò quello, già alticcio. - Fatevi almeno una bevuta, un’ombra di vin!

I ragazzi entrarono nell’ampio salone che ospitava la festicciola per i clienti dell’albergo, non prima di essersi infilati le baute disponibili all’ingresso. Così mascherati bevvero e si rifocillarono un poco, nonostante il baccano. Tra quelle maschere se ne fece avanti una inconfondibile, un Arlecchino particolarmente festoso e su di giri.

- Sapere qual è il bello delle maschere che indossate? - disse, rivolgendosi ai ragazzi. - Che la bauta ha il labbro deformato e rialzato, così si può continuare a trincare senza togliersela!

I ragazzi annuirono senza convinzione, più per toglierselo dai piedi che per una sincera forma di cortesia.

Più tardi, mentre l’orchestrina suonava e le maschere ballavano, i ragazzi tornarono alla reception per fare il check in. Con loro grande sorpresa dall’altra parte del banco trovarono l’Arlecchino ubriacone di poco prima.

Vietato fare sesso

- Lei lavora qui? - gli chiesero.

- Faccio il portiere, - ammise l’Arlecchino, togliendosi la maschera per registrare i documenti.

I ragazzi lo guardarono barcollare mentre cercava la chiave giusta.

- Vi sconsiglio di fare sesso stanotte, - disse, strascicando la voce da ubriaco.

Il ragazzo dette un’occhiata scettica alla ragazza. - È uno scherzo di carnevale?

- So che può sembrare bizzarro, - riprese l’Arlecchino. - È solo un suggerimento. 

Il ragazzo ridacchiò spavaldo. - Questo è un albergo o cosa? Che significa che non si può fare sesso? Tanto valeva proibire il sonno. Ecco a voi il primo albergo in cui è vietato dormire.

All’improvviso l’Arlecchino sembrò dispiaciuto:

- Come non detto, fate finta che non vi abbia detto niente.

“Fermati”

L’arredamento della camera non aveva niente a che vedere con il lezioso stile veneziano, ma era più che passabile. Il ragazzo e la ragazza si liberarono della pesante sovraccoperta che ricopriva il materasso e buttarono a terra i quattro cuscini d’arredo che puzzavano di stantio. Sfecero le valigie e sbevazzarono un paio di birre prelevate dal frigobar.

- Strano, - disse la ragazza.

- Che cosa?

- Da qui non si sente più l’orchestrina suonare.

- Avranno smesso.

La ragazza annuì e andò ad aprire una finestra. Cercò di riconoscere il Leone di San Marco ergersi oltre quel banco d’acqua bituminosa, ma l’aria gelida di febbraio la ricacciò dentro la camera.

Poi si misero a letto e spensero le luci.

Mentre le tenebre infittivano il ragazzo disse:

- Che assurdità proibire il sesso dentro un albergo.

La ragazza si raggomitolò al suo petto:

- È la più grande fesseria che abbia mai sentito.

Il ragazzo fece scivolare la mano sulla schiena della ragazza, come a volerle contare le vertebre una per una.

- Fermati, - disse la ragazza.

- Perché?

- Siamo stanchi, abbiamo camminato tutto il giorno.

Nella camera regnò il silenzio per qualche stante.

- Non è per quel divieto, vero? - chiese all’improvviso il ragazzo.

- Cosa ti viene in mente? Ma figurati.

- Sicura? Se sto con una matta voglio saperlo.

Toc toc

Risero. Il ragazzo tornò alla carica, stavolta allungando la mano ben oltre l’osso sacro della ragazza. Furono interrotti da un rumore nel corridoio. Sembrava che qualcuno stesse trascinando un bagaglio enorme e inconsueto, niente a che fare con i soliti trolley. Dopo bussarono alla porta un paio di volte: due colpi secchi e ravvicinati.

- Chi era? - chiese la ragazza, da sotto le coperte. 

- Non lo so.

- Hai sentito quel rumore prima che bussassero?

- Sì, e non capisco.

Come una radicale forma di ribellione a quelle cose che non capivano, ripresero immediatamente a toccarsi e baciarsi. Ma quel rumore in corridoio tornò subito da loro. Era singolare, senz’altro spaventoso, come un cigolio ultraterreno, un lamento d’ignoto. Ancora una volta risuonarono sulla porta due colpi dati con la nocca di una mano.

- Adesso basta! - sbottò la ragazza.

Si fece coraggio, piombò giù dal letto e corse ad aprire la porta: riuscì a vedere soltanto una donna di spalle che girava l’angolo del corridoio.

- Chi era? - chiese il ragazzo, ancora pietrificato sul letto.

- Niente, - rispose la ragazza. - Avranno sbagliato.

Il ragazzo e la ragazza restarono svegli ancora per diverso tempo, ma nessuno dei due aveva più voglia di fare niente. Il buio si era fatto quasi impenetrabile, quasi insostenibile, ed entrambi furono d’accordo nel lasciare accesa la luce del bagno. Poi il ragazzo prese a carezzare la ragazza sui capelli, come per consolarla di qualcosa che gli sfuggiva.

Il risveglio

Al mattino prima di loro al check out trovarono l’arpista dell’orchestrina. Scherzava con sua moglie sul fatto che quell’albergo fosse una specie di labirinto.

- Mi sono perso per i corridoi, - diceva. - Non riuscivo proprio a ritrovare la camera.

Dopo aver pagato, andandosene, si trascinò dietro il suo bizzarro strumento. Il ragazzo e la ragazza si guardarono e tirarono un sospiro di sollievo. Anche se la ragazza, in cuor suo, sapeva di avere visto una donna nel corridoio e non un suonatore d’arpa. Quasi contemporaneamente a quella certezza mise a fuoco un quadro che ritraeva una donna. Era sistemato dietro la reception.

- Chi è la donna del quadro? - chiese.

- Ah, non sappiamo, - gli risposero mentre sbrigavano le consuete operazioni al desk, restituzione documenti, stampa di una ricevuta.

Soltanto il facchino, poco prima dell’uscita, le si accostò all’orecchio e le disse: - Era l’antica proprietaria, scoprì il tradimento del marito, si suicidò. 

L’aneddoto, ormai fuori dall’albergo, più che inquietarla la divertì. Lo raccontò subito al ragazzo che si predispose alla più antica forma di esorcismo conosciuta dall’uomo: si mise a ridere. La ragazza ci pensò ancora un poco alla stazione, mentre aspettavano il treno che li avrebbe riportati a casa.

Rifletteva sulla donna che aveva intravisto in corridoio e quella ritratta nel quadro, ammettendo a se stessa che non avrebbe potuto stabilire con certezza se fossero state o meno la stessa donna. La prima l’aveva vista di spalle, dentro una luce tenue, la seconda era soltanto il dipinto di un pittore discutibile.

La cosa passò in cavalleria, almeno finché non le capitò di leggere le recensioni di quell’albergo su un sito internet. Le saltò agli occhi una coppia che un paio d’anni prima aveva dato una valutazione impietosa alla struttura, soltanto una stella su cinque. 

Il commento, lapidario, diceva così: «Abbiamo passato la notte in bianco perché continuavano a bussarci alla porta».

© Riproduzione riservata