Sporgendosi dal cancellone d’ingresso di via Lugano, e dando le spalle al mare, ad Alfreda le si parò davanti il lungomare Tognazzi. Non lo vedeva ma se lo ricordava che nell’album panini della sua memoria quel macchione scuro oltre la strada, recintato da un muretto pittato di bianco, era il riquadro della figurina più importante di tutto il Villaggio: il campo da tennis. Aveva calpestato l’asfalto lentamente per arrivare fin lì, ancheggiando a causa del lipedema alla gamba destra e facendo piccole pause per placare il fiatone.

I margini di quella frazione di Pomezia che l’attore cremonese fondò un po’ come Enea fece con Roma, delineavano una realtà altra rispetto all’elegante complesso residenziale dove il donnone viveva col figlio. La mancanza d’illuminazione di quell’istmo di terra compreso tra il degrado e l’occasione mancata poi offendeva la bellezza di quello che era stato.

Prima del Grande Sogno

Oramai da anni, di notte, quella porzione del litorale aveva subìto una specie di regressus ad uterum; una retrocessione allo stadio precedente alla sua fondazione. Sì perché prima del Grande Sogno, quella riserva incontaminata, dove nemmeno un bar ci stava e la comunità di pescatori minturnesi – unici abitanti di quella terra quasi del tutto disabitata che dalla provincia di Latina si era accampata abusivamente nella zona per pescare le telline – era costretta ad andare a comprare i beni di prima necessità a piedi fino al borgo di Pratica di Mare dove c’era la pizzicheria della famiglia Celori.

Non c’erano né luce, né acqua potabile, prima del 1955. Tranne che per la Torvaianica-Pomezia, neanche una strada ci stava e per raggiungere la marina si era obbligati a passare per l’unica carrareccia fangosa che attraversava Campo Selva. Dalla metà degli anni Cinquanta in poi, con la costruzione della litoranea che la collegava con Ostia e Anzio, Torvaianica, vittima di un’urbanizzazione sconsiderata, perse in larga parte l’antica vocazione selvaggia piagata dalla cementificazione: tipo quella che Calvino raccontò nel suo romanzo La speculazione edilizia

Da Torvaianica, Cinecittà si raggiunge in mezz’ora. Il mare è pulito e pure la macchia mediterranea e le dune sono rimaste, pensò probabilmente Ugo quando, acquistati una decina di lotti incastonati tra Castel Porziano e Campo Ascolano ci costruì casa. E a frequentare per primi il nascente caseggiato furono i suoi amici di sempre: Raimondo Vianello e Luciano Salce alias Pilantra.

Lo scolapasta d’oro

Le case lì vennero comprate a poco a poco anche da altri che facevano cinema, ma non solo: dall’attore Riccardo Garrone a giornalisti del calibro di Mario Gherarducci. Essendo però Ugo il personaggio più rappresentativo, quel posto, non avendo un nome, e conosciuto principalmente come il mare dove sta Tognazzi venne nominato Villaggio Tognazzi.

In breve Ugo, oltre a costruire la villa con piscina dove abitava con la famiglia, nel lotto di via Lugano, quello che dava sul lungomare, fece edificare un campo da tennis. E fu grazie alla felice idea dell’attore, pessimo tennista, di arricchire con un rettangolo da gioco quel luogo che tutto ebbe inizio. Il mitico torneo di tennis lo Scolapasta d’oro – risposta goliardica all’insalatiera d’argento, ossia la Coppa Davis – nacque quasi per caso ma per circa venticinque anni fece di quello che poco prima fu un territorio quasi del tutto disabitato una sorta di costola della Dolce Vita.

Il torneo prese vita in ragione del fatto che Vittorio Gassman stava girando un film diretto da Salce e così nei weekend si fermava lì, e tra il serio e il faceto Ugo organizzò in fretta e furia un torneino con una decina di persone. Intorno alle gare, tra attori e gente del posto si creò una sorta di comunità dove ognuno contribuiva all’organizzazione.

Gherarducci ad esempio si occupava dell’ufficio stampa, il fratello della moglie di Ugo e altri amici che avevano casa lì badavano alla manutenzione del campo. Lo sceneggiatore Pino Patitucci era addetto agli sponsor e altre cose pratiche. Ognuno dava una mano in base alle proprie competenze. I figli degli organizzatori facevano i raccattapalle, quelli più qualificati, tipo gli ingegneri, preparavano il tabellone. Per oltre vent’anni i personaggi più noti del cinema italiano, scie luminose del panorama culturale, parteciparono all’iniziativa del popolare attore cremonese con lo scopo principale di creare un’occasione d’incontro tra i protagonisti del grande schermo nostrano, lontano dal rumore delle macchine da presa. Una kermesse che terminava con cene preparate personalmente da Ugo Tognazzi.

Ricordi felici

Alfreda ai rinfreschi nella villa dell’attore non partecipò mai ma quando invitò la Mondaini e Vianello a pranzo, Sandra le raccontò di quella volta che il marito andò a saccheggiare insieme a Paolo Villaggio la dépendance accanto alla villa che era stata adibita a cantina – dove Ugo teneva i prodotti che venivano dalla casa di Velletri – per manifestare la loro contrarietà nei confronti del menu esotico proposto dal proprietario di casa. Quando Tognazzi riemerse dalla cucina con le “costine alla Mao” e le temibilissime “ciuepin” (pizzette al succo di melanzana) – retaggio del periodo cinese di Ugo – Raimondo e l’attore genovese si barricarono nello scantinato depredandolo di ogni tipo di insaccati.

La manifestazione crebbe nel tempo al punto che poi fecero pure una diretta su Canale5 e diventando un evento di portata tale da aver bisogno di partner per fronteggiare spese folli che Tognazzi non intendeva sostenere.

Ci sono due cose per le quali ci si sente sempre ricchi: un bagno caldissimo e tanta luce. La luce ti fa diventare ricco, io quando accendo le luci del tennis, questi fari abbaglianti, mi sento veramente ricco. Quando arriva la bolletta un po’ meno, però dichiarò Ugo nel format Rai Ci vediamo stasera in casa di… del 1964. E così grazie al meraviglioso impianto notturno che gli dava la possibilità di vedere i suoi amici  giocare anche di notte, la gente che passava sulla litoranea, vedendo i fari accesi sul campo, si fermava a guardare. L’ingresso era libero da via Lugano e i curiosi entravano in massa. Per la gente comune che abitava nel Villaggio invece i Tognazzi avevano messo a disposizione un accesso apposito dal quale si accedeva al campo attraverso casa loro.

Per un attimo, ad Alfreda il ricordo dell’età dell’oro di quella porzione del litorale romano dove lei e il marito avevano scelto di vivere le carezzò la ghiandola della felicità. Di quel passato iniziò a recuperare, a fatica, qualche briciola di un immaginario fatto di aneddoti che le fecero nascere un sorriso sulla bocca.

Le tornò alla mente di quando Aurelio, il proprietario dell’alimentari del Lungomare delle Sirene, vedendo Renato Rascel – il più rosicone di tutto il torneo – inveire contro Nicola Pietrangeli che arbitrava la semifinale del singolare accusandolo di favorire l’avversario Franco Interlenghi, attaccandosi alla rete del campo gridò: «A Renà, sei piccolo ma grande», fomentando ancor di più il diversamente alto attore romano e suscitando l’indignazione della moglie che lo ammonì con un severo «Aurelio e tiette».

Tornare a sé stessi

Sorrise, un poco, poi si ricordò dell’ultima volta che vide Ugo. Era seduto in tribuna, in mezzo alla gente, aveva i bermuda Sergio Tacchini, una camicia a fiori tutta colorata e dei Rayban con le lenti gialle. Era bello, ma non come ne La vita agra. Era più come in Arrivederci e grazie. Accanto a lui c’era Francesco Nuti che a lei piaceva tanto perché la faceva ridere e spesso scherzava con il marito imitando la scena del film Caruso Pascoski durante la quale il protagonista ubriaco dice al comandante dei carabinieri dammi un bacino, e dai dammi un bacino.

Quando Alfreda tornò presente a sé stessa, guardò in lontananza le porzioni di territorio senza senso su cui le ex case abusive, condonate, tutte diverse tra di loro, sembravano cadute casualmente dal cielo. Poi lasciandosi alle spalle il macchione scuro un tempo illuminato dai fari del campo da tennis, percorse a ritroso l’istmo di terra compreso tra il degrado e l’occasione mancata, calamitata dal mare suo.

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